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L'autorità romana

Ultimo Aggiornamento: 14/02/2007 15:53
05/12/2006 13:44
 
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Written by: spirito!libero 05/12/2006 10.18
“titolo XXVIII di Calcedonia dice chiaro a tondo che “giustamente i padri concessero privilegi alla sede del’antica Roma, perché era la città imperiale””

Ciao Teodoro,

siccome, come sai, la questione mi interessa, non riesco a trovare la citazione riportata, mi risulta che in Calcedonia siano 20 in canoni e non 28, potresti illuminarmi ? Grazie.

[Modificato da spirito!libero 05/12/2006 10.24]




Per Andrea, qui trovi Calcedonia (451):

http://www.totustuus.biz/users/concili/

[Modificato da luigi2 05/12/2006 13.47]

[Modificato da luigi2 05/12/2006 13.49]

05/12/2006 14:01
 
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Scusate, chiedo venia avete ragione ho sbagliato a prendere il documento conciliare.... e pensare che l'ho letto più volte ma non ultimamente, mi ero dimenticato di cotanta dichiarazione.

Ciao e grazie
Andrea
06/12/2006 02:07
 
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Premetto che qui non voglio rispondere agli ultimi sviluppi di questa discussione (a Dio piacendo lo farò tra breve). Avevo in programma di fare un riassunto su cosa possiamo sapere della presenza di Pietro e Paolo a Roma da Ignazio e Clemente e dunque questo è lo scopo di questo scritto. Ho tratto le considerazioni che seguono dal già citato libro di Cullmann sul primato petrino (pag. 139 ss.), ma non vi stupite se le frasi che leggerete a volte non sono conformi al pensiero del teologo, ho dovuto fare dei tagli, a volte riassumere, a volte ampliare con materiale bibliografico più aggiornato come i lavori di Gnilka, Schatz e Tillard.

PARS I

Presenza e martirio di Pietro a Roma in Clemente

Il capitolo cinque( in parte quelli precedenti) della lettera di Clemente potrebbe essere intitolato “Le consegue dell’invidia”. Mediate vari esempi si dimostra che l’invidia tra fratelli ha conseguenze disastrose. Si giunge così al passo oggetto di studio e che cito per intero: cap.5 “Ma per lasciare gli esempi del tempo antico, passiamo ora ai lottatori del recente passato. Consideriamo i nobili esempi della nostra generazione. A causa della gelosia e dell’invidia le maggiori e giuste colonne furono perseguitate e lottarono fino alla morte. Poniamo di fronte ai nostri occhi i gloriosi apostoli: Pietro, che per ingiusta invidia dovette subire non uno o due ma molti colpi e così, resa la sua testimonianza, andò al luogo della gloria che gli spettava. A causa della gelosia e dell’invidia. Paolo riportò il combattuto premio della costanza: sette volte fu incatenato, dovette soffrire, fu lapidato, divenne araldo in oriente e in occidente ottenne una sì gran gloria per la sua fede. Dopo aver insegnato a tutto il mondo la giustizia ed essere giunto fino alle estremità occidentali del mondo e aver reso testimonianza dinnanzi ai potenti, fu liberato dal mondo e andò al luogo santo, egli, il maggior esempio di costanza.” Cap 6” A questi uomini dalla vita santa si unì una gran massa di eletti, che a causa dell’invidia patirono onta e sofferenze, divenendo così gli esempi più gloriosi fra noi. A causa dell’invidia donne vennero perseguitate, sopportate sevizie terribili e vergognose in veste di Manaidi e di Dirci, giungendo così alle meta sicura della corsa della loro fede e ricevendo il loro premio glorioso, esse, deboli nel corpo. L’invidia ha estraniato spose ai loro sposi invertendo la parola del padre Adamo: Questa è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Invidia e gelosia hanno distrutti grandi città e rovinato grandi popoli.”

In questo passo di parla col linguaggio tipico del cristianesimo primitivo del martirio di Paolo e Pietro. Di quest’ultimo si dice che “così giunse, dopo aver reso testimonianza, al luogo della gloria che gli aspettava, quel “rendere testimonianza” è “martyrein”, da cui deriva l’italiano “martire”. E’ impensabile per la storia della Tradizione cristiana primitiva raccontare a voce a qualcuno che un apostolo è stato martirizzato e non dire dove è accaduto, se Clemente sa della morte di Pietro sa anche dove è avvenuta, indipendentemente dal fatto che poi lo scriva o meno. Nel nostro passaggio Clemente non ha bisogno di menzionarla, potendo presupporre che fosse nota ai lettori, e specie ai lettori di Corinto. Dionigi di Corinto nel 170 d.C. scriveva infatti ai romani che la predicazione di Pietro e Paolo accomunava entrambe le chiese e dunque erano si può dire sorelle. TESTO
Inoltre Clemente narra solo indirettamente del martirio e lo usa come esempio per narrare le conseguenze dell’odio e della gelosia. Si parla anche di una massa di eletti che sono stati perseguitati, il riferimento è per forza alla persecuzione di Nerone visto che era l’unica massiccia finora capitata (Clemente per descrivere la massa usa un poly plethos, Tacito nel descriverla un altrettanto esplicativo “moltitudo ingens”(Tac. Ann. XV, 84), e poiché Clemente aggiunge “essi divennero un glorioso esempio tra noi” è la conferma definitiva che questa massa di martiri va identificata con la persecuzione della comunità romana condotta da Nerone. Il leitmotiv dell’intera lettera è, come sopra ricordato, la rovina che porta l’invidia e la gelosia fra fratelli, Clemente scrive alla comunità di Corinto lacerata dalle discordie interne a causa di falsi fratelli che una simile invidia ha già rischiato di distruggere la comunità romana, separando addirittura le mogli dai mariti e facendo sì che alcuni cristiani ne denunciassero degli altri.
Che quest'interpretazione sia esatta mi pare ulteriormente confermato se si confronta ciò che Clemente dice dell'invidia con ciò che troviamo, in proposito, nell'epistolario di Paolo. Questo ci riporta anzi al problema di fondo che c'interessa, quello della località nella quale si svolse il martirio. Fino ad ora abbiamo desunto dalla prima lettera di Clemente soltanto l'informazione che Pietro e Paolo sono caduti vittime di una persecuzione pagana in seguito a un contrasto interno fra cristiani, dovuto all'invidia. Ci domandiamo in base alle fonti a nostra disposizione, dove potevano verificarsi fatti del genere qual era la comunità, al tempo di Pietro e di Paolo, nella quale l'invidia poteva portare alla persecuzione e al martirio? Paolo in una sua lettera scrive esplicitamente che odio e invidia regnano nella chiesa nella quale egli si trova in quel momento, e più oltre che egli vi soggiorna come un prigioniero. Nella lettera ai Fil 1,15-17: “Alcuni predicano Cristo per invidia e per spirito di contesa; ma ce ne sono anche altri che lo predicano di buon animo. Questi lo fanno per amore, sapendo che sono qui (prigioniero) per la difesa del Vangelo, quelli invece per spirito di parte, non sinceramente, credendo di cagionarmi afflizione nelle mie catene”. Salta agli occhi che troviamo qui quasi le stesse parole che in I Clem. 5, in una lettera che Paolo scrive da una località nella quale è prigioniero : invidia, spirito di contesa
Certo, il luogo in cui fu composta la lettera ai Filippesi non è noto con sicurezza, non essendo menzionato nella lettera stessa, ma la ricostruzione cronologica della vita di Paolo fa coincidere questo periodo di prigionia con quello romano. Abbiamo visto che la gran folla di eletti, menzionata in I Clem. 6,1, i quali patirono il martirio a causa dell'invidia, dev'essere sicuramente situata a Roma (“fra noi”). Vedremo più avanti che la lettera ai Romani contiene accenni a contrasti fra il settore giudeocristiano e quello paganocristiano in seno alla comunità romana. Senza cadere in un circolo vizioso, possiamo dunque combinare queste indicazioni e dedurne che a proposito della comunità di Roma sappiamo: 1) vi regnava l'invidia (I Clem. 6, 1); 2) Paolo sembra temere di incontrarvi difficoltà a causa della mescolanza di cristiani di origine giudaica e pagana (Rom. 15, 20); 3) Paolo vi ha soggiornato in qualità di prigioniero dello Stato romano e nel corso della sua prigionia aveva da aspettarsi “tormento” da parte di altri membri della comunità (Fil. 1, 15 s.).
Ricordiamo con che tono acceso Paolo, proprio nella lettera ai Filippesi, attacca i giudeocristiani, i quali probabilmente vanno individuati nella cerchia di coloro che nella lettera ai Galati egli chiama “falsi fratelli” (2, 4). Nella lettera ai Filippesi egli giunge a chiamarli “cani”(3, 2). Questa gente che ovunque, nel corso di tutti i suoi viaggi, gli ha procurato difficoltà, se l'è trovata di fronte anche a Roma. Pietro non era di certo fra loro, in base a I Clem. 5 si deve pensare piuttosto che anche Pietro ebbe da soffrire da parte di quella gente.
Pietro, in quanto dipendente dalla comunità di Gerusalemme, con il suo atteggiamento libero nei confronti della Legge (Gal. 2, 11 ss.) si trovava in una posizione più difficile coi giudeocristiani di quella in cui si trovava invece Paolo; potremmo dunque benissimo considerare le “molte pene” patite a causa dell'invidia (I Clem. 5, 4) come difficoltà di questo genere nei rapporti con i capi di Gerusalemme e con i loro fanatici assistenti.
La lettera di Paolo ai Romani mostra che anche prima sua venuta tali contrasti si verificavano nella città. Paolo deve averne sentito parlare, solo così si spiega la polemica antigiudaica in una lettera indirizzata a una comunità che egli non ha ancora visitato. Si noti quanto egli tenga (15, 20 ss.) a scusarsi del fatto che per una volta, in via del tutto eccezionale, egli intende recarsi in una comunità che non ha fondato. La cosa gli sta tanto a cuore perché in tal modo egli viene meno alla fedeltà a un principio, al quale si è fatto una “questione d'onore” di rimaner sempre fedele, poiché gli pare che risponda allo spirito dell'accordo di Gerusalemme (Gal. 2, 9). L'insistenza con cui egli parla di questo nel cap. 15 mostra che egli si avvia non senza un certo timore verso una comunità probabilmente fondata e curata da giudeocristiani. Se anche nelle comunità da lui fondate egli doveva spesso lottare contro l'opposizione della missione gerosolimitana, quanto più in una comunità come quella di Roma, nella quale egli sarebbe stato considerato a priori come un intruso. Tutto quel passo del cap. 15 rivela una seria preoccupazione, che presuppone dunque una speciale conoscenza della situazione romana, evidentemente dominata dai giudeocristiani. Si spiega così la presentazione singolarmente lunga e accurata della sua persona, nei versetti iniziali, come pure il contenuto caratteristico della lettera
Gli avvenimenti verificatisi poi a Roma mostrano fin troppo quanto fosse giustificato il timore di Paolo.
I contrasti sembrano esservi stati così aspri che anche Pietro, forse venuto in quel periodo nella capitale proprio per appianare le difficoltà nella sua qualità di organizzatore della missione giudeocristiana, a causa del suo atteggiamento troppo conciliante fu attaccato in modo particolarmente aspro e abbandonato da gente della sua stessa cerchia. Pietro, come abbiamo visto, si trovava in una posizione particolarmente difficile bella sua qualità di capo della missione gerosolimitana; a Roma egli fu avversato soprattutto dagli estremisti del partito giudeocristiano.
È dunque possibile che i contrasti, i quali sembrano essersi acuiti dopo l'arrivo di Paolo, siano infine giunti, stando alla lettera ai Filippesi, all'ostilità aperta e che le cose siano andate così oltre che quella gente durante il periodo della persecuzione non esitò a designare all'autorità statale le figure di rilievo della chiesa, quando ne fu richiesta. Quest'ipotesi potrebbe trovare conferma nella fonte profana che riferisce dell'azione di Nerone contro i cristiani: in Tacito (Ann. XV, 44) leggiamo: “I primi (cristiani) arrestati, i quali avevano confessato, furono portati via e sulla base delle loro indicazioni una gran folla... “. Naturalmente non può essere provato che gli invidiosi siano stati proprio fra i “primi arrestati”: si tratta soltanto di un'ipotesi. Essa corrisponderebbe comunque alle parole di Gesù, contenute in Mt 24, 10: “Molti si tradiranno e si odieranno a vicenda…”
E anche possibile che l'attenzione dello Stato sia stata risvegliata diversamente; una cosa è certa, comunque: secondo l'opinione di Clemente questo avvenne a causa dell'invidia che divideva i membri di una comunità, e poiché è impossibile che una tale affermazione, contrastante con ogni tendenza posteriore, sia stata inventata, l'opinione espressa da Clemente doveva corrispondere alla realtà.
Naturalmente rimane teoricamente aperta la possibilità che si verificasse anche altrove ciò che si era verificato a Roma: che, cioè, contrasti interni di una comunità potessero offrire l'occasione all'esecuzione di cristiani da parte dello Stato, sicché non siamo assolutamente costretti a pensare che il quadro del martirio di Pietro sia stato il medesimo di quello di Paolo e della gran folla; tuttavia la cosa è improbabile e in ogni caso la presenza di un'invidia di questo genere è attestata soltanto per Roma da I Clem. 6, 1, quasi sicuramente dalla lettera di Paolo ai Filippesi nonché da quella ai Romani. Perciò l'indicazione “fra noi”, cioè nella comunità di Clemente, vescovo di Roma, (I Clem. 6, 1) vale con ogni probabilità per tutti i martiri cristiani enumerati dall'autore e causati dall'invidia. Non si può accertare se Pietro e Paolo abbiano sofferto il martirio contemporaneamente, nel corso della persecuzione neroniana o invece un poco prima di questa (separatamente); la loro morte è in ogni caso da situare durante il periodo della persecuzione.
Del resto è logico che Clemente, ad ammonimento dei Corinzi divisi, ricordasse loro, accanto alle fazioni che un tempo avevano smembrato la loro comunità (cap. 47), proprio quegli esempi di invidia e di gelosia che egli poteva citare dalla vita della comunità romana.
Qualcuno ha pure affermato che in Mar. 15, 10 l'evangelista avrebbe aggiunto, riecheggiando gli eventi romani: “Pilato sapeva che i capi sacerdoti glielo (Gesù) avevano consegnato per invidia”; Marco avrebbe infatti scritto il suo Evangelo a Roma)secondo Papia) e sarebbe stato testimone di quei fatti. (La tesi è di A. Fridrichsen)
Infine una traccia ulteriore di questi avvenimenti incresciosi pare essersi conservata nelle tarde leggende degli Atti di Pietro. Possiamo infatti leggervi che Pietro è stato giustiziato per aver invitato nobili romane ad abbandonare i loro sposi: il motivo dell'invidia gelosa potrebbe costituire almeno il nocciolo storico di questa leggenda(Actus Vercellenses, 33 ss)
Colpiscono però ancor più due passi degli Atti di Paolo: si tratta di narrazioni leggendarie nelle quali Paolo appare chiaramente vittima dell'invidia, a Corinto, dove un uomo afferrato dallo
Spirito avrebbe predetto a Paolo che sarebbe morto a Roma vittima dell’invidia (di nuovo il ritornello del “propter invidiam” legato a Roma). (Acta Pauli secondo il papiro della biblioteca di Amburgo, edito da Schmidt del 1936, P. 6 riga 27 del papiro)
Troviamo certamente combinati qui elementi di I Cor. 15, 32 e di I Clem. 5. In ogni caso sia gli Atti di Pietro che quelli di Paolo hanno conservato giustamente l'indicazione fornita da I Clem. 5, in base alla quale la morte dei due apostoli fu causata dall'invidia, anche se tali passi si figuravano quest'invidia nella forma assai primitiva della gelosia di un coniuge pagano nei confronti della moglie cristiana e ignoravano il pensiero della gelosia fra membri della comunità, di un “pericolo fra falsi fratelli” (II Cor. 11, 26), in quanto contraddiceva completamente alla loro tendenza.
Ecco dunque la conclusione: l'analisi della prima lettera di Clemente mostra, se non con certezza almeno con grande verosimiglianza, che Pietro patì il martirio a Roma all'epoca della persecuzione neroniana, mentre si verificavano divisioni nella comunità di quella città.
Questioni d’appendice sono le seguenti: chi è l’autore della lettera, che tipo di autorità ha sulla Chiesa di Corinto.
Quanto all’autore la lettera incomincia così: “La comunità di Dio che abita all’estero a Roma, alla comunità di Dio che abita all’estero a Corinto, ai chiamati, santificato secondo la volontà di Dio mediante nostro Signore Gesù Cristo”
“All’estero” contiene ovviamente l’idea che la patria della comunità cristiana non è sulla terra (cf. 1Pt 1,1 e 17; Fil 3,20), ad ennesima conferma che i primi cristiani non si sognavano di attribuire privilegi a Roma in qualità in virtù del suo posto nell’impero, bensì sulla base del martirio di Pietro e Paolo. La Chiesa di Roma scrive alla Chiesa di Corinto, ma ciò non esclude ancora che l’autore sia uno, è normale infatti che qualcuno si faccia portavoce della comunità, anzi è materialmente impossibile scrivere una lettera in decine di persone contemporaneamente. L’attribuiscono a Clemente: Erma, Pastor, Vis, II, 4,3 (questa citazione è in forse, non si menziona il nome dello scritto ma solo che Clemente mandava lettere alle altre città); Egesippo (In Eusebio Hist. Eccl., IV, 23, 11);Dionigi vescovo di Corinto (ibid, IV, 23,11); Clemente Alessandrino (Stromata, I, 7; IV, 17-18; VI, 8 ); Origene (De principiis, II, 3, 6; In Ezech., 8,3; 51,1; In Iohann., VI, 54; Eusebio (Hist. Eccl. III, 16, 38 ). Essendo questa lettera del 96 d.C., cioè praticamente del II secolo, avere testimonianze della medesima epoca quali Erma, Egesippo, Dionigi, tutti del II secolo, rende l’attribuzione molto forte. Questa lettera ha il carattere della correzione fraterna, ma questo non è il punto del contendere. Per sapere se la Chiesa di Roma esercitasse un primato a fine I secolo è opportuno sapere se tale correzione sia fatta col tono di un benevolo ammonimento fraterno o in maniera impositivo. Il primato da questa lettera risulta splendidamente, sia perché Roma prende l’iniziativa su una regione orientale, di tradizione apostolica, e dunque su una delle Chiese più in vista dell’ecumene, sia perché nella lettera si esige l’obbedienza e si minacciano i disobbedienti. Un esempio esplicativo: “Se qualcuno disobbedisce alle parole dette da Lui (Dio) per mezzo nostro (cioè la Chiesa di Roma), sappia che sta per incorrere in una colpa e in un pericolo non lievi… Ci procurerete una grande gioia se ubbidirete a quello che abbiamo scritto sotto la guida dello Spirito Santo.” (1Clem 59 e 63, cf. anche 65,1). Il risultato (Eus, Hist. eccl. IV 23, 11) mostra che tale autorità fu completamente riconosciuta, e dalla testimonianza di Dionigi, che era vescovo a Corinto 70 anni dopo i fatti, e dunque di sicuro non aveva 14 anni nel 170 ma come minimo 50, veniamo anche a sapere che tale lettera veniva conservata dalla comunità di Corinto e spesso letta all’assemblea.
Risponderò alle domande cronologiche che mi ha fatto Luigi nel mio prossimo intervento, spero sempre in settimana, dove analizzeremo cosa può dirci Ignazio di Antiochia su Pietro a Roma e sul suo martirio.

Continua…

[Modificato da Polymetis 06/12/2006 2.16]

06/12/2006 13:52
 
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“e poiché Clemente aggiunge “essi divennero un glorioso esempio tra noi” è la conferma definitiva che questa massa di martiri va identificata con la persecuzione della comunità romana condotta da Nerone.”

Premetto che per quanto mi riguarda il martirio di Pietro può anche essere avvenuto a Roma, io volevo solo dimostrare che Pietro non ha retto la comunità romana ne tanto meno ha dato il suo mandato a qualche vescovo di Roma. Comunque la frase sopra citata dell’articolo di Polymetis mi sembra significativa per far notare come si voglia davvero a tutti i costi far quadrare i cerchi. Questa è fanta-storia non ci sono santi. Ma come si fa a dedurre da quella frase e dal contesto di Clemente che il “presunto” martirio (presunto perché Clemente non lo dice esplicitamente) sia avvenuto proprio a Roma ? è un mistero logico insondabile.

Difatti mi sembra di gran lunga più equilibrata questa di frase:

“Clemente soltanto l'informazione che Pietro e Paolo sono caduti vittime di una persecuzione pagana in seguito a un contrasto interno”

anche se, ripeto, non si parla esplicitamente di martirio, tuttavia in questo caso è probabile che Clemente parli di tale avvenimento anche se non ne siamo certi. Fare dei parallelismi sul senso che gli autori di diverse epistole scritte in anni diversi volevano dare al termine “invidia” per ricondurre l’avvenimento citato da Clemente al martirio addirittura in Roma, mi sembra davvero piegare i fatti alla nostra visione della storia.

“Pietro, in quanto dipendente dalla comunità di Gerusalemme, con il suo atteggiamento libero nei confronti della Legge (Gal. 2, 11 ss.) si trovava in una posizione più difficile coi giudeocristiani di quella in cui si trovava invece Paolo; potremmo dunque benissimo considerare le “molte pene” patite a causa dell'invidia (I Clem. 5, 4) come difficoltà di questo genere nei rapporti con i capi di Gerusalemme e con i loro fanatici assistenti.”

Non condivido anche questo passaggio. Sappiamo che Pietro fu ripreso dalla Chiesa di Gerusalemme per il fatto che cenava con i pagani convertiti che non rispettavano i precetti giudaici. Pietro subito obbedì al richiamo della sua Chiesa distaccandosi da costoro. Il tipo di cristianesimo che predicava l’apostolo non è affatto chiaro, dalle fonti pare di notare in lui una posizione che sta a metà tra l’estremismo paolino (apertura totale ai gentili escludento i precetti giudaici) e l’estremismo opposto di Giacomo (totale rispetto della legge e dei riti di purificazione). Dunque ipotizzare una sorta di ostilità dei giudeocristiani nei confronti di Pietro non ha molto senso, mentre lo può effettivamente avere se ipotizziamo tale risentimento nei confronti di Paolo. Mi viene tuttavia da riflettere sul fatto che quando io parlai di contrasti accesi tra giudeocristiani e paganocristiani qualcuno di mia conoscenza mi obiettò che non vi sono prove storiche di tale conflitto, ora tali prove compaiono, ne deduco che almeno abbiamo fatto un passo avanti.

“Essa corrisponderebbe comunque alle parole di Gesù, contenute in Mt 24, 10: “Molti si tradiranno e si odieranno a vicenda…” “

Parole così vaghe possono voler dire qualsiasi cosa.

“non siamo assolutamente costretti a pensare che il quadro del martirio di Pietro sia stato il medesimo di quello di Paolo e della gran folla”

Direi che non abbiamo alcuna evidenza in questo articolo, ma solo congetture, alcune delle quali molto forzate se non addirittura fantasiose.

“l'analisi della prima lettera di Clemente mostra, se non con certezza almeno con grande verosimiglianza, che Pietro patì il martirio a Roma”

Ma quando mai ! Non si parla esplicitamente di martirio, per non parlare del luogo, dedurne che sia stato a Roma è davvero inventare di sana pianta.

“ennesima conferma che i primi cristiani non si sognavano di attribuire privilegi a Roma in qualità in virtù del suo posto nell’impero”

Come già detto non mi riferivo all’importanza di Roma in quanto città imperiale nel senso politico del termine, ma nel senso di importanza sociale, geografica, economica, della comunità in essa formatasi, inoltre mi dovresti spiegare questo passaggio, già evidenziato da Teodoro, del concilio ecumenico (infallibile ?) di Calcedonia (451):

XXVIII.
Voto sui Privilegi della sede di Costantinopoli.
Seguendo in tutto le disposizioni dei santi padri, preso atto del canone [III] or ora letto, dei 150 vescovi cari a Dio, che sotto Teodosio il Grande, di pia memoria, allora imperatore si riunirono nella città imperiale di Costantinopoli, nuova Roma, stabiliamo anche noi e decretiamo le stesse cose riguardo ai privilegi della stessa santissima chiesa di Costantinopoli, nuova Roma. Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell'antica Roma, perché la città era città imperiale. Per lo stesso motivo i 150 vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l'imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell'antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella.

“Il primato da questa lettera risulta splendidamente”

Per nulla. Mi si dica dove risulta “splendidamente” tale primato ! E’ assurdo perché tutti gli storici seri concordano sul fatto che le prime comunità erano rette dal collegio dei presbiteri e non dal vescovo monarca.

“perché Roma prende l’iniziativa su una regione orientale”

Sai bene che la mutua vigilanza delle chiese era normalissima in quel periodo.

“per mezzo nostro (cioè la Chiesa di Roma)”

Questa aggiuntina tra parentesi non ti sembra un modus operandi del tutto fuori da ogni criterio storico ? Quel “per mezzo nostro” sta per i cristiani o i presbiteri in senso generico e non significa la Chiesa di Roma !

Saluti
Andrea

06/12/2006 18:39
 
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Le obiezioni dopo, per il momento mi interessa finire l’analisi dei testi (le fonti sono quelle già citate: Cullmann pagg.147 ss., Schatz 40 ss. Gnilka 197 ss.)

PARS II

Presenza e martirio di Pietro e Paolo a Roma secondo Ignazio
.
Nelle sue lettere Ignazio (morto martire nel 107) esorta le altre comunità all'unità, soprattutto all'unità col vescovo («Non fate niente senza il vescovo»), e le mette in guardia contro le eresie, la sua Lettera ai Romani è redatta in tono del tutto diverso: non contiene ammonizioni né insegnamenti, ma soltanto elogi; la chiesa di Roma non ha bisogno di essere istruita, perché è lei che “ha istruito gli altri”. I passaggi decisivi dell'indirizzo di saluto suonano così:
“Ignazio, detto anche Teoforo, alla chiesa che ha ricevuto misericordia nella grandezza del Padre Altissimo e di Gesù Cristo, il suo unico figlio, alla chiesa amata e illuminata nella volontà di colui che ha voluto tutte le cose che esistono, secondo la fede e l'amore di Gesù Cristo, il nostro Dio, (alla chiesa) che anchepresiede nel territorio dei romani, degna di Dio, degna d'onore, degna d'esser detta beata, degna di lode, di successo, di santíficazione, che presiede all’agape, ha la legge di Cristo, porta il nome del Padre, e che io anche saluto in nome di Gesù Cristo, figlio del Padre...”

All'inizio del II sec. questo martire, condannato alla esecuzione nel circo di Roma, scrive, durante il suo viaggio di prigioniero, alla comunità cristiana di Roma che sarà presto testimone del suo martirio.
Nel cap. 4, 3 di questo scritto leggiamo: “lo non v'impartisco ordini come Pietro e Paolo, quelli (erano) apostoli, io un condannato; quelli liberi, io finora uno schiavo; ma se soffro diventerò un liberto di Gesù Cristo, e risorgerò in lui uomo libero”. Così scrive Ignazio alla comunità di Roma, ed è degno di nota che egli richiami alla memoria proprio di quella comunità gli esempi di Pietro e di Paolo. Poiché Pietro non ha mai scritto leggere ai romani, se ne evince che sia stato a Roma direttamente. Tuttavia la frase potrebbe semplicemente significare, per Ignazio : “non vi do ordini come se io fossi Pietro e Paolo”. Dà però da pensare che egli proprio nella lettera ai Romani non si accontenti di quest'espressione generica ma citi per nome proprio Pietro e Paolo. Non si può assolutamente considerare automatica la giustapposizione di Pietro e di Paolo, quando si menzionavano nomi di apostoli: questo potrebbe infatti valere per il periodo posteriore, ma non certo per quello di Ignazio. Non si può eludere il problema del perché i due apostoli fossero menzionati insieme, benché
essi, a parte l'incontro di Gerusalemme e lo scontro di Antiochia, non avessero mai operato insieme e anzi, in base all'accordo di Gerusalemme (Gal. 2, 9), dirigessero due organizzazioni missionarie distinte
La risposta più plausibile mi pare essere il fatto che patirono insieme il martirio a Roma, tanto più che si può provare che in un altro passo (3, 1) Ignazio si rifà alla prima lettera di Clemente. Anche nel nostro passo il fatto che i due apostoli siano menzionati insieme si spiega nel modo migliore se consideriamo che Ignazio ricorda ai Romani proprio quegli apostoli che in mezzo a loro perirono martiri, come in qualità di martire egli giunge ora fra loro. Anche se egli sottolinea il distacco esistente fra loro e se stesso, questo paragone negativo ha senso soltanto se l'autore ha, d'altro canto, coscienza di avere qualcosa in comune con loro : non può trattarsi dell'apostolato, bensì del martirio a Roma. Nel passo parallelo della lettera ai Tralliani (3, 3) Ignazio non menziona il nome di alcun apostolo : non aveva alcuna ragione di farlo, scrivendo a una comunità che non aveva ricevuto alcuna visita apostolica. Invece nella lettera agli Efesini, fra i quali Paolo era stato, egli menziona per nome questo apostolo, se pure in tutt'altro contesto (12, 2). Egli chiama gli Efesini “i consacrati di Paolo”, poiché Paolo ha esercitato l'apostolato in Efeso. Analogamente Ignazio menziona Pietro e Paolo nella lettera ai Romani, poiché entrambi erano stati a Roma-
Evidentemente neppure questi testi di Ignazio ci forniscono una certezza assoluta, ma dobbiamo anche (lui concludere che un martirio romano di Pietro e di Paolo è assai probabile.
Questo passo permette di trarre qualche conclusione anche in merito a un'attività precedente dei due apostoli, in Roma? Il verbo “dare ordini” sembra suggerirlo. Qualcuno ha affermato, è vero, che in tal modo sarebbero semplicemente indicate le istruzioni date da Paolo nella sua lettera ai Romani. Ma in tal caso non si comprenderebbe l'accostamento del nome di Pietro Rileggiamo dunque il passo: “Io non vi comando come Pietro e Paolo. Quelli sono apostoli, io un condannato! Quelli sono liberi, io sono ora uno schiavo! Ma quando avrò patito, sarò liberto di Gesù Cristo e risorgerò in lui, un essere libero! E adesso imparo a essere in catene senza desideri» (Ign., Rom. 4,3). Che questo passo sia più recente rispetto ai frammenti apocalittici trattati due messaggi fa, in particolare, anche alla Prima lettera di Clemente risulta evidente dal parallelismo tra Pietro e Paolo che, per così dire, è dato già per scontato, mentre nel fr. Rainer Pietro figurava solo. Mentre gli altri testi parlano soltanto di Pietro, mentre la Prima lettera di Clemente elenca i nomi di Pietro e Paolo uno accanto all'altro, in Ignazio i due apostoli appaiono, in un certo senso, già fusi insieme. Questa è l'ottica che favorì, e forse già presuppone, la concezione che Pietro e Paolo siano stati uccisi contemporaneamente durante la persecuzione neroniana. Pietro viene nominato al primo posto perché è l'apostolo più anziano e quindi anche più importante. Ignazio cita Pietro e Paolo per il loro particolare rapporto con la comunità di Roma: il che significa che essi si recarono a Roma e vi sono morti. Questo rapporto abbastanza stretto con Roma può essere dedotto dall'osservazione statistica che su sette lettere di Ignazio solo in quella ai cristiani di Roma si fanno i nomi dei due apostoli. Come già detto solo in un'altra lettera, quella ai Cristiani di Efeso, viene ancora citato per nome un apostolo, precisamente Paolo – “voi siete coiniziati di Paolo”, sicuramente perché Ignazio sa che Paolo ha operato a Efeso. Era dunque prassi nominare l’apostolo da cui una comunità aveva ricevuto la predicazione, se tale apostolo esisteva.
Nella Lettera ai Romani Ignazio parla del martirio che lo aspetta a Roma. Davanti agli occhi spirituali vede l'arena nella quale sarà maciullato dalle fiere: “Lasciatemi diventare cibo delle fiere mediante le quali mi è possibile giungere a Dio... Lusingate piuttosto le fiere, affinché diventino la mia tomba...” Queste parole precedono immediatamente la menzione di Pietro e Paolo. Qui egli gioca con le parole libero e schiavo: fino a questo momento si sente schiavo. Col martirio diventerà liberto di Gesù Cristo perché risorgerà uomo libero in lui. Quando descrive Pietro e Paolo come uomini che sono liberi, Ignazio si riferisce certamente al loro martirio con il quale anche loro hanno raggiunto la libertà definitiva (anche perché dice di essere schiavo “finora”, mq dopo il martirio non lo sarà più). Nella lettera ai cristiani di Efeso Ignazio dichiara esplicitamente di voler essere trovato a seguire le impronte di Paolo sul cammino che porta a Dio, cioè seguire l'apostolo nel martirio. Come la città di Efeso fu per Paolo un passaggio del suo cammino definitivo verso Dio, così sarà anche per lui, Ignazio, che nella traduzione da Antiochia a Roma passa in catene per Efeso. Se Ignazio paragona, anzi mette in parallelo, il proprio destino con quello di Pietro e Paolo, si può presumere che sappia del loro martirio romano. Come lui sta andando incontro alla morte violenta a Roma, così essi sono già giunti a destino percorrendo il medesimo cammino che porta a Dio.
Già ricordavo che mentre le lettere ai destinatari dell'Asia Minore contengono anzitutto esortazioni all'unità sotto il vescovo e i suoi collaboratori davanti alla minaccia di una eresia che è incombente, nella Lettera ai Romani non si sente nulla di tutto ciò. Ignazio sembra non essere informato sullo stato presente della comunità romana o lo considera buono. La lettera ha l'unico scopo di preparare il suo arrivo a Roma e quindi il suo martirio. Cristiani della Siria lo hanno già preceduto a Roma(10,2)). Non si accenna che anch'essi debbano affrontare un processo. Ignazio non è sicuro se arriverà al traguardo, Roma!
La sua preoccupazione maggiore, comunque, è - per quanto la cosa possa suonare strana ai nostri orecchi - che i romani potrebbero evitargli il martirio. In che modo? Evidentemente intercedendo per lui. Questa idea fissa attraversa tutta la lettera come un cantus frrmus. Gli si lasci la parola: “Ho paura del vostro amore, mi potrebbe danneggiare” (1, 2); “concedetemi il piacere di essere offerto a Dio finché l'altare è ancora pronto” “non impeditemi di guadagnare la vita”; «se soffro, avete avuto buone intenzioni per me” (8,3).
Il suo struggente desiderio di martirio consegue dalla sua concezione del martirio. E questa concezione sta a sua volta in relazione con il suo rapporto con la comunità di Roma. Ignazio sa del soggiorno romano degli apostoli Pietro e Paolo e anche del loro martirio nella città. L'opera degli apostoli, che egli conferma anche per Efeso, qui con riferimento a Paolo, si unisce quindi al ricordo che entrambi gli apostoli sono morti martiri. La loro particolare grandezza sta nell'essere insieme apostoli e martiri, una grandezza che ricade anche sulla comunità nella quale operarono e morirono.
Da qui un fascio di luce cade sull'inizio della lettera. L'alta considerazione della comunità romana appare in chiara evidenza. Si è qui in presenza del più. completo e solenne inizio delle sue sette lettere, seguito dalla Lettera agli Ffesini che è anch'essa, appunto, una lettera diretta a una comunità apostolica. La Lettera ai Romani si rivolge, come tutte le lettere di Ignazio dirette a comunità, all'intera comunità locale. L'indirizzo invero è formulato diversamente dalle altre lettere dove recita: Ignazio alla chiesa a Efeso, a Traili, a Filadelfia; oppure: Saluto la chiesa di Magnesia. Nella Lettera ai Romani si legge invece (lo cito nuovamente per comodità): “Ignazio alla chiesa che esercita la presidenza nel luogo del territorio dei romani”
Che cosa significa quando della comunità si dice che essa “esercita la presidenza nel luogo del territorio dei romani”? La formulazione appare imprecisa e ha dato luogo a qualche malinteso. Ciò dipende dal linguaggio di Ignazio che spesso è inutilmente verboso e tende al pathos, ma potrebbe riflettere il suo stato d'animo in attesa del martirio. “Esercitare la presidenza” è espressione burocratica che Ignazio usa in questo senso altrove parlando del vescovo come di colui che esercita la presidenza al posto di Dio o definisce i detentori di una carica, qui si tratta probabilmente dei presbiteri, semplicemente come coloro che hanno la presidenza: “Siate una cosa sola col vescovo e con coloro che hanno la presidenza”, è la nota formula rivolta alla Chiesa della Magnesia. Il territorio dei romani dev'essere più grande della città di Roma, altrimenti non avrebbe senso dire che la comunità cui si rivolge nella lettera esercita la presidenza. Fin dove si può far arrivare il territorio dei romani? Impossibile dire cosa intendesse. Sul “preside all’agape” s’è già detto in messaggi precedenti, e specie su come agape in Ignazio venga usato altrove come cetonia per “ekklesia”. Per chi se lo fosse perso questa sintesi di Falbo: www.santamelania.it/approf/2005/papers/ignazio.htm

Continua…

[Modificato da Polymetis 06/12/2006 18.42]

07/12/2006 12:48
 
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Caro Polly,


Evidentemente neppure questi testi di Ignazio ci forniscono una certezza assoluta, ma dobbiamo anche (lui concludere che un martirio romano di Pietro e di Paolo è assai probabile



Dire "assai probabile" con queste considerazioni mi pare azzardato, diciamo che potrebbe essere al massimo "compatibile" ma dalla lettura di Ignazio in sè non si può evincere nulla specialmente se confrontate con gli scritti canonici che tacciono perfino la presenza di Pietro a Roma.

Per altro sarebbe da capire anche quanto storici siamo gli scritti di Ignazio (a partire dallo strano viaggio per essere messo a morte e dal fatto che nessuna fonte antica ne attesta il martirio a Roma!) con la sua esaltazione ed il suo punto di vista che non sappiamo quanto fosse condiviso... insomma egli rappresenta solo un punto di vista limitatoe non la realtà storica del momento che invece sembra essere molto più complessa.

A mio parere le sue parole, se lette in modo neutrale, farebbero propendere addirittura per l'assenza di Pietro in quella città, infatti non vi è alcun riferimento diretto al suo martirio, non vi è riferimento al fatto che fosse vescovo di quella città o che il vescovo ne fosse successore.

E' certo possibile che cominciassero a nascere delle leggende sulla presenza Pietro a Roma, ma come pie invenzioni e non come fatti storici devono essere considerate, alla stregua del presunto "bollito" che secondo Ireneo fu tentato con Giovanni a Roma. Insomma dagli scritti appare una volontà di "legittimare" Roma in modo via via crescente con gli anni. Questa mi pare l'unica conclusione seria e non apologetica che possiamo trarre da documenti (per di più numerosi!) che nel I secolo non testimoniano la presenza di Pietro, che nella prima metà del II potrebbero accennarla e nel III la confermano!

Il fatto stesso che Ignazio non ne faccia riferimento diretto indica che evidentemente poteva facilmente essere smentito. Se poi come tu sostieni se nella 1 di Pietro Babilonia sarebbe una maniera criptata per intendere Roma l'uso di un eufemismo (altrimenti assurdo mel contesto della lettera) farebbe pensare che quello che tu ritieni un anonimo autore evitasse di scrivere "Roma" in modo chiaro perchè poteva essere smentito da quanti sapevano benissimo che Pietro non vi era mai stato.

Certo esiste una tendenza fin dal II secolo a scalzare Gerusalemme, Alessandria e Antiochia (in un periodo turbolento) per dare autorità alla chiesa di Roma rafforzandola inventando la "fondazione" di ben due figure apostoliche, e sappiamo quanto sia facile con la devozione popolare... basti pensare che Padre Pio ha abbondantemente preso il posto di Gesù!

Shalom

[Modificato da barnabino 07/12/2006 13.04]

24/12/2006 15:12
 
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ULTIMA RATIO SUL PRIMATO

"Agricolae, caementarii, fabri, metallorum lignorum que caesores, lanarii quoque et fullones et ceteri, qui variam supellectilem et vilia opuscula fabricantur, absque doctore non possunt esse, quod cupiunt. Sola scripturarum ars est, quam sibi omnes passim vindicent: scribimus indocti docti que poemata passim. Hanc garrula anus, hanc delirus senex, hanc soloecista verbosus, hanc universi praesumunt, lacerant, docent, antequam discant […] et, ne parum hoc sit, quadam facilitate verborum, immo audacia disserunt aliis, quod ipsi non intellegunt. Taceo de meis similibus, qui si forte ad scripturas sanctas post saeculares litteras venerint […] sed ad sensum suum incongrua aptant testimonia, quasi grande sit et non vitiosissimum dicendi genus depravare sententias et ad voluntatem suam scripturam trahere repugnantem […] Puerilia sunt haec et circulatorum ludo similia, docere, quod ignores, immo, et cum clitomacho loquar, nec hoc quidem scire, quod nescias." (Epistula LIII ad Paulinum presbyterum, 7)

Per Spirito Libero

"inoltre mi dovresti spiegare questo passaggio, già evidenziato da Teodoro, del concilio ecumenico (infallibile ?) di Calcedonia (451)"

Io non posso che risponderti che se vuoi discutere con me devi leggere quello che scrivo. Io e Teodoro avevamo già trattato di questo passo, trovi la mia risposta in proposito alla fine di pagina quattro. Teodoro aveva scritto: "in un tempo in cui da parecchio Roma non era più la capitale, nei concili non si fa alcun mistero che il motivo del nuovo prestigio acquistato dalla sede costantinopolitana non risiedeva nella fondazione apostolica (di recente invenzione) ma nel fatto che Costantinopoli era la "nuova Roma".”
La mia risposta fu:
"Ma qui il clima è totalmente cambiato, l’impero d’Oriente da persecutore è diventato garante dei cristiani, dunque c’è una sorta di unione tra trono e altare, quello che poi la storiografia chiama cesaropapismo bizantino"
Qui sì la legittimazione politica di Costantinopoli è palese, ma questo fattore non spiega la preminenza di Roma, giacché nei primi tre secoli un simile tipo di legittimazione al massimo può giocare un effetto contrario, sia per ideologica separazione dei cristiani rispetto al secolo (nel mondo, non del mondo), sia perché Roma era la persecutrice, Babilonia la grande.

"del concilio ecumenico (infallibile ?)"

Questi sono problemi da manuale. La Chiesa di Roma non ha mai riconosciuto il canone 28. Roma basa questo suo rifiuto sui seguenti punti:
Non fu decretato autentico da tutti i 500 Padri del Concilio ma solo da 200 circa, ed in una sessione non presieduta dai legati romani.(ergo non si può dire ecumenico)
Costoro, il girono dopo, nella XVI sessione, elevarono contro il decreto una decisa protesta che vollero inserita negli atti; Papa Leone I, malgrado le insistenti sollecitazioni dei firmatari, di Marciano e del vescovo Anatolio, l'abrogò esplicitamente (Ep. 105 ad Pulcheriam Augustam; PL 54, 1000)
Roma non aveva mai basato la sua preminenza sulla politica né ha senso far derivare diritti divini come quelli i un vescovo dall'impero. Il canone ventotto manca nelle collezioni canoniche orientali prima dell'VIII secolo, forse per effetto della protesta di Roma, che in seguito venne ignorata. (Su tutto questo basta aprire l'Enciclopedia Cattolica alla voce "Costantinopoli" per conoscere il parere della Chiesa di Roma su questo punto)

"Centro delle attività, luogo centrale e più importante da diversi punti di vista, come te lo devo dire ? Tutti andavano a Roma per vari motivi, dunque la comunità romana era di gran lunga la più cosmopolita dell’impero."

In primis tu hai in mente New York del XX secolo e non Roma, non si viaggiava abitualmente da una parte all'altra dell'impero perché richiedeva settimane se non mesi (dipendeva dal mare sopratutto), il modello greco e orientale è basato sulla struttura della polis e in età ellenistica sul modello dei regni dei diadochi, ogni regione aveva il suo centro, la sua metropoli. Non ha senso dire "tutti andavano a Roma", presuppone una mobilità della massa che nel mondo antica non c'era: si viaggiava per affari militari, istruzione (frequentare qualche scuola filosofica), commercio. Non è abituale per un suddito dell'impero del primo secolo dell'Asia minore finire a Roma, per nulla. Anxi per un orientale i punti di riferimento, anche più cosmopoliti di Roma, sono città come Alessandria d'Egitto (che tanto per inciso a livello di traffico commerciale era molto più in auge di Roma in quanto città). Inoltre devi ancora provarmi con qualsivoglia fonte cosa c'entri tutto ciò con la dottrina, ossia perché mai dovrebbe venire in mente ad un cristiano, che come ripeto si vanta ideologicamente di essere distaccato dal secolo e paragona i lussi di Roma a quelli di Babilonia, di proclamare una città dell'altro capo del globo di preminenza quanto a fede in base a questi criteri del tutto mondani (che al contrario sono attestati come detestati).

"Ti sto dicendo che la preminenza è iniziata prima del IV secolo, in seguito a questo poi nel IV l’autorità romana si inizia a consolidare ufficialmente."

Se vuoi attestazioni a livello di diritto canonico della preminenza di Roma nei primi quattro secoli hai sbagliato interlocutore, non mi interessa produrli ed è storicamente infondato sia cercarli che richiederli. La Chiesa antica non aveva un corpo di leggi scritte, non esiste un codice di diritto canonico nei primi secoli. Qui bisogna ricordare con Kelsen la differenza tra ius e lex. le dottrine dobbiamo trovarle nei Padri che ne parlano dal punto di vista dottrinale, inutile cercare una legislazione ecclesiastica che a quel tempo non esisteva e che inizierà appunto grazie alla raccolta dei canoni di sinodi e Concili.

"E paradossalmente anche per questo che venne ritenuta tra le comunità cristiana più importanti. I cristiani di Roma erano considerati di gran lunga i più “fedeli”, giacché abitavano proprio nel “cuore della bestia”."

Ma questa non è una risposta. Ciò spiega perché i cristiani di Roma siano onorati, appunto perché abitano in mezzo al male, ma questa constatazione non rivaluta assolutamente quel "male" né ne fa il criterio per scegliere quale sia la Chiesa preminente. Io stesso ho detto che la Chiesa di Roma era preminente per i suoi martiri, ma ciò non implica alcunché sul fatto che una sede sia da ritenere preminente dottrinalmente proprio in virtù delle cose che in lei si odiano.

"Inoltre Roma era perfetta per placare la sete del martirio che investì molti primi cristiani, diversi viaggiavano verso Roma proprio per la ricerca del martirio e per emulare le gesta di Paolo e di altri."

Un cristiano ama la vita. Il martirio può essere desiderato come in Ignazio nel momento in cui sei nel tunnel che ti porterà ad esso, non lo guardi cioè con paura, ma da qui a ricercarlo se prima non sono i persecutori ad averti scovato ne passa. Hai esempi di quanto affermi?

"la comunità fosse stata retta dal capostipite della corrente cristiana dominante (Paolo)"

E perché gli orientali non si sarebbero potuti rivolgere a una delle molte altre comunità paoline come Corinto o l'importantissima Efeso?

"Gli apologeti in seguito, al fine di contrastare le nascenti eresie esterne e interne ebbero bisogno di una struttura gerarchica che mantenesse una ortodossia e dunque anche di un’autorità centrale alla quale riferirsi."

Questo non è il seguito, sono gli Atti degli apostoli, dove c'è già la tripartizione episkopos, presbyteros, diakonos. Con la nota che tutti gli episkopoi sono presbyteroi (come oggi del resto), mentre non tutti i presbyteroi sono episkopoi. I preti oggi ricevano ancora in sequenza i tre gradi dell'ordine. Appare già una predicazione "organizzata", col Concilio di Gerusalemme che stabilità le due missioni. A ciò si aggiunga il famoso passo degli Atti in cui gli apostoli riuniti nel Concilio scrivono ai fratelli convertiti dal paganesimo che coloro che li hanno turbati sono persone a cui "loro non avevano dato alcun incarico", il che è la conferma che si veniva mandati a predicare dal collegio apostolico.

"Per dare il massimo dell’autorevolezza e per fornire la prova che la dottrina fosse rimasta quella predicata da Gesù, si fece risalire la fondazione della comunità romana non solo a Paolo apostolo ma anche a Pietro, il primo degli apostoli."

Veramente la menzione al "solo Pietro" a Roma è più antica della menzione di "Pietro e Paolo" accoppiati insieme (il fr. Rainer e l'Ascensio Isaiae del I secolo che ho analizzato in uno dei miei precedenti post). Ho fatto cioè notare seguendo in questo Cullmann che sono più antichi i passi in cui si parla di un martirio di Pietro a Roma senza citare Paolo che quelle in cui essi vengono accoppiati. Inoltre, come ripeto sempre, trovare un movente non vuol dire trovare un colpevole.

"Questo è confermato dallo studio della patristica, nella quale si ravvede una tendenza alquanto strana, ossia man mano che ci si allontana dalla data della presunta morte di Pietro a Roma, la tradizione si arricchisce sempre più di particolari !"

Ma ciò nulla c'entra con il nocciolo storico del fatto. Su questo punto avevo già contestualizzato una citazione semi-fasulla di Barnabino dal grande teologo protestante Cullmann: “non è però corretto attribuire a tali tendenze l’invenzione del soggiorno e del martirio di Pietro a Roma: la funzione di esse può essersi limitata a sottolineare e a prolungare tradizioni più correnti. D’altra parte questi testi più tardivi, che con forza e uniformità sempre maggiori attestano che Pietro è stato a Roma e vi è morto martire, dal punto di vista storico possono avere per noi interesse soltanto per ciò che riguarda la storia dei dogmi, in quanto attestano lo sviluppo della tradizione”(pag. 154-155) Abbellimento della tradizione, una tradizione solida, non invenzione. Per qualsiasi evento della storia col passare del tempo crescono i particolari leggendari, persino per l'assassinio di Cesare alle Idi di Marzo si registra lo stesso processo, ma ciò non vuol dire che il nucleo originario sia fasullo. Prima neppure sappiamo se se a pugnalarlo sia stato Bruto il figlio illegittimo ma naturale o l'altro Bruto, il figlio adottato, poi invece sappiamo persino chi fu il primo ad mettere a segno il colpo e il numero esatto delle pugnalate, e ciliegina sulla torna veniamo a sapere che l'ex-moglie Calpurnia aveva sognato l'attentato la notte precedente e aveva tentato di avvertire Cesare.

"Clemente 96 d.c. in 1 Corinzi 5, 2-6, 1 non sa praticamente nulla di ciò che accadde a Pietro ne è certo che le espressioni che usa si riferiscano al martirio."

A me sembrano piuttosto eloquenti. "A causa della gelosia e dell’invidia le maggiori e giuste colonne furono perseguitate e lottarono fino alla morte. Poniamo di fronte ai nostri occhi i gloriosi apostoli: Pietro, che per ingiusta invidia dovette subire non uno o due ma molti colpi e così, resa la sua testimonianza, andò al luogo della gloria che gli spettava." Prima si parla del fatto che molti furono perseguitati fino alla morte, poi si fanno degli esempi, ed in uno di questi, Pietro, si dice che "rese testimonianza" (che è il termine tecnico nei martiriologi per dire che qualcuno è morto per fede), e già combinato con l'aggiunta che così ebbe la gloria, doxa, anch'esso termine tipico della morte dei martiri.

"Non ci dice assolutamente nulla sul fatto che abbia fondato e/o diretto la sua stessa Chiesa!"

E perché dovrebbe dirlo? Era quello lo scopo della lettera? Vorrei fosse chiaro che questa gente non scriva per noi, per soddisfare la nostra curiosità, al contrario non venivano scritte le cose date per scontate e occorre affidarsi ad accenni. Gli argumenta e silentio notoriamente non valgono una cicca. Inoltre per confermare il magistero petrino occorre verificare la modalità di ricezione di questa lettera. Da parte dei miei interlocutori si è cercato di descrivere la Chiesa di Roma come una comunità che se la canta e se la suona da sola, che si fa pubblicità inventandosi tradizioni per difendersi dagli eretici, ecc. Al contrario indagando la storia di come fu accolta questa lettera a Corinto notiamo che Roma non inventava alcunché giacché le sue prerogative erano riconosciute anche in Grecia, e per motivi che con l'impero non c'entrano un emerito nulla. Dionigi di Corinto nel 170 scrive al vescovo di Roma, parla della lettera di Clemente informandoci che veniva tenuta come una specie di cimelio dalla comunità e veniva tutt'ora letta. In questa lettera si dice: "Con la vostra ammonizione voi (Romani) avete congiunto Roma e Corinto in due fondazioni che dobbiamo a Pietro e Paolo. Poiché ambedue, venuti nella nostra Corinto hanno piantato e istruito noi, allo stesso modo poi, andati in Italia, insieme vi insegnarono e resero testimonianza" (Dionigi in Eus, Storia Ecclesiastica II, 25) Ora, giacché i vescovi ovviamente non avevano trent'anni, Dionigi può essere nato al massimo qualche decennio dopo che l'epistola di Clemente fu scritta. Ciò è particolarmente utile contro i seguaci del negazionismo ad ogni costo, che evidentemente pensano di sapere chi sia l'autore di una lettera meglio del vescovo della comunità che pochi decenni prima l'aveva ricevuta e fino ad allora leggeva nelle assemblee liturgiche considerandola una specie di reliquia.

"Il vescovo Romano Aniceto alla metà del II secolo rispondendo a Policarpo che si rifaceva a Giovanni in merito alla questione pasquale, non gli rispose affatto riallacciandosi alla sua autorità derivante da Pietro e Paolo ma solo a quella dei presbiteri sui predecessori. (cfr Eusebio Historia Ecl.)"

Anche a questo ho già risposto. Cito "Questa non è una questione dogmatica ma di tradizione ecclesiale, è della stessa importanza del digiuno del venerdì e del giorno di carnevale. Innanzitutto vediamo come questa sia solo l’ennesima conferma del primato d’auctoritas romano, infatti Policarpo va a consultare la Chiesa di Roma. Aniceto e Policarpo non riuscirono a trovare un accordo sulla questione quartodecimana e così riconobbero vicendevolmente valide entrambe le prassi ecclesiali. Il che era una soluzione saggia, nulla vietava che potessero coesistere insieme: celebrarono la comunione eucaristica e si separarono in pace (Dalla lettera di Ireneo a Vittore, in Eus, Storia Ecclesiastica, 24,16). Policarpo in quell’occasione si richiamò a Filippo e a Giovanni, di cui era allievo. Perché Roma non si richiama a Pietro? Aniceto non poteva gloriarsi, come Policarpo, di rapporti diretti con gli apostoli. Inoltre un mancato richiamo agli apostoli di Roma si può facilmente spiegare con la coscienza che la comunità di Roma aveva del fatto che la cerimonia pasquale di domenica era stata introdotta di recente e non risaliva all’età apostolica. (Per tutto questo si veda O. Cullmann, Il primato di Pietro, pag. 153). Non ci si è cioè richiamati a Pietro perché si sapeva che non fu lui l’iniziatore di questa tradizione.

"Solo dopo la metà del secondo secolo si iniziano a scorgere particolari..."
O tu sei pieno di fonti patristiche che trattino di Roma tra la persecuzione di Nerone e il 150 d.C. oppure temo che dovrai accontentarti dei riferimenti indiretti che si sono già miracolosamente pervenuti. Stessa obiezione mi aveva fatto Barnaba, il quale aveva scritto: "Abbiamo il silenzio totale di una ventina di libri e lettere. Niente male, non credi?” Io risposi: "Non se questi scritti parlano di tutt’altro fuorché Roma. Gli argumenta e silentio notoriamente non valgono nulla, valgono qualcosa solo nel caso ci sia un silenzio su qualcosa in un testo che tratta proprio di quell’argomento. Ad esempio se mi dicono che Cesare è il comandante della campagna in Gallia ma in un testo coevo sulla guerra gallica nessuno mi nomina mai Cesare posso pensare che ci sia sotto qualcosa. Ora analizzando la miseria che c’è rimasta dell’epoca apostolica bisogna considerare quali testi avrebbero avuto l’occasione di parlare di Pietro a Roma, perché degli altri è ovvio che l’assenza di menzioni su Pietro a Roma è equivalente all’assenza di menzioni della ricetta per cucinare i cannelloni, giacché semplicemente quell’argomento non c’entra nulla col testo. Si ha occasione di parlare di Pietro a Roma ovviamente se si parla di Roma. Analizziamo dunque nei Padri Apostolici quanti scritti ci siano rimasti che parlino della comunità di Roma o di Roma in generale.
- Ignazio di Antiochia, (otto lettere di una paginetta ciascuna rimaste, parla di Pietro e Paolo proprio nelle lettera ai romani, proprio come in quella agli Efesini che erano depositari dell’insegnamento di Paolo parlo di lui) 8
-Pseudo-Barnaba, (sopravvissuta una lettera di otto paginette su questioni giudaiche, non parla né di Roma né di Pietro) 1
-Erma (Uno scritto rimasto, Il pastore d’Erma, un’opera in visioni che ha tutto fuorché la realtà di cui occuparsi, credo che sarebbe più probabile trovare menzione di Pietro in un libro di oroscopi) 1 -Policarpo di Smirne, (1 lettera di una paginetta rimasta, non parla né di Roma né di Pietro) 1
-Papia di Ierapoli (Rimasti solo frammenti, parla della predicazione di Pietro a Roma e della stesura del Vangelo di Marco su richiesta dei romani che ne derivò, in Eus, op. cit., II, 15, 2) 0
-Anonimo, Didaché(5 paginette,Non parla né di Roma né di Pietro)1
-Clemente Romano (vescovo di Roma, parla del martirio di Pietro e Paolo. Ne abbiamo già discusso) 1
-Anonimo, A Diogneto (Sopravvissuta una lettera di 4 paginette, Non parla né di Roma né di Pietro)1
Ho dimenticato qualcuno? Vediamo dunque. Voi amici lettori siete riusciti a contare le 20 opere menzionate da Barnaba?Io ne ho contate 14, di cui 7 sono lettere di Ignazio scritte ad altre comunità come Efeso o Tralle, ergo ridicolo domandarsi perché non ci parli della comunità di Roma. Delle restanti 7 opere apostoliche nessun altra c’entra qualcosa con Roma o parla di quella chiesa tranne l’epistola di Clemente che parla della comunità romana per confrontarla con quella di Corinto, e infatti saltano fuori Pietro e Paolo, tra le sette rimanenti c’è l’ottava lettera di Ignazio che abbiamo lasciato fuori dal computo precedente, cioè quella ai Romani, della quale abbiamo già discusso. Alla luce dei fatti parandosi dietro una quantità così misera di fonti, fonti brevissime e non storiografiche, e per giunta fonti che parlano di tutt’altro fuorché l’argomento in questione, un argumentum e silentio vale meno di zero. Questo signori miei si chiama metodo storco-critico, ed è il motivo per cui oggigiorno i biblisti protestanti non contestano più la venuta di Pietro a Roma.
"Sembra poi che Tertulliano (fine II secolo ?)dica che Pietro ordinò Clemente quale vescovo romano, ma questo non coincide con la cronologia riportata da Ireneo."

Non esattamente. I passi incriminati sono i seguenti: “Mostrino esse (le chiese eretiche N.d.R.) la successione dei loro vescovi in modo da poter risalire o ad un apostolo o ad un loro discepolo, così come fanno le CHIESE APOSTOLICHE, ad esempio… la Chiesa di Roma che presenta Clemente CONSACRATO DA PIETRO” (32,2) E quello di Ireneo: "I beati apostoli affidarono a Lino il servizio dell'episcopato; di quel Lino Paolo fa menzione nelle lettere a Timoteo (cf. 2Tm 4, 21). A lui succede Anacleto. Dopo di lui, al terzo posto a partire dagli apostoli, riceve in sorte l'episcopato Clemente, il quale aveva visto gli apostoli stessi e si era incontrato con loro ed aveva ancora nelle orecchie la predicazione e davanti agli occhi la loro tradizione. E non era il solo, perché allora restavano ancora molti che erano stati ammaestrati dagli apostoli. Dunque, sotto questo Clemente, essendo sorto un contrasto non piccolo tra i fratelli di Corinto, la Chiesa di Roma inviò ai Corinzi un'importantissima lettera per riconciliarli nella pace, rinnovare la loro fede e annunciare la tradizione che aveva appena ricevuto dagli apostoli…" (Adversus haereses 3, 3, 2.) Tertulliano non dice che il secondo vescovo fu Clemente, bensì dice che Clemente fu consacrato da Pietro, ma ciò non è in contrasto bensì implementa la testimonianza di Ireneo che ci informa di come il futuro vescovo e i due apostoli si conoscevano.
Un ulteriore elogio a Roma da parte di Tertulliano: “Visita le Chiese apostoliche nelle quali ancora PRESIEDONO GLI APOSTOLI DALLE LORO CATTEDRE…. Quanto fortunata è la Chiesa di Roma in cui Pietro e Paolo profusero la loro dottrina, ove Pietro morì come il Signore, Paolo fu decollato come Giovanni Battista…” (36,3)

"La tradizione del III secolo vedrebbe Pietro a Roma addirittura per 25 anni. (dal 42 al 67 d.C vedi cronaca di Eusebio)."

Prendere informazioni dal sito "cammino cristiano" dà pessimi frutti, perché ci si illude di sapere qualcosa ignorando che quelle pagine sono scritte da gente che di antichistica non sa un emerito nulla. Quell'opera è del IV secolo, non del III, ma, a parte queste imprecisioni da nulla, c'è un errore logico di fondo in quanto segue, e cioè elencare date in quel periodo dove Pietro era altrove, giacché nessuno storico della Chiesa s'è mai sognato di dire che abbia soggiornato a Roma ininterrottamente. Paolo stesso fondava una comunità e poco tempo dopo si spostava lasciandola in mano a gente di fiducia sino al suo ritorno, e se dovessimo metterci a confutare le date dei viaggi di Paolo sono perché l'anno prima la Bibbia stessa lo indica da un'altra parte cadremmo come è evidente in un grosso paralogismo. Quella tradizione riportata da Eusebio, che tra l'altro oggi non ha grandi sostenitori, non si può né provare né confutare, perché si dimentica che Pietro e Paolo in quanto apostoli si muovevano e dunque non è il saperli altrove in tempi vicini che può cambiare le cose. Ad ogni modo al sottoscritto non interessa difendere quella cronologia, non è una dissertazione di date fatta tre secoli dopo che può intaccare il nocciolo del racconto. Ne abbiamo già discusso. La data della morte indicata non è inverosimile, e quanto ad una eventuale prima visita chi può mai smentirla? Si è soliti collocare la morte di Pietro durante la persecuzione di Nerone, dunque dal 64 in poi. L'idea che sia morto nel tredicesimo anno del regno di Nerone (cioè dal 3-10-66 al 12-10-67), è testimoniata altre che nella versione armena della cronaca di Eusebio(corpus berolinese, XXIV, pag. 185) , nel Chronicon Gallicum (Monumenta Germaniae Historica, Auct. Antiquiss., IX, pag. 639) e in Agapio (PO 7,47[SM=g27989], ultimo anno di Nerone (Gir, De viris illustr., I, PL 23,63[SM=g27989] C'è poi l'ipotesi, che ha avuto molta fortuna nel mondo accademico e sostenuta tra gli altri da Cullmann, di un primo viaggio di Pietro a Roma in quanto capo della missione giudeo-cristiana. (Mi baso per l’esposizione su Cullmann pag. 104-105)
Romani. 15, 20 ha infatti un interesse indiretto circa il soggiorno di Pietro a Roma. Abbiamo già considerato in messaggi precedenti che Paolo si scusa qui di fare una cosa che ha finora evitato: rivolgersi a una comunità non fondata da lui; questo, nello spirito dell'accordo di Gerusalemme, era per lui in contrasto con l'insegnamento apostolico. Riferendoci a Gal. 2, 9, possiamo pensare che la parallela missione giudeocristiana di Gerusalemme considerava la comunità di Roma come proprio campo d'azione, poiché questa, sorta probabilmente in modo spontaneo, era costituita in primo luogo da giudeocristiani. La cosa è indubbia, se si considera la forte consistenza della comunità ebraica di Roma, in quel tempo, valutata a 30-40mila unità, e soprattutto se si considera che nel momento in cui Paolo scrive ai Romani i giudeocristiani sono assai fortemente rappresentati accanto ai paganocristiani nella chiesa di Roma. Il grande biblista Lagrange è arrivato a concludere insieme a molti altri che l'intenzione fondamentale dell'epistola fosse quella di istruire i paganocristiani circa il posto occupato dall'Ebraismo nella storia della salvezza e preservarli così da ogni senso di superiorità nei confronti dei giudeocristiani. Questo non fornisce ancora la certezza che Pietro sia stato a Roma né che vi abbia fondato la chiesa; tuttavia dobbiamo chiederci se non è probabile che egli, nella sua qualità di capo della missione gerosolimitana, sia venuto prima o poi in questa comunità di origine giudeocristiana e con così forte composizione giudeocristiana, specie trattandosi della capitale. Se è vero che v'è stata una missione giudeocristiana e che Pietro ne aveva la responsabilità, una sua venuta a Roma, anche se non. dimostrata, è probabile, specie se si considera che ad un certo punto qui affiorano difficoltà interne
Dall'epistolario paolinico non si possono desumere elementi più precisi, né positivi né negativi.

"Ritornando ai coevi di Pietro, nel 57 dc scrivendo ai romani Paolo non dice nulla di Pietro come sarebbe più che logico dato il contesto e non si dica che questo è un argomento ex silentio perché è invece alquanto significativo, infatti come poteva Paolo tacere sul capo degli apostoli ?"

Il problema in primis è la datazione della lettera ai romani, di solito si oscilla tra il 51 e il 57, tu hai scelto la datazione più bassa (il 57). Supponendo che la data di composizione sia il 51-52 Pietro non era ancora nella capitale poiché Paolo non avrebbe certo omesso di salutarlo.
E se invece volessimo sostenere che era già a Roma in quella data? A questo proposito si possono trarre interessanti informazioni dal classico testo di Arialdo Beni, La nostra Chiesa, Firenze, 1976, pag. 477 ss. e da Salvatore Garofalo, La prima venuta di S. Pietro a Roma nel 42, Roma, 1942; a cui anch'io mi rifaccio. Si fa notare innanzitutto che il silenzio di uno, o di pochi, non può mai annullare un coro così potente di voci tutte concordi ed unanimi. Tanto meno, quando ci siano delle ragioni che lo giustifichino appieno. Prima di tutto, se si ammette che Pietro era presente a Roma quando Paolo scriveva, è necessario fare un'osservazione ovvia. Quando Paolo ha inviato la sua lettera alla comunità di Roma, a chi l'ha indirizzata? Alla comunità, naturalmente; ma una lettera non si consegna ad una folla; si consegna ad una persona, la quale, in questo caso, non poteva essere che il capo della Chiesa. E allora che bisogno c'era, in una lettera mandata alla comunità, tramite il capo, di nominare il capo stesso? ( S. Garofalo, op. cit p. 19). Non va dimenticato, d'altra parte, che siamo in tempi calamitosi, in cui è necessario uno spirito di somma discrezione per non arrecar danno alla Chiesa nascente. Ora, se l'eucarestia era una cosa da nascondere, certamente non era meno da nascondere il capo della Chiesa, S. Pietro. Del resto, nell'elogio caloroso della fede dei Romani "celebrata in tutto il mondo " (1, [SM=g27989], nella confessione che Paolo fa di aver come regola di non invadere il campo degli altri "per non edificare su fondamento altrui " (15, 29), nella protesta di voler venire a Roma non per insegnare, ma per consolarsi (1, 11 e 12), per "saziarsi " (15, 24), ecc. Non c'è, forse, tutta una trasparente, allusione ad un fondatore, di quella Chiesa, più importante dell'apostolato stesso dei pagani, una allusione a S. Pietro? Comunque, una risposta più radicale all'obiezione è quella già data all'inizio: Paolo non saluta Pietro, perché costui si trovava momentaneamente assente da Roma.

" Mi sembra che vi siano elementi sufficienti per ritenere plausibile l’ipotesi che solo tardivamente (III sec) si iniziò a far risalire l’autorità della chiesa romana al fatto che il primo apostolo fosse stato il primo vescovo di Roma"

Il che è una sciocchezza, perché il III secolo inizia col 201 d.C. mentre abbiamo testimonianze di consapevolezza ed esercizio del primato almeno già dal II secolo. Come puoi dire una cosa simile, anche qualora conoscessi il solo Ireneo, vescovo originario dell'Asia minore che è per l'appunto è del II secolo, e che afferma "con questa grande chiesa in virtù della sua potentior principalitas deve necessariamente essere d'accordo ogni Chiesa".

"Mi chiedevi almeno una testimonianza su Pietro diversa da quelle da te riportate ? eccola: il filosofo Porfirio in un frammento a lui attestato sostiene che Pietro fu crocefisso a Roma dove predicò solo per alcuni mesi. "

E perché questa testimonianza dovrebbe essere diversa da quelle da me riportate o mandare in frantumi i miei piani? Non citi né il frammento né le coordinate, ma, da quello che scrivi, non afferma che Roma sia importante nell'ecumene cristiano perché capitale dell'impero, afferma solo che Pietro sia stato a Roma. Forse quello che ti interessava è l'affermazione da te riportata secondo cui vi predicò "solo per alcuni mesi", ma giacché non riporti il frammento dovrei sospendere il giudizio finché qualcuno non me lo mostrerà in un’edizione critica, o mi dirà le coordinate per trovarlo. Ops, non ti disturbare a darmi le coordinate del frammento fornite dal sito evangelico da cui hai copiato questa bella notizia, che poi sarebbe questo camcris.altervista.org/pietroroma.html, infatti viene citata un’edizione critica tedesca del 1911, una fonte del tutto obsoleta che viene da chiedersi come possa essere reperita. E’ evidente che l’autore della pagina del sito da cui riporti l’informazione, già famoso per le sue scempiaggini quanto parla di storia antica e soprattutto di greco, non è un antichista, altrimenti avrebbe riportato le coordinate da un’edizione critica attualmente in uso in modo che i lettori potessero esaminarla, invece è solo un copiatore di pamphlet d’oltralpe e dunque deve riportare paro paro le coordinate che ha trovato in un testo probabilmente di Harnack, storico tanto grande quanto mummificato. Ad ogni modo ricordo a tutti quali sono le coordinate biografiche di Porfirio, che fu discepolo del divino Plotino: 233-305 d.C ca. Due pesi e due misure dunque, si accusano di falsità, faziosità, partigianeria le fonti del II secolo e si prendono per buone quelle del III.

"Per non parlare del fatto che la successione voluta da Ireneo, sia assolutamente anacronistica perché l’episcopato monarchico era di là da venire quando egli nomina Lino Anacleto e Clemente, sappiamo bene che le singole comunità erano rette dal collegio dei presbiteri e che la figura del Vescovo a capo degli stessi presbiteri e della chiesa nacque solo successivamente per combattere le eresie"

Con calma. Quello che gli studiosi si limitano a dire è che non c'è prova di un episcopato monarchico a Roma prima del 150 d.C., ma ciò non vuol assolutamente dire che non esistesse, semplicemente abbiamo poche fonti di questo periodo e per di più sono intente a parlare di tutt'altro. Dobbiamo ricordare che agli scrittori del I e del II secolo non interessava scrivere una storiografia ecclesiastica né darci informazioni sulla loro contemporaneità, mai si sarebbero sognati che a duemila anni di distanza qualcuno pendesse dalle loro labbra per ricavare qualunque particolare, per avere cioè da loro informazioni che essi non avevano alcuna intenzione di darci, giacché gli scopi dei loro scritti erano altri. Ciononostante, sebbene le fonti in nostro possesso non si occupino quasi mai della struttura della CHiesa di Roma nel I secolo, abbiamo per via di allusioni , di commenti fatti en passant, la prova che l'episcopato monarchico esisteva già nel I secolo in altre comunità. Ignazio che morì nel 107 scrive a diverse chiese, tra le più celebri allora esistenti come Smirne ed Efeso, lettere in cui troviamo chiara attestazione dell'episcopato monarchico. Se questa situazione era diffusa altrove, nulla ci impedisce di pensare che così fosse anche per Roma, come ovviamente nulla ci impedisce di pensare che non fosse così. In ogni caso questo silenzio su Roma non è un valido motivo per dichiarare astorico quanto dice Ireneo, proprio perché non è che abbiamo la descrizione nelle fonti di un modello alternativo all'episcopato, semplicemente non ci sono arrivate testimonianze sull'organizzazione della Chiesa di Roma nel I secolo che non siano tracce, inutili per ricavare alcunché. Da questo silenzio si può dedurre legittimamente sia che, siccome in tutte le altre comunità di cui abbiamo notizia c'era tale episcopato, non si vede perché in base alla statistica Roma debba fare eccezione, oppure si può trasformare il silenzio in un affermazione negativa e dire che sia la prova che tale istituzione non esisteva. A ognuno il suo. Riporto le testimonianze di Ignazio vescovo di Antiochia(la prima cattedra di Pietro) sull'episcopato monarchico nelle altre ecclesiae:

Ignazio agli Efesini.

“Bisogna glorificare in ogni modo Gesù Cristo che ha glorificato voi, perché riuniti in una stessa obbedienza e sottomessi al vescovo e ai presbiteri siate santificati in ogni cosa”. (Ef II,1)

“Conviene procedere d'accordo con la mente del vescovo, come già fate. Il vostro presbiterato ben reputato degno di Dio è molto unito al vescovo come le corde alla cetra. Per questo dalla vostra unità e dal vostro amore concorde si canti a Gesù Cristo”. (IV,1)

“Nessuno s'inganni: chi non è presso l'altare, è privato del pane di Dio. Se la preghiera di uno o di due ha tanta forza, quanto più quella del vescovo e di tutta la Chiesa!”(V,1)

“Quanto più uno vede che il vescovo tace, tanto più lo rispetta. Chiunque il padrone di casa abbia mandato per l'amministrazione della casa bisogna che lo riceviamo come colui che l'ha mandato.”
(VI,1)

“vi riunite in una sola fede e in Gesù Cristo del seme di David figlio dell'uomo e di Dio per ubbidire al vescovo e ai presbiteri in una concordia stabile spezzando l'unico pane che è rimedio di immortalità, antidoto per non morire, ma per vivere sempre in Gesù Cristo.” (XX,1)

Alla Chiesa della Magnesia:

“Ho avuto l’onore di vedervi in Dama, vostro vescovo degno di Dio, nei degni presbiteri Basso ed Apollonio e nel diacono Zootione, mio conservo, della cui presenza mi auguro sempre di gioire. Egli è sottomesso la vescovo come alla grazia di Dio e al presbitero come alla legge di Gesù Cristo. Conviene che voi non abusiate dell’età del vescovo, ma per la potenza di Dio Padre gli tributiate ogni riverenza. In realtà ho saputo che i vostri santi presbiteri non hanno abusato della giovinezza evidente di lui, ma saggi in Dio sono sottomessi a lui, non a lui, ma al Padre di Gesù Cristo che è il vescovo di tutti. Per il rispetto di chi ci ha voluto bisogna obbedire senza ipocrisia alcuna, poiché non si inganna il vescovo visibile, bensì si mentisce a quello invisibile. Non si parla della carne, ma di Dio che conosce le cose invisibili. Bisogna non solo chiamarsi cristiani, ma esserlo; alcuni parlano sempre del vescovo ma poi agiscono senza di lui. Questi non sembrano essere onesti perché si riuniscono non validamente contro il precetto.” (II- IV,1)

“Nulla sia tra voi che vi possa dividere, ma unitevi al vescovo e ai capi nel segno e nella dimostrazione della incorruttibilità” (VI)

“Come il Signore nulla fece senza il Padre col quale è uno, né da solo né con gli apostoli, così voi nulla fate senza il vescovo e i presbiteri.” (VII,1)

“Siate sottomessi al vescovo e gli uni agli altri, come Gesù Cristo al Padre, nella carne, e gli apostoli a Cristo e al Padre e allo Spirito, affinché l’unione sia carnale e spirituale.” (XIII,2)

“ e siete sottomessi al vescovo come a Gesù Cristo dimostrate che non vivete secondo l'uomo ma secondo Gesù Cristo, morto per noi perché credendo alla sua morte sfuggiate alla morte. È necessario, come già fate, non operare nulla senza il vescovo, ma sottomettervi anche ai presbiteri come agli apostoli di Gesù Cristo speranza nostra, e in lui vivendo ci ritroveremo. Bisogna che quelli che sono i diaconi dei misteri di Gesù Cristo siano in ogni maniera accetti a tutti. Non sono diaconi di cibi e di bevande, ma servitori della Chiesa di Dio. Occorre che essi si guardino dalle accuse come dal fuoco. Similmente tutti rispettino i diaconi come Gesù Cristo, come anche il vescovo che è l'immagine del Padre, i presbiteri come il sinedrio di Dio e come il collegio degli apostoli. Senza di loro non c'è Chiesa. Sono sicuro che intorno a queste cose la pensate allo stesso modo. Infatti ho accolto e ho presso di me, un esemplare della vostra carità nel vostro vescovo, il cui contegno è una grande lezione, come la sua dolcezza una forza. Credo che anche gli atei lo rispettino. Poiché vi amo mi trattengo, potendo scrivere con più severità sulla cosa. Non arriverei col pensiero a tanto da comandarvi come un apostolo essendo, invece, un condannato.” (II- III,3)
“Chi è all'interno del santuario è puro; chi ne è lontano non è puro. Ciò significa che chiunque operi separatamente dal vescovo, dal presbitero e dai diaconi, non è puro nella coscienza.” VII,2 “Siate forti in Gesù Cristo, sottomessi al vescovo, come al comandamento e ai presbiteri. Amatevi l'un l'altro nel cuore unito” (XIII,2)

Ai Tralliani

"Se siete sottomessi al vescovo come a Gesù Cristo dimostrate che non vivete secondo l'uomo ma secondo Gesù Cristo, morto per noi perché credendo alla sua morte sfuggiate alla morte. È necessario, come già fate, non operare nulla senza il vescovo, ma sottomettervi anche ai presbiteri come agli apostoli di Gesù Cristo speranza nostra, e in lui vivendo ci ritroveremo. Bisogna che quelli che sono i diaconi dei misteri di Gesù Cristo siano in ogni maniera accetti a tutti. Non sono diaconi di cibi e di bevande, ma servitori della Chiesa di Dio. Occorre che essi si guardino dalle accuse come dal fuoco." (II, 1-3)

"Similmente tutti rispettino i diaconi come Gesù Cristo, come anche il vescovo che è l'immagine del Padre, i presbiteri come il sinedrio di Dio e come il collegio degli apostoli. Senza di loro non c'è Chiesa" (III,1)

"Ciò sarà possibile non gonfiandovi e non separandovi da Dio Gesù Cristo, dal vescovo e dai precetti degli apostoli. Chi è all'interno del santuario è puro; chi ne è lontano non è puro. Ciò significa che chiunque operi separatamente dal vescovo, dal presbitero e dai diaconi, non è puro nella coscienza." (VII,1)

Alla Chiesa di Filadelfia

"I fedeli sono in uno col vescovo e con i suoi presbiteri e con i diaconi scelti nella mente di Gesù Cristo che, secondo la sua volontà, ha confermati col suo Santo Spirito.”

“State lontani dalle erbe cattive che Gesù Cristo non coltiva, perché non sono piantagione del Padre. Non ho trovato divisione in mezzo a voi, ma selezione. Quanti sono di Dio e di Gesù Cristo, tanti sono con il vescovo. "

"Quando ero in mezzo a voi gridai e a voce alta, con la voce di Dio: state uniti al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi. Quanto a quelli che hanno sospettato che io gridai prevedendo lo scisma di alcuni mi sia testimone colui per il quale sono incatenato che non ne ebbi notizia da carne di uomo. Fu lo spirito che me lo annunziò dicendo: non fate nulla senza il vescovo, custodite la vostra carne come tempio di Dio, amate l'unità, fuggite le faziosità, siate imitatori di Gesù Cristo come egli lo è del Padre suo."

"Dove infatti c'è la fazione e l'ira, Dio non c'è. Il Signore perdona a chi si pente, se si pente per l'unità di Dio, e il sinedrio del vescovo. Confido nella grazia di Gesù Cristo che vi libererà da ogni laccio. "

Agli Smirnesi

"Come Gesù Cristo segue il Padre, seguite tutti il vescovo e i presbiteri come gli apostoli; venerate i diaconi come la legge di Dio. Nessuno senza il vescovo faccia qualche cosa che concerne la Chiesa. Sia ritenuta valida l'eucaristia che si fa dal vescovo o da chi è da lui delegato. Dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c'è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica. Senza il vescovo non è lecito né battezzare né fare l'agape; quello che egli approva è gradito a Dio, perché tutto ciò che si fa sia legittimo e sicuro." (VIII,1)

"E' saggio del resto ritornare in senno, e sino a quando abbiamo tempo di convertirci a Dio. E' bello riconoscere Dio e il vescovo. Chi onora il vescovo viene onorato da Dio. Chi compie qualche cosa di nascosto dal vescovo serve il diavolo." (IX,1)

"Saluto il vescovo degno di Dio ,'il venerabile presbiterato, i diaconi miei conservi e, uno ad uno, tutti insieme nel nome di Gesù Cristo, nella sua carne e nel suo sangue, nella passione e nella resurrezione corporale e spirituale, in unione a Dio e a voi." (XII,1)

A Policarpo

"Se qualcuno può rimanere nella castità a gloria della carne del Signore, vi rimanga con umiltà. Se se ne vanta è perduto, e se si ritiene più del vescovo si è distrutto. Conviene agli sposi e alle spose di stringere l'unione con il consenso del vescovo, perché le loro nozze avvengano secondo il Signore e non secondo la concupiscenza. Ogni cosa si faccia per l'onore di Dio." (V,2)

" State col vescovo perché anche Dio stia con voi. Offro in cambio la vita per quelli che sono sottomessi al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi e con loro vorrei essere partecipe in Dio." (VI, 1)
(FINIS)

Ignazio, che ripeto morì nel 107, non parla di una situazione in via di formazione ma tratta la cosa come assolutamente ovvia, e non parla di questa struttura in qualche comunità sconosciuta bensì nelle principali comunità del tempo, molte delle quali avevano ricevuto la predicazioni di Pietro e Paolo nonché le loro lettere. Riferisce il nome dei vescovi suoi amici e ne nomina la località: Onesimo di Efeso (1Ef 1,2), Damas di Magnesia (Magn 2,1), Polibio di Tralle (Tall 1,1); Policarpo di Smirne (Ad Polyc, prologo), un ignoto vescovo di Filadelfia (Fhil, II), ed Ignazio stesso è vescovo di Antiochia. Se c’era un’apostasia quando lui scriveva era su scala globale, e ancor prima che tutti i libri del NT fossero scritti. Basta guardare senza preconcetti luterani e piantarla con questa retorica della corruzione, richiamando l’inesistente mito della purezza e dovendo spiegare per chissà quale miracolo sia avvenuta tale apostasia su scala globale così presto. Ignazio è chiaro nel dire che “ove c’è il vescovo, lì c’è la Chiesa”, già nel II secolo infatti abbiamo l’attestazione dei cataloghi che le varie comunità compilavano per redigere le liste dei loro vescovi che le legavano al periodo apostolico. Un altro autore vissuto tra fine I secolo e inizio II, Egisippo, grande storico della Chiesa, ci dice che anche le comunità di Corinto e Roma erano monarchiche (in Eus., Hist. Eccl, IV, 22, 1-3; PG 20, 378-379). Ignazio ci dice che nella Chiesa nulla si fa senza il vescovo, ed Egesippo conferma (op. cit. IV, II; PG 20, 350), insieme ad Ireneo vescovo di Lione (Ad. Haer. III, 3,1; IV 26,2; PG 7,84[SM=g27989], a Tertulliano (De praescriptione haereticorum 22 PL 2, 52-53) e da Cirpiano (Ep., 6,7 Ad Florentium) Si noti poi che costoro non parlavano per sentito dire, quelli che per noi sono mille anni fa per gente come Ignazio o Policarpo era la generazione precedente.

CONTINUA
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Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
(Κ. Καβάφης)
24/12/2006 15:14
 
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" Ritornando alla testimonianza della lettera di Clemente che sarebbe il primo atto nel quale si denota una certa “supremazia” della chiesa di Roma intervenuta per dirimere questioni nate in un’altra chiesa, è da notare che Clemente non è nominato affatto e che lo scritto è da attribuire alla collegialità della chiesa di Roma e non a Clemente in quanto autorità della stessa, egli si incaricò unicamente della stesura della lettera."

Il che viene da chiedersi cosa voglia dire, perché è ovvio che non si può stendere una lettera in cento persone, come è altrettanto classico nell'età dei Padri che un vescovo scriva facendosi portavoce della propria chiesa. Non c'è errore in quello che dici, per la banale ragione che le frasi troppo generiche non significano nulla. A me interessa che l'autore, cioè colui che l'ha scritta materialmente, sia Clemente, e questo è confermato da tutta una serie di riferimenti. Ho già scritto: "L’attribuiscono a Clemente: Erma, (Pastor, Vis, II, 4,3) (questa citazione è in forse, non si menziona il nome dello scritto ma solo che Clemente mandava lettere alle altre città); Egesippo (In Eusebio Hist. Eccl., IV, 23, 11);Dionigi vescovo di Corinto (ibid, IV, 23,11); Clemente Alessandrino (Stromata, I, 7; IV, 17-18; VI, 8 ); Origene (De principiis, II, 3, 6; In Ezech., 8,3; 51,1; In Iohann., VI, 54); Eusebio (Hist. Eccl. III, 16, 38 ). Essendo questa lettera del 96 d.C., cioè praticamente del II secolo, avere testimonianze della medesima epoca quali Erma, Egesippo, Dionigi, tutti del II secolo, rende l’attribuzione molto forte.

"ne i toni della lettera sono quelli di un’autorità che esorta l’interlocutore ad obbedire. Quindi l’intento della lettera era unicamente dovuto alla mutua vigilanza tra le chiese, usanza comune all’epoca."

Viene da chiedersi come si possa scrivere che "i toni della lettera non sono quelli di un’autorità che esorta l’interlocutore ad obbedire": evidentemente non avendola mai letta. Viene scritto infatti: “Se qualcuno disobbedisce alle parole dette da Lui (Dio) per mezzo nostro, sappia che sta per incorrere in una colpa e in un pericolo non lievi… Ci procurerete una grande gioia se ubbidirete a quello che abbiamo scritto sotto la guida dello Spirito Santo.” (1Clem 59 e 63, cf. anche 65,1)

La tua opinione è una specie di riciclo della vecchia ipotesi di Cauwelaert che scorgeva in questo intervento un semplice gesto di carità e un amichevole invito alla pace. Il fatto stesso che il vescovo di Roma, e lui solo, sia intervenuto invocato o no, negli affari interni di una Chiesa apostolica come Corinto, mentre a Efeso viveva ancora l'apostolo Giovanni, e comunque altre chiese asiatiche avevano relazioni più strette, facili e amichevoli con quella Chiesa, il tono autorevole e l'accoglienza fatta(testimoniata da Dionigi di Corinto nel 170, in Eus, Hist. Eccl. IV,23,11), sono una prova chiara. (Per tutto questo in sintesi si può vedere l'Enciclopedia cattolica, vol. X, pag 11, Città del Vaticano, 1953) A me va benissimo che questo gesto venga chiamato correzione fraterna, perché è quello che il papa fa anche oggi, correggere in nome della fratellanza chi è nell'errore. Ma il problema è se sia una correzione fra pari, o, come risulta dai toni usati, una correzione fatta d'autorità, pur con tutto l'amore che il servizio per l'unità dei cristiani richiede.

"dovuto alla mutua vigilanza tra le chiese, usanza comune all’epoca."

Questo è corretto, le Chiese spesso si scrivevano, ma in primis qui siamo fuori dall'area di Roma e questo non è normale, in secondo luogo abbiamo sì testimonianza di lettere che le comunità principali mandano alle chiese minori, ne abbiamo alcune di Dionigi per esempio, ma nessuno ha questo tono.

"L’opera di carità che viene attribuita alla comunità romana anche da Ignazio è da ricondursi a questa tipologia di interventi a favore delle chiese più povere."

Questa è la prima frase sensata che leggo nel tuo post. Sì, la chiesa di Roma era famosa per i suoi aiuti alle Chiese più povere, ma nella lettera di Clemente agli aiuti materiali non c'entrano nulla.

". Infatti dove meglio che a Roma si poteva essere nel mondo ma non del mondo ? Controllare cioè proprio il cuore del malvagio impero romano ? "

Ma questo al massimo nobilita e romani, che sono più sottoposti di altri al martirio, e infatti questo è il vanto della Chiesa di Roma, i suoi martiri. Ciò non nobilita il sistema in sé, cioè il sistema che è produttore di martirio e che a tuo motivo avrebbe invece causato il riconoscimento di Roma come più importante. Il cristianesimo primitivo ha una sorta di odio contro il sistema economico e politico romano, ed è ridicolo ritenerlo un motivo per scegliere in base a quello la città che dal punto di vista dottrinale doveva guidare l'ecumene. Per sapere chi ha preminenza dottrinale occorre vedere dove stia la Traditio migliore, anzi questo è l'unico criterio attestato dalle fonti. Roma grazie a questa sua Traditio privilegiata è vista come una sorta di regina, una comunità in cui si possono trovare dei veri cristiani. A questo proposito ho già citato un’epigrafe funebre, l’iscrizioni di Abercio, un cristiano dell’Asia minore del 200 d.C., che ben documenta a che livello di misticismo si potesse arrivate verso Roma. Il linguaggio è immaginoso e poetico, tipico simbolismo del cristianesimo primitivo: “Il mio nome è Abercio, sono un discepolo del santo pastore, che pascola le greggi per monti e pianure, che vede dappertutto con grandi occhi (=Cristo)… A Roma egli (il pastore) mi ha inviato, per contemplare un regno e vedere una regina in abiti d’oro e calzature d’oro; la ho visto un popolo dallo splendente sigillo… Dovunque trovai confratelli; già avevo Paolo per accompagnatore (le lettere di Paolo che portava con sé nei pellegrinaggi come lettura spirituale). La fede mi guidava dovunque e mi imbandiva sempre come cibo un pesce di sorgente (=Gesù, l’ lCHTHYS), straordinariamente grande e puro, catturato da una pura vergine; e questo pesce essa dava sempre agli amici da mangiare, elargendo vino eccellente, offendo vino miscelato e pane” (LThK 1, 1930, 25; H. Grotz, Die Stellung der Römischen Kirche anhand frühchristlicher Quellen, in Archivum Historiae Pontificiae 13 (1975), pag. 47) (Il pesce ovviamente è Cristo nato dalla vergine che ci viene donato nell’eucaristia, qui ricordata nelle due specie del pane e del vino)
La Chiesa di Roma qui è una “regina in abiti d’oro” e un “popolo dallo splendente sigillo”, il ricordo del suo nome, in un aurea mistico-religiosa, da solo fa battere il suo più forte. Queste non sono elogi che la chiesa di Roma si fa da sola, è l'oriente stesso che nei primi 4 secoli riconosce che l'autorità della Chiesa di Roma è legata a Pietro e Paolo. Ad esempio nel sinodo di Antiochia del 341 si legge che " la Chiesa romana è considerata da tutti gloriosa, per esser stata il domicilio degli apostoli e sin dall’inizio la capitale della pietà, anche se coloro che vi hanno portato la fede erano giunti a lei dall’Oriente” (Sozomeno, Storia della Chiesa, III, 8,5 (PG 67 1054 A-B) Ci ritorneremo.

"Cercavano Roma perché questa città, per i motivi che ho scritto precedentemente e che non centrano nulla con il primo vescovo, era divenuta il centro della cristianità. "

E guarda caso invece nelle lettere ci si riferisce sempre il vescovo, e si dice anche perché ci si rivolge a lui, perché è la cattedra di Pietro. Trovami qualche orientale che si rivolga a Roma per beghe dottrinali in virtù della posizione socio-politica della città, poi ne riparliamo, fino ad allora fai castelli in aria. Trovo particolarmente istruttiva questa pagina di Girolamo per sapere con che spirito e spinti da che cosa ci si rivolgeva a Roma:

"Con un furore che dura da secoli, i popoli d'Oriente continuano a scontrarsi tra loro, e riducono a brandelli la tunica inconsutile del Signore, tessuta da cima a fondo senza cuciture. Delle volpi devastano la vigna di Cristo; in mezzo a cisterne spaccate e senz'acqua è difficile capire dove si trovi quella fontana sigillata, quell'orto chiuso da un recinto, di cui parla la Scrittura (cf. Ct 4,12).
Per questo ho deciso di consultare la cattedra di Pietro, dove si trova quella fede che la bocca di un apostolo ha esaltato; vengo ora a chiedere un nutrimento per la mia anima lì, dove un tempo ricevetti il vestito di Cristo [cioè il battesimo].
No davvero! Né l'immensità del mare, né l'enorme distanza terrestre hanno potuto impedirmi di cercare la perla preziosa. Dove sarà il corpo, là si raduneranno le aquile (Lc 17,37). Dopo che il patrimonio è stato dissipato da una progenie perversa, solo presso di voi si conserva intatta l'eredità dei padri. Costì una terra dalle zolle fertili riproduce al centuplo la pura semente del Signore; qui il frumento nascosto nei solchi degenera in loglio e avena. In Occidente sorge il sole della giustizia, mentre in Oriente ha posto il suo trono sopra le stelle quel Lucifero, che era caduto dal cielo. Voi siete la luce del mondo, il sale della terra (Mt 5,13), voi i vasi d'oro e d'argento; qui da noi vasi di terra cotta e di legno attendono la verga di ferro che li spezzi e il fuoco eterno.
La tua grandezza, a dire il vero, mi mette in soggezione, ma la tua bontà m'attira. Io, vittima, attendo dal sacerdote la salvezza, e come una pecorella chiedo protezione al pastore. Metti da parte ciò che è invidiabile, sottraiti un momento al fasto dell'altissima dignità romana: ecco il successore del pescatore, con un discepolo della croce che desidero parlare.
Io non seguo altro primato se non quello di Cristo; per questo mi metto in comunione con la tua Beatitudine, cioè con la cattedra di Pietro. So che su questa pietra è edificata la Chiesa. Chiunque si ciba dell'Agnello fuori di tale casa è un empio. Chi non si trova nell'arca di Noè, perirà nel giorno del diluvio." Girolamo, Le Lettere, I, 15,1-2)

Credo sia utile fare un riassunto sulla base della patristica che individui il perché della preminenza di Roma nelle fonti più antiche, e ci baseremo sull’ottimi testo di Tillard (pag. 85 ss.).
Donde proviene dunque alla chiesa locale di Roma quel primato in seno alla comunione di tutte le chiese? come spiegare l'intreccio di privilegi (presbeia) che costituisce la sua particolare autorità? Il problema si pone a chiunque rifletta un po' profondamente sul dato tradizionale..
Ci si può infatti stupire del fatto che la sede più importante della cristianità non sia Gerusalemme e che la chiesa custode dei 'trofei' del Signore stesso - la Croce ed il Sepolcro - non abbia avuto d'ufficio la potentior principalitas. La meraviglia cresce quando si scopre che il canone di Nicea non concede alla Chiesa della Città santa che un primato di onore, quello che le spetta in quanto punto di partenza della fede nascente.' Nel concilio Costantinopolitano I (nel 381), il celebre canone 3 - sanzionando uno stato di fatto - riconosce a Costantinopoli, nuova Roma, il primato di onore subito dopo l'antica Roma. Bisognerà attendere il concilio di Calcedonia (nel 451) perché Gerusalemme ottenga un'autentica giurisdizione sulle tre Palestine. Ma rimarrà al quinto ed ultimo posto in quello che diventa la Pentarchia, strutturazione della Chiesa secondo cinque grandi patriarcati. Le Novellae di Giustiniano, un secolo più tardi, consacreranno quest'ordine di precedenza, rimanendo la Chiesa di Roma in testa e vedendosi il suo vescovo chiamato «il primo di tutti i sacerdoti» (Novella 123, cap. 3, in Corpus Juris civilis, volumen tertium, Novellae)
Non si determina pertanto la gerarchia delle chiese in funzione della storia di Gesù, ma in funzione della missione e della testimonianza apostoliche. Dipende dall'apostolicità della Chiesa. I grandi centri di questa non sono i luoghi consacrati dalla vita, dal ministero e dalla Pasqua del Signore, ma i punti della carta del mondo in cui, con la potenza dello Spirito, si è radicato il vangelo di Dio per irradiarsi di là nell'universalità dei popoli. La chiesa locale di Roma è prima tra le chiese, non perché sarebbe stata costituita prima delle altre, ma perché il martirio affrontato in essa da Pietro e Paolo ne fa il luogo per eccellenza della testimonianza apostolica. Certo, il fatto che Roma sia stata l'Urbe, la capitale, non è stato privo d'influenza su questo irradiamento, ma ciò non offusca minimamente che nel pensiero dei cristiani i motivi della preminenza del vescovo di Roma erano religiosi. Si può persino pensare che il fatto che Roma fosse la capitale che abbia anche determinato la venuta dei due apostoli in quel luogo. Fino al rifiuto, da parte di Leone Magno, del canone 28 di Calcedonia - che fa troppo pesantemente dipendere l'importanza ecclesiale di una sede episcopale (nel caso, Costantinopoli) dall'importanza politica della città - sembra che vada da sé la corrispondenza di fatto tra la posizione delle città nel sistema amministrativo ed i privilegi (presbeia) delle chiese. Non ci si potrebbe meravigliare e sarebbe piuttosto sorprendente il contrario. Tuttavia questa importanza geografica è come relativizzata da quella della testimonianza apostolica resa in quei luoghi dagli 'inviati' del Signore.
Dell'apostolicità senza pari della chiesa locale di Roma, e con ciò della sua eminente autorità, Ireneo di Lione (verso il 180) offre certamente l'affermazione più nitida ed importante:
“Tutti quelli che vogliono vedere le cose vere hanno la possibilità di guardare in ogni chiesa alla tradizione degli apostoli manifestata in tutto il mondo. E possiamo enumerare coloro che sono stati costituiti vescovi dagli apostoli, e i loro successori fino a noi, che non hanno insegnato o conosciuto nulla di simile ai deliri di costoro (cioè degli eretici). [...] Ma, siccome sarebbe assai lungo enumerare in questo volume le successioni di tutte le chiese, parliamo della chiesa più grande, della più conosciuta ed antica, fondata e costituita in Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo, quella che ha la tradizione degli apostoli e la fede annunciata agli uomini, pervenuta fino a noi tramite successioni di vescovi, e confondiamo tutti quelli che in qualunque modo, per arroganza o vanagloria, per cecità e falso giudizio, raccolgono diversamente dal dovuto.
A questa chiesa infatti, per la sua più eccellente origine ( propter potentiorem principalitatem), è necessario che venga ogni chiesa, cioè coloro che sono ovunque fedeli; in essa, sempre da coloro che sono di ovunque, è stata conservata quella tradizione che. proviene dagli apostoli.
I beati apostoli, dopo aver fondato ed edificato la chiesa, ne tra• smisero l'amministrazione episcopale a Lino, che Paolo menziona nelle sue lettere a Timoteo. A lui succedette Anacleto. Dopo di lui, ai terzo posto dopo gli apostoli, l'episcopato toccò a Clemente, che pure aveva visto gli apostoli e parlato con loro: aveva ancora la loro predicazione nelle orecchie e la loro tradizione davanti agli occhi; ma non,era il solo, perché vivevano ancora molti che erano stati istruiti dagli apostoli. Sotto questo Clemente, verificatosi un dissenso non lieve tra i fratelli che erano a Corinto, la chiesa che è in Roma inviò una lettera importante ai Corinzi, per ricondurli alla pace, raffermare la loro fede ed annunciare la tradizione di recente ricevuta dagli apostoli, che confessa un solo Dio onnipotente, Creatore del cielo e della terra, plasmatore dell'uomo, che ha mandato il diluvio e chiamato Abramo, che ha condotto il suo popolo fuori dalla terra d'Egitto, che ha parlato a Mosè, che ha disposto la Legge ed inviato i profeti, che ha preparato il fuoco per il diavolo e per i suoi angeli.” (Adv. Haer. III, 3, 1-2)

E’ stato detto da Teodoro che avrebbe potuto citare qualunque Chiesa e l’obiettivo sarebbe stato raggiunto, perché l’importante era dimostrare il criterio della successione apostolica. Ma sta di fatto che cita proprio Roma, e ci dice anche perché la cita, ossia perché rispetto alle altre Chiesa ha un’origine più eccellente (potentior principalitas), ed è per questo che il suo nome è particolarmente importante per convincere gli eretici.

La chiesa locale di Roma deriva pertanto la sua grandezza ed il suo posto particolare dal suo speciale legame con i «gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo» (gloria ovviamente sta per martirio). Da questo deriva la sua «più eccellente origine», la sua potentior principalitas. Se Pietro e Paolo sono così chiamati 'gloriosissimi', ciò «non può riferirsi che al loro martirio a Roma» Per Ireneo, la morte in essa di Pietro e di Paolo fa della chiesa di Roma quella che Dio ha segnato del sigillo dell'autenticità apostolica più grande, più potente.
Per cogliere bene l'armonia del pensiero di Ireneo con la tradizione da lui trasmessa, è opportuno richiamare alcuni elementi del dossier che egli assume. Verso il 95, nella sua lettera ai Corinzi, nota ad Ireneo Clemente di Roma aveva evocato i due apostoli:

Poniamoci davanti agli occhi i buoni apostoli: Pietro, che per invidia sopportò non una o due, ma molte sofferenze e, resa così testimonianza, se ne andò al luogo di gloria che gli spetta. Vittima di una gelosia e della discordia, Paolo ha manifestato il premio riservato alla pazienza; incarcerato sette volte, esiliato, lapidato, diventato araldo in Oriente e in Occidente, ha ricevuto la fama illustre della sua fede. Dopo aver insegnato la giustizia al mondo intero, e aver raggiunto anche i confini dell'Occidente, rese testimonianza davanti ai governanti; e così lasciò questo mondo e andò nel soggiorno santo, illustre modello di pazienza. (1Clem. 5, 3-7)
A questa 'testimonianza' viene ad aggiungersi quella di una «grande moltitudine di eletti che per la gelosia hanno sofferto molti oltraggi e furono [... ] un magnifico esempio».(6,1) Il martirio dei due apostoli appare così come il punto di partenza e il modello della testimonianza resa a Cristo di fronte alla 'gelosia'.
In quello stesso periodo, Ignazio di Antiochia, scrivendo alla chiesa di Roma, associava anche lui i due apostoli Pietro e Paolo, inseparabilmente, ai destini della chiesa «che presiede alla carità». Pensava allora al loro martirio:

Vi scongiuro, non dimostratemi una benevolenza inopportuna. Lasciate che io sia pasto delle belve, per mezzo delle quali mi sarà dato di trovare Dio. Sono frumento di Dio e sarò macinato dai denti delle fiere per essere trovato pane puro di Cristo. Blandite piuttosto le belve, perché siano la mia tomba e nulla lascino del mio corpo in modo che nel mio ultimo sonno non sia di peso ad alcuno. È allora che sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà neppur più il mio corpo. Supplicate Cristo per me perché, ad opera delle belve, io diventi vittima offerta al Signore. Non vi do ordini come Pietro e Paolo: essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi e io finora sono uno schiavo. Ma, se affronterò la sofferenza, diventerò un liberto di Gesù Cristo e risorgerò in lui libero. Ora in catene imparo a non desiderare nulla. (Rom, 4,1-3)

Pietro e Paolo si trovano ancora associati, verso il 170, in una lettera di Dionigí di Corinto al vescovo di Roma Sotero. Dionigi vuol sottolineare che la Chiesa di Roma non è l'unica fondata dagli apostoli, ma si esprime in un modo, che «riconosce un peso più considerevole
alla chiesa di Roma rispetto a quella di Corinto»(E. Lanne, L’église de Rome, pag. 313) ; e non separa i due apostoli nel loro ruolo all'origine della comunità romana. Eusebio di
Cesarea trascriverà questa lettera:

Che entrambi abbiano reso testimonianza nello stesso periodo è quanto stabilisce per iscritto Dionigi, vescovo di Corinto, che scrive ai Romani:
«In tale ammonizione, avete anche unito le piantagioni fatte da Pietro e da Paolo, quella dei Romani e quella dei Corinzi. Infatti entrambi hanno piantato nella nostra Corinto e ci hanno parimenti istruiti; e parimenti, dopo aver insegnato insieme in Italia, hanno reso testimonianza nello stesso tempo».
E questo per ulteriore conferma di quanto si riferisce al mio racconto.
(Hist. Eccles. II, 25, [SM=g27989]

Ho già citato Tertulliano, il quale, all'epoca stessa di Ireneo, a Cartagine parla della chiesa di Roma come della chiesa felice in cui «gli apostoli hanno versato tutta la dottrina insieme al proprio sangue» (De praescriptione 36, 1-6). Quando il vescovo Firmiliano di Cesarea verso il 255, scrivendo a Cipriano darà sfogo alla sua ira contro il vescovo di Roma Stefano, farà ancora riferimento a questo rapporto dei due apostoli conla chiesa di Roma:

Stefano ha osato fare questo, rompendo nei nostri riguardi la pace che i suoi predecessori avevano sempre mantenuto con noi in vicendevoli sentimenti di amicizia e mutui riguardi, facendo inoltre torto al beati apostoli Pietro e Paolo nell'attribuire loro questa tradizione, mentre nelle loro lettere hanno maledetto gli eretici e ci hanno raccomandato di evitarli. Dal che si vede che questa tradizione è umana, che sostiene gli eretici ed attribuisce loro un battesimo che non appartiene che alla Chiesa. (Epist. 75,2)

Più di un secolo dopo la morte di Ireneo, il concilio radunato ad Arles per ordine di Costantino invierà una lettera al vescovo di Roma Silvestro il quale, impedito, si è fatto rappresentare da due preti e da due diaconi. Ci si duole per la sua assenza, ma si esprime il convincimento che non sia venuto perché nell'impossibilità di lasciare i luoghi «in cui gli apostoli siedono anche ogni giorno ed in cui il loro sangue versato rende continuamente testimonianza alla gloria di Dio».(MANSI 2,469) La chiesa locale di Roma, 'fondata' nel sangue degli apostoli Pietro e Paolo, rimane la loro sede (sedes). E' ciò che la distingue: “[... ] La tradizione, che si trova in sant'Ireneo e si è sviluppata dal dal IV al v secolo, [vede] l'origine della Chiesa romana, e di conseguenza del suo episcopato e della sua cathedra, nei due Apostoli uniti in un vincolo unico ed inscindibile, quasi si presentassero come un'unica persona. Era un'unificazione già compiuta nella liturgia, che celebrava nello stesso giorno, il 29 giugno, il martirio dei due Apostoli, non tanto - come poi si cercò di spiegare l'anomalia di quell'unica celebrazione - perché avessero subito il martirio lo stesso giorno, bensì per il motivo ora addotto: perché i due Apostoli non si potevano disgiungere, uniti e fatti una cosa sola nella fondazione della Chiesa romana, come dice sant'Ireneo” (MJ. Maccarrone, Apostolicità, episcopato e primato di Pietro, Roma 1976, 15[SM=g27989]

La commemorazione comune degli apostoli Pietro e Paolo a Roma è attestata fin dall'anno 258. Ed è interessante rilevare che è una delle rare celebrazioni date dall'Occidente all'Oriente: il che viene spiegato da ciò che abbiamo richiamato. Quando a Roma, fin dal v secolo, si celebrano due distinte sinassi, l'una in Vaticano, l'altra a San Paolo fuori le mura, si festeggiano però insieme nei due casi Pietro e Paolo. Neppure l'Oriente li separa nella propria liturgia ed «è ben curioso rilevare in tutti i testi la preoccupazione costante di non dire nulla di bene dell'uno senza controbilanciarlo con un elogio nei riguardi dell'altro».(D. T. Strotmann, Les coryphées Pierre et Paul et lea auteres apôtres, in Irénikon 36, 1965, pag. 16[SM=g27989] Infatti li considera tutti e due insieme come 'il fondamento degli apostoli', uniti dal Signore stesso in un'unica missione, quella di diventare «la diade della Trinità» (Ibid., 166) È importante che il Missale Romanum promulgato da Paolo vi nel 1970 unendo Pietro e Paolo nell'Eucaristia della vigilia e della festa, si sia ricollegato all'antica tradizione radicata nella memoria della Chiesa: la celebrazione separata di Paolo (30 giugno) viene sostituita da quella dei primi martiri romani.
Ciò che la lex orandi mantiene si perpetua ad altri livelli della vita ecclesiale. In certi ambienti non si mancherà d'altronde di sfruttare l'inseparabilità dei due apostoli per sminuire l'importanza di Pietro. Da questo scaturiscono reazioni romane come quella del decreto dell'Inquisizione ai tempi del giansenismo (DS 1999), ripreso da Pio X nel 1910 (DS 3555). Però - da Niccolò i, il papa del conflitto con Fozio, morto nell'867 - la sede romana non ha mai cessato d'introdurre i suoi atti più solenni con la formula Auctoritate Apostolorum Petri et Pauli. E' questa la formula usata da Pio IX per la definizione dell'Immacolata Concezione (DS 2803) e da Pio XII per quella dell'Assunta (DS 3903).
Paolo vi è spesso tornato sulla fondazione della chiesa locale di Roma da parte di Pietro e Paolo insieme. Presentando l'anno della fede, nell'esortazione apostolica Petrum et Paulum, usava un linguaggio molto chiaro: Pietro e Paolo sono «le colonne principali non solo della Chiesa particolare di Roma, ma di tutta la Chiesa santa del Dio vivente, diffusa nel mondo intero». E così concludeva:
In nome e con l'autorità dei beati Pietro e Paolo, apostoli e martiri - sui cui sepolcri è costituita e fiorisce questa Chiesa di Roma, erede, discepola e custode dell'unità e della cattolicità di cui essi stessi hanno qui fissato per sempre il centro e la sorgente -, Noi vi salutiamo e vi benediciamo di tutto cuore.(Acta Apostolicae sedis 59, 1967, 193, 200)
Nel 1977, nella Costituzione apostolica sul vicariato di Roma, riaffermava il vincolo tra la città e il martirio di Pietro e di Paolo: «Qui dagli apostoli Pietro e Paolo è stata fondata e costituita questa Chiesa», il vangelo è stato «qui annunziato dagli apostoli Pietro e Paolo, fecondato dal loro sangue e da quello di altri martiri, attestato dalla vita esemplare di innumerevoli santi e sante».(AAS 69, 1977) Da Ireneo all'alba della Tradizione fino alla chiesa di oggi non si è dunque mai interrotto il filo che collega l'autorità o il prestigio della sede di Roma alla gloriosa testimonianza di Pietro e di Paolo, inseparabili nella memoria della Chiesa. E se ne può già dedurre che «Paolo conferisce qualcosa all'autorità della Chiesa romana e della santa Sede quale Dio l'ha voluta nella sua realtà storica».(Y.-M.-J. Congar, Saint Paul et l’autorité, pag. 513) Un semplice indizio, ma pieno di significato è l'acclamazione di papa Celestino quale “nuovo Paolo” e custode della fede da parte del concilio di Efeso (431) dopo averne riconosciuto la lettera conforme alla fede della Chiesa. (MANSI 4, 128[SM=g27989]
Per essere stato il luogo dell'insegnamento di Pietro e di Paolo e il teatro del loro martirio, la Chiesa di Roma ha dunque un'autorità particolare, indiscutibile, quando si tratti della regola di fede che risale alla testimonianza apostolica. Che Pietro e Paolo conferiscano così a questa chiesa locale siffatta autorità, ciò deriva inseparabilmente dal loro martirio nella città riconosciuta quale centro dell'impero e dalla loro qualità di apostoli maggiori, attestata fin nella composizione del libro degli Atti le cui due parti si strutturano sul ministero prima di Pietro e poi di Paolo (il fatto che abbia scelto proprio di raccontare la missione di Pietro tra i dodici la dice lunga sul suo primato). Questi due martiri dell'Urbe altri non sono infatti che Pietro collegato dal suo posto in seno ai Dodici al compimento dell'Antica Alleanza - i dodici troni per le dodici tribù - e Paolo associato dalla propria missione alla novità assoluta dell'avvenimento evangelico, che fa sì che l'Alleanza si apra e la Chiesa di Dio passi da una setta giudaica ad un popolo nuovo.
L'importanza del martirio in quanto tale proviene dal fatto che esso rappresenta il criterio supremo dell'autenticità cristiana, il sigillo assoluto della testimonianza evangelica. Con la propria morte, il testimone della fede entra in comunione con la gloria di Cristo Gesù. In qualche modo fa suo il passaggio attraverso la Croce. Si ricordi il desiderio di Ignazio di Antiochia con il motivo che lo sorregge(Rm 4,1-6,2): solo allora si è veramente (alêthôs) discepoli con l' "imitazione" della passione, solo allora si è in piena comunione con Gesù il Cristo. Il martire si colloca così «al di sopra dei profeti in quanto profeti, e pertanto al di sopra degli apostoli in quanto apostoli».” E. Lannne, op. cit. 293) Ora la morte di Pietro e di Paolo unisce la gloria del martirio e la grandezza dell'apostolato. E quali apostoli! La comunione che il loro martirio suggellerà è l'incontro, in Romastessa, dei due 'magisteri' del Nuovo Testamento. Ciò che si 'glorifica' (per Ireneo) nella liturgia del sangue versato (Fil. 2, 17; 2 Tm. 4,6) è la testimonianza della Parola annunziata. Fratelli nel la morte per il Signore, Pietro e Paolo sono anche fratelli nell'annuncio della Parola, ma un annuncio che ha una densità particolare, quella di un 'magistero':
“Nella seconda lettera (di Pietro) la funzione di pastore attribuita a Pietro riceve un'applicazione diversa da quella che aveva nella prima: lo si rappresenta innanzitutto come custode della fede ortodossa; e questa funzione poteva in realtà essere anche quella del presbitero-pastore, come indicano Atti 20,28-30. La sua autorità apostolica gli dà un titolo incontestabile per portare un giudizio sulle interpretazioni della Scrittura, anche se si tratta degli scritti di un altro apostolo. Si può parlare ora di un 'magistero di Pietro', magistero che si ricollega forse, a modo di applicazione, al potere di legare e di sciogliere menzionato da Matteo.
Se volessimo ora volgerci alle lettere pastorali (forse posteriori a Paolo, come le lettere dette di Pietro sono forse posteriori a quest'ultimo), scopriremmo ben presto come si possa parimenti parlare di un 'magistero di Paolo'. Nella seconda a Timoteo (2 Tm. 1,13) Paolo è ritenuto esprimersi così: «Prendi per norma le sane -parole che hai udito da me». Se ne concluderà che negli ultimi scritti del Nuovo Testamento si manifesta una concezione dell'autorità apostolica - di un'autorità che non è solo quella di Pietro -, secondo cui questa sarebbe una protezione contro l'errore (2 Tm. 4,3-4). A tal fine si è potuto invocare il nome di parecchi apostoli, come quello di Giacomo, ad esempio pio tra i giudeo-cristiani. Ma nei racconti canonici del Nuovo Testamento, Pietro e Paolo sono le figure più rappresentative di questa autorità apostolica la cui importanza va crescendo. All'epoca in cui fu redatta la 2 epistola petrina, Pietro cominciava persino a prevalere rispetto a Paolo. L'agente catalizzatore di questa evoluzione potrebbe essere stato costituito dal fatto che i fomentatori di disordini, gnostici probabilmente, traevano argomenti dagli scritti di Paolo. L'autore della lettera avrà presunto che, per convincerli di errore, non c'era mezzo più efficace dell'appellarsi all'autorità di Pietro”
(Saint Pierre dans le nouveau Testament, coll. Lectio divina 79, Parigi 1974, 191-192)

Il sigillo che il martirio pone alla parola, la consumazione della testimonianza verbale nella testimonianza del sangue versato, ecco ciò che 'fonda e costituisce' la chiesa di Roma nella sua 'più eccellente origine', nella sua più salda autenticità apostolica, nella sua potentior principalitas. Quando la versione latina di Ireneo adopera il verbo fundare (in Adv. Haer. III, 3,1-2), sembra proprio che traduca il greco themelioô, che Ireneo usa subito dopo là dove possediamo l'originale greco. Ora, tra i vari sensi del termine, è "rendere incrollabile', 'fissare per sempre', 'consolidare con fermezza le fondamenta' quello che qui va ritenuto (dal Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Stuttgart, t. 3, 64). Pietro e Paolo, con la loro testimonianza di una Parola evangelica suggellata e glorificata nel martirio e nella morte 'gloriosa', hanno dato alla chiesa di Roma incrollabili fondamenta di una qualità particolare. Inoltre, la presenza dei loro “trofei” i loro corpi e le loro tombe - rende permanente, nella mentalità dei primi secoli, la loro appartenenza alla comunità di Roma. La loro testimonianza diventa il bene proprio della Chiesa che celebra l'Eucaristia sulla loro 'confessione'. Essi fondano così la sua potentior principalitas, che si edifica su di loro. È noto ciò che Eusebio di Cesarea riferisce di Nerone:

Sotto il suo regno, Paolo fu decapitato a Roma stessa e parimenti Pietro vi fu crocifisso e questo racconto è confermato dai nomi di Pietro e di Paolo dati finora ai cimiteri di quella città. È quanto afferma un uomo ecclesiastico, di nome Gaius, che viveva all'epoca di Zefirino, vescovo dei Romani (testimonianza dunque del 200 d.C. N.d.R). Discutendo per iscritto contro Proclo, il capo della setta catafrigiana, dice testualmente riguardo ai luoghi in cui furono deposte le sacre spoglie dei predetti apostoli:
«Per me, posso mostrarti i trofei degli apostoli. Se vorrai andare al Vaticano o sulla via Ostiense, troverai i trofei di coloro che hanno fondato questa Chiesa».
Che entrambi abbiano reso testimonianza nello stesso periodo, è quanto afferma per iscritto Dionigi, vescovo di Corinto, che scrive ai Romani:
«In tale ammonizione, avete anche unito le piantagioni fatte da Pietro e da Paolo, quelle dei Romani e quelle dei Corinzi. Infatti entrambi hanno piantato nella nostra Corinto e ci hanno parimenti istruiti; e parimenti, dopo aver insegnato insieme in Italia, hanno reso testimonianza nello stesso periodo» .(Hist. Eccles. II, 25, 6-[SM=g27989]


Roma è pertanto la sede di Pietro e di Paolo. L'hanno 'fondata'. Ne sarebbero forse stati i "primi" evangelizzatori? (Su questo cf. le opinioni di Cullmann sull’eventuale prima missione di Pietro a Roma come capo della missione giudeo-cristiana, idee esposte in questo messaggio).
Che Paolo non sia stato all'origine della comunità romana, basta leggere la sua lettera ai Romani e gli Atti degli Apostoli per esserne convinti (Rom. 1,7,15; 15,28; Atti 28,14-15). Che Pietro sia venuto a Roma, la Tradizione è troppo salda al riguardo per poterlo mettere in dubbio; ma è assai poco verosimile che egli sia stato il punto di partenza della chiesa di quella città nel senso di un fondatore assoluto. Non abbiamo per altro alcuna prova diretta che vi sia stato a Roma un vescovo, e non un collegio di presbiteri o di episcopi, prima della metà del sec. II; sulle testimonianze indirette dell’esistenza o meno di tale struttura s’è già trattato sopra, in relazione all’ attestazione dell’episcopato monarchico in altre comunità fuori da Roma nel I secolo. Per altro Ireneo ha cura di precisare che Lino fu il primo vescovo dopo i fondatori, Pietro e Paolo, ma non attribuisce direttamente a Pietro il nome vescovo. Pure Eusebio dice che “Dopo il martirio di Pietro e Paolo, Lino fu il primo ad ottenere l’ episcopato della Chiesa di Roma(III,2)”. Quindi anche per Eusebio il primo vescovo è Lino. Ma qui c’è il dilemma, in seguito lo stesso Eusebio dice che “A Roma, dopo che Evaristo concluse l’ottavo anno di episcopato, QUINTO nella successione di Pietro e Paolo….” (IV,1), eppure, se si esclude Pietro dalla lista dei vescovi, Evaristo avrebbe dovuto essere il quarto, non il quindi. Questa è la prova che siccome la natura dell’episcopato petrino era sentita come totalmente diversa, anzi sorgente e fondazione dell’episcopato stesso, egli non era incluso nella lista per non equipararlo agli altri vescovi facendone semplicemente il numero di una serie, bensì ne era fuori, come una sorgente visto che traevano la loro autorità proprio dalla sua fondazione apostolica, che non fa parte della struttura perché l’ha creata, eppure Evaristo fu il quinto perché Pietro, seppure vescovo di tutt’altro genere e fonte della lista successiva, fu sempre il primo. Ecco perché Eusebio pur non mettendolo nella lista dei vescovi può comunque dirci che fu il primo, ed è questo identico fenomeno che si rintraccia in Ireneo quando pone Pietro e Paolo come i fondatori della successione ma non parte della successione stessa. Su questo come già scritto ho trovato l’appoggio di Gnilka: “Interessava solo l’elenco nel suo insieme, come un tutto unico che vuole dimostrare la successione apostolica relativa alla chiesa di Roma. Il risultato era dato dai nomi nella loro concatenazione, quali anelli di una catena. Importanti erano i nomi degli apostoli all’inizio, che proprio per la loro peculiarità non venivano neanche inclusi nella numerazione. Essi denotano la sorgente dalla quale sono fluite la tradizione e la predicazione attendibili” J. Gnilka, Pietro e Roma, Brescia, 2003, Paideia, pag. 222)
Questo è estremamente importante. Concepire Pietro quale primo anello di una catena di vescovi, in una visione puramente giuridica di trasmissione di poteri, significa svalutare il suo ruolo. Questo è unico, efapax. Pietro 'fonda' la chiesa romana perché con Paolo, mediante il suo insegnamento ed il suo martirio, ne fa quello che è: la chiesa testimone della fede evangelica. Per la stessa legge che ha voluto che un popolo, Israele, sia il popolo eletto e lo rimanga (Rom. 11), una chiesa locale, quella di Roma, diventa così la custode della testimonianza apostolica suprema. Si crea, secondo l'economia stessa della realizzazione del disegno di Dio fin da Abramo, un vincolo quasi carnale tra il popolo nuovo e la chiesa della città in cui siedono Pietro e Paolo.
Così si spiega il peso di autorità della chiesa locale di Roma in seno alla comunione delle chiese. Peso di fede più che di poteri, di esemplarità della testimonianza più che di giurisdizione. Sarà dunque chiamata ad esercitare un influsso, in un mondo in cui i mezzi di comunicazione rimarranno a lungo precari. Comunità cristiana nella nuova Babilonia, diventerà come la 'memoria' della presenza della salvezza in pieno peccato del mondo, segnata tutta dall'autenticità eminente della testimonianza che ha la missione di conservare.
Nel leggere la storia complessa dei rapporti tra chiese nei primi secoli, quando ancora non sono fissate le tradizioni, si scopre che l'asse principale attorno al quale s'irradia questo influsso della chiesa romana è la funzione di pietra di paragone cui ci si riferisce nei casi controversi o di punto di riferimento. La pietra di paragone consente di riconoscere ed apprezzare il valore di una cosa, e qui della dottrina; il punto di riferimento consente di camminare fedelmente nonostante le difficoltà, e qui di orientarsi sul modello dato dagli apostoli. Ci si trova così sul piano del segno, del memoriale. La chiesa di Roma è quella che 'ricorda' la grande e gloriosa confessione della fede apostolica di cui è stata il luogo e di cui rimane la custode. Garantisce così l'autenticità dell'appartenenza a Cristo; trovarsi in comunione con essa significa essere collegati alla confessione gloriosa dei due apostoli della fede e con questo al Signore.
Più tardi, è vero, quando i particolarismi si irrigidiranno e si affronteranno fin sul piano dogmatico, la comunione delle chiese si vedrà compromessa in un modo che spingerà la Chiesa romana a farsi arbitra e giudice, rivendicando per sé un largo margine di potere giuridico. Affermando con sempre maggior vigore il proprio posto nella gerarchia delle chiese, metterà il peso della sua autorità al servizio del mantenimento di un'unità di cui si vuole non più solo la pietra di paragone ma l'elemento centrale. Cercherà di diventare una maestra di verità, cui dovranno 'sottoporsi' anche le chiese d'Oriente che non sono allo stesso diapason.
Il pontificato di Leone Magno segna al riguardo la svolta. Paradossalmente, quest'accento della chiesa di Roma sulla sua vocazione di agente necessario dell'unità accelererà la divisione della Chiesa:
“Ampie parti di cristianità fanno secessione. In molti altri rimane il senso di una specie di frustrazione - un risentimento tenace. Il movimento che allontana l'Occidente, in questo caso unanime dietro a Roma, e l'Oriente esso pure diviso nonostante gli sforzi del potere imperiale, questo movimento già ben avviato precedentemente si va accentuando. Non è che si neghi il ruolo di Roma, reclamato con vigore da Roma, ancorché l'Oriente rimanga forse più vicino alla vecchia concezione ('pietra di paragone' della fede), mentre il papa impone quella nuova (arbitro e giudice dell'ortodossia), e grazie all'appoggio del potere politico il cui cambiamento di rotta è stato decisivo. Certamente era immenso il pericolo, al quale ha posto un riparo la decisione romana: la vecchia tentazione di sfumare nella gloria del Signore risorto l'umile condivisione della nostra condizione tramite la quale Gesù ha realizzato la sua opera di salvezza. Ma le circostanze sopra richiamate, e innanzitutto l'estraneità culturale intervenuta tra Oriente ed Occidente hanno forse reso impossibile un più agile confronto. Avrebbe potuto questo consentire di accogliere diverse sensibilizzazioni su aspetti vari del mistero che si scontravano fino all'incomprensione? Forse allora sarebbe stata possibile una vera concordia."(B. Carra de Vaux, Les images de la papauté au cours des siècles, in Lumière et vie 133, 1977, 48-49)
A puntare troppo sul giuridico, la chiesa di Roma non ha forse velato o distorto un po' il cuore della sua missione?

[Modificato da Polymetis 24/12/2006 15.18]

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Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
(Κ. Καβάφης)
24/12/2006 15:22
 
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Comunque sia, rimane il fatto che dogmaticamente l'asse della principalitas di Roma, attorno al quale si devono innestare altri elementi, ma senza trasformarlo o sfigurarlo, è la funzione di memoriale della grande e gloriosa confessione di Pietro e di Paolo, che la rende pietra di
paragone e punto di riferimento della fede apostolica. Soprattutto in questo manifesta il suo primato.
Per questo ho già scritto che non è un errore storico criticare il primato di Roma inteso come primato giuridico, mentre è un errore storico criticarne il primato dottrinale, ed è su questo che lavora il dialogo ecumenico. Altre fonti antiche che manifestano a cosa Roma debba il suo onore le avevo già riportate nel post a Teodoro (senza alcuna pretesa di completezza, perché sono davvero disperse ovunque e andarle a pescare va oltre le mie forse):
-La risposta di Siricio a Imerio di Terragona in cui si dice: “Noi portiamo i pesi di tutti coloro che sono oppressi; o piuttosto in noi li porta il santo apostolo Pietro, che, come noi confidiamo, ci protegge e custodisce in tutto, noi, gli eredi del suo ministerio” (PL 1133 A)
-Il sinodo di Antiochia(341), che pure si opponeva a causa della situazione contingente che ben conosciamo ad un’ingerenza romana, descrive a causa di cosa essa abbia preminenza. Il Concilio scrive “che la Chiesa romana è considerata da tutti gloriosa, per esser stata il domicilio degli apostoli e sin dall’inizio la capitale della pietà, anche se coloro che vi hanno portato la fede erano giunti a lei dall’Oriente” (Sozomeno, Storia della Chiesa, III, 8,5 (PG 67 1054 A-B)
- I Concili ecumenici, a prescindere dal caso particolare del Constantinopolitano II, hanno sempre seguito le indicazioni di Roma. Come già ricordato a Calcedonia non si dice: “Cesare ha parlato per bocca di Leone” ma “Pietro ha parlato per bocca di Leone”. Oltre a seguire le indicazioni di Roma in alcuni casi non hanno risparmiato neppure gli elogi, ad esempio nel Costantinopolitano II. In quel caso i Padri Conciliari accolsero l’epistola di papa Agatone come “scritta dal supremo vertice divino degli apostoli”(Sacrorum Conciliorum Nova et amplissima collectio, a cura di G. D. Mansi et al., 11, 684). Nell’acclamazione conclusiva poi si legge: “Il supremo principe degli apostoli ha combattuto con noi; il suo imitatore e successore sulla cattedra è dalla nostra parte e ci ha spiegato con una lettera il mistero dell’incarnazione divina. La vecchia città di Roma ha presentato una professione di fede scritta da Dio e ha fatto sorgere dall’Occidente la luce del dogma. Sembrava carta ed inchiostro, e attraverso Agatone parlava Pietro” (Ibid., 666)

Quanto ho esposto basantomi sui lavori di Tillard e Schatz è mirabilmente espresso, in forma semplice, da René Beaupère, Fragments du journal du pape Paul VI, in Lumière et vie 133, 1977, 112-116. Ne estraggo i seguenti brani:

“Ciò che è primo, non è il mio primato personale di papa, è il primato della Chiesa di cui sono il pastore. Ma perché questo primato di Roma? Non mi si dica che si tratta qui di un fatto puramente 'politico', che l'ordine civile ha modellato l'ordine ecclesiastico, che la gerarchia delle sedi cristiane è stata ricalcata sulla gerarchia delle metropoli dell'Impero romano. È comunque una storia ben vecchia e da allora molta acqua è passata sotto i ponti del Tevere: una seconda Roma è sorta sulle rive del Bosforo, e anche una terza sulla riva della Moscova. Stat crux dum volvitur orbis...
Vi sono altri motivi per la scelta di Roma. Certamente, Roma era la capitale e per questo Pietro e Paolo vi sono venuti e vi hanno terminato la loro corsa apostolica. Il fatto che i due apostoli siano stati martirizzati nella nostra città pone un fondamento ben più saldo al suo primato. Mi piace la formulazione di sant'Ireneo, il grande vescovo di Lione. Dice che la chiesa di Roma è stata fondata e costituita dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo e che a motivo di questa 'origine più eccellente' tutte le altre chiese si devono necessariamente accordare con essa (Adv. Naer., III, 3,2). La gloria attribuita da Ireneo a Pietro e Paolo è evidentemente quella del martirio. Non era un gesto privo di significato quello che compivano i nostri primi fratelli quando celebravano l'eucaristia sulla tomba dei martiri. Affermavano con questo il loro convincimento, che è sempre il nostro, che il dono della vita fino all'effusione del sangue per Cristo e, in certa misura, in conformità con lui, è il compimento della perfezione per un cristiano e che si edifica - nel senso più forte del termine - la Chiesa con la realizzazione di questo ideale.
Pietro e Paolo. I due insieme. Pietro, il portavoce ed il corifeo dei Dodici, il capo degli apostoli. Ma anche Paolo, l'outsider, l'aborto ricuperato da Cristo sulla via di Damasco, scelto fuori dai sentieri battuti, l'apostolo 'carismatico'.
Ho l'impressione che, nonostante testimonianze irrefutabili e venerabili di questa presenza di Paolo a Roma, la personalità di Pietro l'abbia un po' oscurato. Rincresce molto.
Mi si chiama il 'successore di Pietro' e così si è fatto di Pietro il primo vescovo di Roma. Ma non sono tanto sicuro che non si debba tornare alla concezione di sant'Ireneo per cui la chiesa di Roma ha avuto Lino come primo vescovo, dopo i fondatori: Pietro e Paolo.
Infatti i due apostoli sono inseparabili. Lo attesta l'iconografia primitiva: guardate nelle catacombe di san Sebastiano, sulla via Appia, le invocazioni rivolte a tutti e due insieme. Pensate che abbiamo conservato fino ad oggi una festa unica dei due apostoli, il 29 giugno, e che, se abbiamo aggiunto una commemorazione di Paolo il giorno successivo 30, ritengo sia per essere certi che la personalità di Pietro non offuschi quella dell'Apostolo delle genti”


Pur con qualche precisazione è un’ottima sintesi


" Può darsi, ma il fatto che in essa non vi siano eresie è dovuto al fatto che fu per primo Paolo a dirigerla. Siccome la corrente vincente del cristianesimo nascente fu proprio quella paolina, è normale che la dove una comunità rispettasse proprio gli schemi dottrinali di Paolo"

Baggianata. La corrente cosiddetta "paolina", cioè di coloro che si rifacevano a Paolo, è quella che ha generato più eresie in assoluto, richiamandosi a lui e mal interpretandolo sono nate le correnti gnostiche antigiudaiche, e Marcione sopratutto. Inoltre di comunità paoline abbonda il mondo, basta citare Efeso e Corinto.

" Ancora ? Da quando la storia la fanno solo le citazioni ? La storia è analisi e interpretazione dei fatti raccontati dai testimoni."

Allora attendo di sapere da quale racconto di quale testimone avresti ricavato che la preminenza dottrinale di Roma dipende dalla sua posizione socio-economica.

" anche perché non lo sostengo io che non sono uno storico, ma chi lo storico di quel periodo lo fa di mestiere. "

Lo sostiene chi e dove. Mai sentito parlare di ricerca e di dibattito accademico? Di monografie e di articoli? La sempliciottaggine con cui tutti pretendono di accostarsi a questi argomenti è sconvolgente, ignorando il dibattito che sta dietro.

"una cosa è dire che Pietro è il primo apostolo, un’altra è dire che Pietro ha fondato o diretto la comunità di Roma, secondo te è la stessa cosa ? "

Ho semplicemente detto che nelle fonti ci si rivolge a Roma perché depositaria perché li morirono e predicarono Pietro e Paolo, ma giacché di apostoli ce ne sono dodici e di comunità ne hanno fondate molte altre, non si capisce perché proprio quel magistero legato all'apostolo Pietro abbia generato la preminenza di Roma a meno che non si postuli, come del resto si evince dal Nuovo testamento, che Pietro era il capo degli apostoli. Anzi gli Atti degli Apostoli sono metà sulla predicazione di Pietro e metà sulla predicazione di Paolo proprio per questo.

" Ed io sto dicendo che non è la sede del magistero petrino, ma di quello paolino"

Tu puoi dire quello che vuoi, ma non hai una conoscenza del mondo antico che ti permetta di dimostrarlo. trovami un padre della Chiesa che si appelli a Roma perché era la sede del magistero "paolino" se ci riesci.

"Io non ne ho ancora visti !"

Documentati, io non so che farci. Puoi trovare un' abbondante documentazione sul riconoscimento del primato nella patristica orientale leggendo l'articolo di E. Testa "Le comunità orientali nei primi secoli e il primato di Pietro", in Rivista Biblica 16,1968 547-555. Si trova in qualunque biblioteca universitaria , e se non puoi procurartelo lo metto io sul forum, ma poi non lamentatevi sul fatto che dovete leggervi i polpettoni in rete. E' inoltre da rilevare che uomini come S. Policarpo, Egesippo, s. Giustino, Abercio, s. Ireneo, Origene, si siano mossi dall'Asia e dall'Egitto per recarsi a Roma, anzi, fin dal II secolo, come attestano Ireneo, Tertulliano e S. Cipriano, vi si recavano gli eretici stessi (Valentino, Cerdone, Marcione, Apelle, Prassea, Florino, Teodoto Bizantino)per ottenere una conferma delle loro dottrine (per questo ed altri aspetti si veda l'Enciclopedia Cattolica, Città del VAticano, 1953, vol. X, pag. 11) Si noti poi che erano spesso territori di recente occupazione, che avevano i loro "centri" altrove. Chi consoce la letteratura latina sa che è vero il contrario di quanto qui si vuol far passare, ossia che erano i giovani romani ad andare in oriente, specie ad Atene e ad Alessandria, perché la civiltà greca era ritenuta il luogo della scienza e della saggezza. Si può dire anzi che un giovane di buon famiglia non potesse non fare il suo viaggio ad Atene. Al contrario i greci mai hanno imparato il latino, come qualunque altra lingua del resto, per la semplice ragione che furono i romani ad imparare il greco. Non si poteva certo chiedere agli elleni di imparare la lingua dei barbari romani, e infatti non lo fecero. Graecia capta ferum, victorem cepit. Non ha nessun senso nel I e del II secolo per chi deriva dal mondo greco andare a Roma in quanto questa città sarebbe il centro sociale dell'impero, questa non è un’affermazione vera né a livello commerciale né a livello culturale, anche perché stabilire dove nebga prodotta la letteratura migliore è qualcosa di molto soggettivo.

"ma non vedo da nessuna parte dove questa nascita sia riconducibile, storicamente, alla fondazione o direzione di tale comunità da parte di Pietro. "

Siccome tutte le fonti sull'appello a Roma fanno "ricorso" in base a questa, e giacché la tua ipotesi socio-politica le ignora completamente per postulare il non suffragato da alcunché, finché cioè qualcuno non mi spiega perché mai ad un cristiano del II secolo dal punto di vista dottrinale per risolvere le sue controversie teologiche dovrebbe importare la posizione socio-polica di una città, anziché la genuinità dell'insegnamento apostolico che è invece il criterio che emerge dalla patristica, finché dicevo tutto ciò non sarà spiegato con argomenti più seri che non siano il puntare i piedi e l'invocare con una petitio principii contesti di sociologia del cristianesimo primitivo anch'essi non dimostrati, il primato di Roma era ed è legato alla Traditio apostolica di quella città che fu il luogo della predicazione e della morte di Pietro e Paolo. Neppure gli ortodossi sarebbero d'accordo con te, per farlo bisognerebbe non aver mai studiato patristica nella propria vita. Infatti anche i teologi ortodossi dal IV secolo in poi, cioè quelli che dopo la costituzione del patriarcato di Costantinopoli e il suo rafforzamento dovuto alla mano dell'imperatore che voleva concentrato in una sola città il potere politico e spirituale, dicevo dunque che neppure questi teologi al servizio di Bisanzio verso il IV-V secolo, pur cercando di far derivare l'autorità di Roma anche dal fatto che era la città imperiale, mai hanno negato l'altra motivazione, questa volta vera, della sua preminenza, cioè la predicazione petrina e paolina. A questo proposito ho trovato una pagina interessante su papa Leone Magno in un sito ortodosso, e anche qui giustamente si riconosceva il primato petrino, e riprendendo nell'incipit il can. 28 di Calcedonia si mette in riga col parere ortodosso, ma non nega il seguito:
"Ai tempi in cui la Chiesa d'Occidente era in comunione con la Chiesa indivisa, il Papa di Roma, in quanto vescovo della capitale dell'impero e patriarca d'Occidente, godeva di una certa priorità nella comunione della Chiesa ed era considerato, da tutti i cristiani, come il custode per eccellenza della tradizione apostolica, facendo da arbitro nelle questioni dogmatiche. Occupando la cattedra romana in una delle epoche più critiche della storia, durante la quale, oltre alla caduta dell'impero d'Occidente, la Chiesa si trovò ad essere minacciata dalle divisioni causate dagli eretici, san Leone seppe proclamare la dottrina della Verità e adoperò tutte le cure possibili per preservare l'unità della santa Chiesa; pertanto esso è venerato, in Occidente come in Oriente, con il nome di san Leone Magno." (http://www.orthodoxia.it/agio_leone.php)
E' estremamente interessante vedere come Costantinopoli, che neppure era sede di predicazione apostolica, diventi grazie all'imperatore la seconda sede della pentarchia e abbia la furbata di far passare i privilegi delle sedi patriarcali come dovuti alla politica in modo da non sentirsi inferiore ad Alessandria, Antiochia e Gerusalemme.

"alla fondazione o direzione di tale comunità da parte di Pietro"

La più antica testimonianza su questo punto è in Ignazio quando dice che non vuole dare ordini ai Romani perché a loro lì hanno dati Pietro e Paolo. Il verbo è proprio "dare ordini" quindi una qualche direzione c'è stata.

"è che se la mia tesi non incontra i tuoi favori, avrai sempre il modo di ribattere, se esponessi una mia tesi mi risponderesti che non sono informato, se mi informassi in rete, mi diresti che la rete è tutta un’accozzaglia di qualunquismo, se leggessi dei testi divulgativi, mi diresti che i testi divulgativi non servono a nulla"

Fin qui è corretto. Con la precisione che i testi divulgativi non servono a nulla solo per chi voglia poi discutere seriamente di queste cose, per chi invece vuole farsi un'idea e non pretende di dissertare vanno benissimo. Quanto alle monografie il problema non è solo conoscere il dibattito accademico che sta dietro e le correnti, il che è verissimo, bensì capire le monografie stesse, che non sono alla portata di chi non sia antichista.

"se mi laureassi mi diresti che un qualsiasi laureato può dire quel che gli pare perché occorre essere un ricercatore, se diventassi ordinario di storia del cristianesimo, mi diresti che ogni professore ha le sue tesi e dunque il parere di uno vale quello di un altro"

Curioso come salti da "ricercatore" a "ordinario" come se in mezzo non ci fossero i docenti a contratto. Ad ogni modo io non ho mai detto quanto affermi, ho detto che una persona laureata in genere conosce il dibattito accademico che sta dietro ad un problema, se è il suo campo, e dunque non estremizza mai dicendo castronerie. Io infatti non conosco nessuno che dica che la primazia di Roma deriva solo dalla sua posizione socio-politica e non sopratutto dal fatto che il cristianesimo primitivo sapeva che essa era sede apostolica di Pietro e Paolo. Una posizione diffusa ed equilibrata è in chi vede l'intreccio di prestigio politico e di prestigio religioso, la tua tesi invece sto ancora spettando di sapere dove sarebbe sostenuta, perché come ripeto il Filoramo-Menozzi l'ho letto molto prima di te e non me parso che dicesse una cosa simile.

"Ma come si fa a dedurre da quella frase e dal contesto di Clemente che il “presunto” martirio (presunto perché Clemente non lo dice esplicitamente) sia avvenuto proprio a Roma ?"

A Roma perché c'è scritto "fra noi", quindi in mezzo ai romani. Inoltre è martirio perché usa il lessico martiriologico classico, i due vengono chiamati " i gloriosi apostoli" e poi si dice che "resero testimonianza"(martyrein), e tutti sanno che doxa abbinata con martyrein richiama per l'appunto il martirio. "A causa della gelosia e dell’invidia le maggiori e giuste colonne furono perseguitate e lottarono fino alla morte. Poniamo di fronte ai nostri occhi i gloriosi apostoli: Pietro, che per ingiusta invidia dovette subire non uno o due ma molti colpi e così, resa la sua testimonianza, andò al luogo della gloria che gli spettava. A causa della gelosia e dell’invidia. Paolo riportò il combattuto premio della costanza: sette volte fu incatenato, dovette soffrire, fu lapidato, divenne araldo in oriente e in occidente ottenne una sì gran gloria per la sua fede. Dopo aver insegnato a tutto il mondo la giustizia ed essere giunto fino alle estremità occidentali del mondo e aver reso testimonianza dinnanzi ai potenti, fu liberato dal mondo e andò al luogo santo, egli, il maggior esempio di costanza.”
Più chiaro di così si muore. La costanza è quella del perseguitato che non abiura, la gloria (doxa) è quella del martirio, il martire infatti è colui che testimonia la fede. Questa è una combinazione che ricorre ovunque nei martiriologi antichi, basta aprire un lessico di greco patristico. Da notare poi che non solo dice che essi divennero testimonianza "fra di noi", ma per di più c'è sempre, come in Ignazio, la coppia Pietro-Paolo che non si spiega se non con un martirio dei due nella città, perché altrimenti avrebbe potuto citare qualunque altro apostolo morto martire.

" per ricondurre l’avvenimento citato da Clemente al martirio addirittura in Roma, mi sembra davvero piegare i fatti alla nostra visione della storia. "

Io non ho dato certezze, ho semplicemente fatto notare che "propter invidiam" è nella patristica la giustificazione classica di cristiani che ne denunciano altri, e che Clemente, indirizzandosi ad una comunità che per l'appunto aveva questo problema, parla di un episodio simile avvenuto fra di loro e che coinvolse una grande fosse, e guarda caso parlando di questo episodio cita Pietro e Paolo. A ognuno le sue riflessioni.

"Sappiamo che Pietro fu ripreso dalla Chiesa di Gerusalemme per il fatto che cenava con i pagani convertiti che non rispettavano i precetti giudaici. Pietro subito obbedì al richiamo della sua Chiesa distaccandosi da costoro.”

Come? Innanzitutto Pietro non è stato ripreso dalla “Chiesa di Gerusalemme”, non sono menzionati né richiami né ordini, fa tutto da solo per timore di apparire troppo liberale ad un “ambasciata” di giudei che gli era arrivata da parte di Giacomo. Ma non si dice perché questi giudei siano venuti, potevano essere arrivati anche per fargli gli auguri di compleanno per quanto mi riguarda, semplicemente sappiamo che dopo il loro arrivo Pietro per non sembrare troppo filo-pagano dinnanzi a questo tradizionalisti smette di stare a tavola coi pagani. Ma non ci sono prove che questo sia stato causato da un messaggio che portavano da parte di Giacomo, e non invece, come sostengono, da una situazione creatasi dopo il loro arrivo quando gli sbalorditi giudei ortodossi giunti da Gerusalemme vedono il loro fratello a mensa coi disprezzati pagani. Leggiamo il brano di Paolo:

“Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?
Noi che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno».” (Gal 2,11-16)

Per comprendere l’atteggiamento di Pietro verso la legge dobbiamo prima interrogarci sulla sua figura.
Paolo riferisce del riconoscimento tributato della Chiesa di Gerusalemme in base al quale a Pietro era stata affidata la missione presso i circoncisi, mentre a Paolo quella presso i non circoncisi (Gai 2,7). Tuttavia l’esattezza effettiva di questa affermazione di Paolo è oggetto di discussione. I Vangeli Sinottici riconoscono tutti che Pietro era stato dichiarato pubblicamente un “pescatore" e che era stato chiamato Cefa o "Roccia", etichette che non indicano certamente una peculiarità di tipo culturale. Matteo, inoltre, riferisce che Pietro era tra coloro ai quali Gesù aveva ordinato: "andate [...] e fate discepoli tutti i popoli" (28,19). Infatti, sono registrati dei viaggi di Pietro ad Antiochia (Gai 2,11), a Corinto (1Cor 1,12; 9,5) e presumibilmente a Roma (1 Pt 5,13). Si ritiene che abbia scritto delle lettere ai "fedeli che vivono come stranieri" in Asia Minore (l Pt 1,1), che sono evidentemente dei Gentili. Inoltre, gli Atti raccontano che fu Pietro ad accogliere Cornelio tra i discepoli cristiani dopo aver avuto una visione di Dio che purificava il cibo (e la gente) (10,15.28.34). In At 15,7 Pietro sostenne che Dio aveva fatto uso della sua bocca per parlare ai Gentili. Ci sono dunque svariate prove, coerenti e solide, dell’attività svolta da Pietro tra i Gentili. Anche se si potrebbe pensare che, in quanto apostolo tra i circoncisi Pietro avrebbe dovuto rispettare le norme di purità alimentare, nel NT non ci sono riscontri di ciò. Ad Antiochia Pietro mangiava alla tavola comune con ebrei e Gentili senza distinzioni (Gal 2,12), mangiando presumibilmente cibo impuro con gente non osservante, il che non causò nessun problema con Paolo o con gli abitanti di Antiochia. Paolo lo criticò per essersi allontanato da questa tavola aperta quando arrivarono i cristiani ebrei. La questione per noi è complessa, perché marco ricorda come la cerchia più ristretta dei discepoli avesse udito Gesù abolire le restrizioni alimentari(7, 719). Anche Matteo riferisce che Pietro chiese specificatamente a Gesù di spiegargli le sue osservazioni riguardo alla purità (15,15), in modo da renderlo il beneficiario di questa conoscenza straordinaria. Due volte Luca, nelle istruzioni riguardanti le missioni, ricorda come Gesù avesse detto a Pietro e agli altri di ignorare le restrizioni alimentari: "mangiate quello che vi sarà offerto" (10,7[SM=g27989]. Quindi, fatta eccezione per Paolo, il resto del NT concorda sul fatto che Pietro fosse stato autorizzato a svolgere un ruolo missionario nella diffusione del vangelo presso i Gentili, visitandoli e mangiando con loro. Si deve dunque intendere la precisazione paolina come una linea guida che era stata stabilita ma che, nel caso ci si trovasse con pagani che volevano convertirsi, non era certo da osservare in modo intransigente solo perché non si è era gli incaricati ufficiali della macro-missione tra i pagani, affidata a Paolo. ( Per tutto questo si veda Jerome H. Neyrey, lemma Pietro, in “Il Dizionario della Bibbia” a cura di Paul. Achtemeier e della Society of Biblical Literature, Bologna, 2003, Zanichelli, pag. 661)

“Il tipo di cristianesimo che predicava l’apostolo non è affatto chiaro, dalle fonti pare di notare in lui una posizione che sta a metà tra l’estremismo paolino (apertura totale ai gentili escludendo i precetti giudaici) e l’estremismo opposto di Giacomo (totale rispetto della legge e dei riti di purificazione)."

Ma cosa dici? Non è affatto vero che Paolo esclude i precetti giudaici, semplicemente ne fa occasione di opportunità.
Cito da 1Cor 8: “Quanto poi alle carni immolate agli idoli, sappiamo di averne tutti scienza. Ma la scienza gonfia, mentre la carità edifica. Se alcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere. Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto. Quanto dunque al mangiare le carni immolate agli idoli, noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c'è che un Dio solo. (…).M a non tutti hanno questa scienza; alcuni, per la consuetudine avuta fino al presente con gli idoli, mangiano le carni come se fossero davvero immolate agli idoli, e così la loro coscienza, debole com'è, resta contaminata. Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio; né, se non ne mangiamo, veniamo a mancare di qualche cosa, né mangiandone ne abbiamo un vantaggio. Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la scienza, stare a convito in un tempio di idoli, la coscienza di quest'uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni immolate agli idoli? Ed ecco, per la tua scienza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello.”

Giacomo allo stesso modo non è per il “totale rispetto della legge e dei riti di purificazione”. Cito il brano con la posizione di Pietro e Giacomo:
“Dopo lunga discussione, Pietro si alzò e disse:
«(…) E Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro favore (ai pagani) concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; e non ha fatto nessuna discriminazione tra noi e loro, purificandone i cuori con la fede. Or dunque, perché continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri, né noi siamo stati in grado di portare? Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati e nello stesso modo anche loro».
Tutta l'assemblea tacque e stettero ad ascoltare Barnaba e Paolo che riferivano quanti miracoli e prodigi Dio aveva compiuto tra i pagani per mezzo loro.
Quand'essi ebbero finito di parlare, Giacomo aggiunse: «Fratelli, ascoltatemi. Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome. Con questo si accordano le parole dei profeti, come sta scritto:
Dopo queste cose ritornerò e riedificherò la tenda di Davide che era caduta; ne riparerò le rovine e la rialzerò,
perché anche gli altri uomini cerchino il Signore
e tutte le genti sulle quali è stato invocato il mio nome,
dice il Signore che fa queste cose da lui conosciute dall'eternità.

Per questo io ritengo che non si debba importunare quelli che si convertono a Dio tra i pagani, ma solo si ordini loro di astenersi dalle sozzure degli idoli, dalla impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue. Mosè infatti, fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato nelle sinagoghe».”(At 15,6-19)

"Mi viene tuttavia da riflettere sul fatto che quando io parlai di contrasti accesi tra giudeocristiani e paganocristiani qualcuno di mia conoscenza mi obiettò che non vi sono prove storiche di tale conflitto, ora tali prove compaiono, ne deduco che almeno abbiamo fatto un passo avanti."

Ancora ti difettano le categorie generali per comprendere quello che intendevo dire. Mi chiedo se hai capito il problema che avevo sollevato nei miei interventi, cioè la totale infondatezza della tesi, che più che dalla Bibbia deriva da Hegel, si una opposizione dialettica tra Paolo Pietro, tra il presunto sostenitore dell'apertura ai pagani e il conservatore della tradizione ebraica. Come già detto tale opposizione non esiste e fu risolta in seno all'ortodossia dal concilio di Gerusalemme, non esiste cioè alcun cristianesimo petrino contrapposto ad uno paolino, non ci sono due filoni dell'ortodossia nascente. La soluzione della chiesa è presto detta: i pagani che diventano cristiani non devono prima passare per il giudaismo, cioè non devono circoncidersi e applicare la legge di Mosè. Lo stesso Giacomo era d'accordo per questa direttiva nei confronti dei pagano-cristiani(At 15,19-219). Quando si parla di giudeo-cristianesimo bisogna dunque sapere che cosa si intende, perché con tale termine ci si può riferire sia alla componete ortodossa del cristianesimo primitivo, che rimaneva ancorata alle usanze giudaiche senza imporle agli altri, sia invece un movimento settario successivo che tra le altre cose rifiutava la visione del cristianesimo così come codificata alla riunione di Gerusalemme. Io non ho affermato che non si siano mai state controversie tra questo tipo di corrente e Poalo, bensì che non ci siano stati contrasti (che poi non siano stati risolti) tra Paolo e la missione giudeo-cristiana che dipendeva da Pietro e Giacomo.

"Questa aggiuntina tra parentesi non ti sembra un modus operandi del tutto fuori da ogni criterio storico ? Quel “per mezzo nostro” sta per i cristiani o i presbiteri in senso generico e non significa la Chiesa di Roma !"

Viene da chiedersi come faccia un gruppo di centinaia di persone ad esigere obbedienza, molto più probabile che in quel caso prevalga la voce dell'autore. Inoltre "Chiesa di Roma" è per l'appunto la comunità di roma, ricordo a tutti che chiesa in greco vuol dire assemblea, e che il primato del vescovo di Roma deriva dalla sua sede apostolica e non dal fatto che lui personalmente è bello.

Per Barnabino

Questo tuo messaggio è un capolavoro di mezze verità, insinuazioni, ipotesi ad hoc, teoremi di colpevolezza fino a prova contraria, un pastiche di metodo astorico.

"Dire "assai probabile" con queste considerazioni mi pare azzardato, diciamo che potrebbe essere al massimo "compatibile" ma dalla lettura di Ignazio in sé non si può evincere nulla"

Al contrario storici anche protestanti sono di parere diverso. Per i motivi già elencati e che non ti sei degnato di commentare:

"Nel cap. 4, 3 di questo scritto leggiamo: “lo non v'impartisco ordini come Pietro e Paolo, quelli (erano) apostoli, io un condannato; quelli liberi, io finora uno schiavo; ma se soffro diventerò un liberto di Gesù Cristo, e risorgerò in lui uomo libero”. Così scrive Ignazio alla comunità di Roma, ed è degno di nota che egli richiami alla memoria proprio di quella comunità gli esempi di Pietro e di Paolo. Poiché Pietro non ha mai scritto leggere ai romani, se ne evince che sia stato a Roma direttamente. (...) Dà da pensare che egli proprio nella lettera ai Romani non si accontenti di un espressione generica ma citi per nome proprio Pietro e Paolo. Non si può assolutamente considerare automatica la giustapposizione di Pietro e di Paolo, quando si menzionavano nomi di apostoli: questo potrebbe infatti valere per il periodo posteriore, ma non certo per quello di Ignazio. Non si può eludere il problema del perché i due apostoli fossero menzionati insieme, benché essi, a parte l'incontro di Gerusalemme e lo scontro di Antiochia, non avessero mai operato insieme e anzi, in base all'accordo di Gerusalemme (Gal. 2, 9), dirigessero due organizzazioni missionarie distinte. (...) Nel passo parallelo della lettera ai Tralliani (3, 3) Ignazio non menziona il nome di alcun apostolo : non aveva alcuna ragione di farlo, scrivendo a una comunità che non aveva ricevuto alcuna visita apostolica. Invece nella lettera agli Efesini, fra i quali Paolo era stato, egli menziona per nome questo apostolo, se pure in tutt'altro contesto (12, 2). Egli chiama gli Efesini “i consacrati di Paolo”, poiché Paolo ha esercitato l'apostolato in Efeso. Analogamente Ignazio menziona Pietro e Paolo nella lettera ai Romani, poiché entrambi erano stati a Roma. Questo passo permette di trarre qualche conclusione anche in merito a un'attività precedente dei due apostoli, in Roma? Il verbo “dare ordini” sembra suggerirlo. Qualcuno ha affermato, è vero, che in tal modo sarebbero semplicemente indicate le istruzioni date da Paolo nella sua lettera ai Romani, ma in tal caso non si comprenderebbe l'accostamento del nome di Pietro" Inoltre come s'è visto il testo di Ignazio parla proprio del martirio di Pietro e Paolo col classico "eleutheroi" legato alla gloria e alla persecuzione, in una lettera ai romani.

"specialmente se confrontate con gli scritti canonici che tacciono perfino la presenza di Pietro a Roma."

Come già detto è falso, ne parla Pietro nella sua prima lettera. Del resto non potremmo aspettarci altro. L'unico testo "storiografico" del Nuovo Testamento, che pretenda di raccontarci la vita della Chiesa, cioè gli Atti, si chiude addirittura prima della morte di Paolo, dunque è inutile cercarvi notizie sul martirio di Pietro. Inoltre la distinzioni tra fonti canoniche o meno è del tutto irrilevante per lo storico, ho portato all'attenzione sulla scia di Cullmann cosa dicano a proposito della morte di Pietro a Roma il fr. Rainer e l'Ascensio Isaiae, entrambe opere apocrife di fine I secolo.

"Per altro sarebbe da capire anche quanto storici siamo gli scritti di Ignazio (a partire dallo strano viaggio per essere messo a morte e dal fatto che nessuna fonte antica ne attesta il martirio a Roma!)"

Iniziano le insinuazioni ingiustificate, col negazionismo a priori in testa. Il viaggio a Roma per subirvi il martirio è assimilabile al viaggio fatto da Paolo stesso, delle sue lettere ci parla per primo Policarpo nella sua lettera ai Filippesi, i quali gli chiedevano una copia delle lettere del vescovo di antiochia. Non me ne intendo di agiografia e dunque non so quali siano le più antiche fonti del martirio di Ignazio a Roma, che tanto per inciso è irrilevante perché nelle sue lettere ovviamente non se ne parla essendo l'autore ancora in vita. Se si scrive di martirio romano è perché l'autore stesso si immagina divorato dalle belve quando sarà giunto nell'Urbe. Comunque non è vero che nessuna fonte antica ne attesta il martirio a Roma, il riferimento più antico che, da non addetto ai lavori, sono riuscito a trovare, è in una fonte ben antica, cioè in Ireneo che ci dice venne condannato ad bestias (Adv. Haeres., V, 28,4) Questa è un'informazione di prima mano perché Ireneo era discepolo di Policarpo, e quest'ultimo era amico di e corrispondente epistolare di Ignazio.

“con la sua esaltazione ed il suo punto di vista che non sappiamo quanto fosse condiviso..."

Punto di vista su che cosa?

"insomma egli rappresenta solo un punto di vista limitato e non la realtà storica del momento che invece sembra essere molto più complessa."

Non mi dici di cosa parli e dunque non posso risponderti. Ad ogni modo Ignazio è il vescovo di Antiochia, quindi a meno che non avesse meno di cinquan'anni non solo era successore di Pietro nella cattedra di quella città ma l'aveva anche conosciuto. Antiochia non è il Bronx, la chiesa siriaca è tra le più importante nei primi secoli, addirittura una delle sedi della pentarchia. Inoltre scrive ai maggiori centri cristiani del tempo, come Efeso, Smirne e Roma, evidentemente era ben informato sulla situazione generale. Ma sappiamo che il tuo negazionismo è puramente a macchinetta dunque non ho alcuna possibilità di farti desistere dalla tua assurda convinzione di conoscere il cristianesimo meglio di un vescovo del primo secolo, per giunta di un vescovo di tradizione petrina.

"A mio parere le sue parole, se lette in modo neutrale, farebbero propendere addirittura per l'assenza di Pietro in quella città, infatti non vi è alcun riferimento diretto al suo martirio"

Anche questo è falso. Ho scritto: "Nella Lettera ai Romani Ignazio parla del martirio che lo aspetta a Roma. Davanti agli occhi spirituali vede l'arena nella quale sarà maciullato dalle fiere: “Lasciatemi diventare cibo delle fiere mediante le quali mi è possibile giungere a Dio... Lusingate piuttosto le fiere, affinché diventino la mia tomba...” Queste parole precedono immediatamente la menzione di Pietro e Paolo. Qui egli gioca con le parole libero e schiavo: fino a questo momento si sente schiavo. Col martirio diventerà liberto di Gesù Cristo perché risorgerà uomo libero in lui. Quando descrive Pietro e Paolo come uomini che sono liberi, Ignazio si riferisce certamente al loro martirio con il quale anche loro hanno raggiunto la libertà definitiva (anche perché dice di essere schiavo “finora”, ma dopo il martirio non lo sarà più). Nella lettera ai cristiani di Efeso Ignazio dichiara esplicitamente di voler essere trovato a seguire le impronte di Paolo sul cammino che porta a Dio, cioè seguire l'apostolo nel martirio. Come la città di Efeso fu per Paolo un passaggio del suo cammino definitivo verso Dio, così sarà anche per lui, Ignazio, che nella traduzione da Antiochia a Roma passa in catene per Efeso. Se Ignazio paragona, anzi mette in parallelo, il proprio destino con quello di Pietro e Paolo, evidentemente sa del loro martirio romano. Come lui sta andando incontro alla morte violenta a Roma, così essi sono già giunti a destino percorrendo il medesimo cammino che porta a Dio."
Rileggiamo il testo: "Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio. Non vi do ordini come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi,io finora uno schiavo. Ma se soffro sarò affiancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla."
Ignazio è finora uno schiavo, perché quando sarà martirizzato sarà libero, come Pietro e Paolo, morti martiri anch'essi e dunque liberi. Si parla dunque del loro martirio.

"E' certo possibile che cominciassero a nascere delle leggende sulla presenza Pietro a Roma, ma come pie invenzioni e non come fatti storici devono essere considerate"

Abbiamo già discusso della follia metodologica di questo metodo altrove quando contestualizzai il tuo tarocco di O. Cullmann, e ancora non ho avuto risposta, giacché lo storico prende chiaramente posizione su questo punto.
Riproposizione dell'episodio…
Avevi scritto

Oscar Cullmann (pur favorevole alla tesi di Pietro a Roma) deve ammettere: "Questi testi tardivi che affermano, ormai in crescente numero che Pietro è venuto a Roma e vi ha subito il martirio, non presentano alcun interesse storico, se non per chi si occupa di storia dei dogmi, perché a lui mostrano la storia della tradizione" (O. Cullmann, op. cit., p.102)



Risposta che diedi e che aspetta ancora una replica:


Qui ci sono due problemi. In primis hai tagliato quanto scritto prima, ed è ciò che illumina le affermazioni successive. In secondo luogo la traduzione nell’edizione italiana è diversa (hai tradotto direttamente dall’originale o hai una versione italiana diversa? Citazione completa: “non è però corretto attribuire a tali tendenze(il crescere dei particolari N.d.R.) l’invenzione del soggiorno e del martirio di Pietro a Roma: la funzione di esse può essersi limitata a sottolineare e a prolungare tradizioni più correnti. D’altra parte questi testi più tardivi, che con forza e uniformità sempre maggiori attestano che Pietro è stato a Roma e vi è morto martire, dal punto di vista storico possono avere per noi interesse soltanto per ciò che riguarda la storia dei dogmi, in quanto attestano lo sviluppo della tradizione”(pag. 154-155) Quindi non definisce i testi “tardivi” ma solo “più tardivi” degli altri (in riferimento alla crocifissione a testa in giù), il che è una constatazione temporale e non un giudizio, e non si dice che non hanno “alcun interesse storico”, né tanto meno che possano aver inventato tradizioni così dal nulla.



Come già detto, qualunque fatto della storia antica viene amplificato con il passare degli anni, ma il dedurre nell'analizzare fonti di secoli dopo, per il solo fatto che aumentano i particolari, che il nucleo storico non esiste, farebbe crollare tutti i manuali di storia antica. Ho già fatto un esempio a Spirito su questo punto. Prima le informazioni che abbiamo sull'omicidio di Cesare sono scarne, poi invece veniamo addirittura a sapere che la moglie l'aveva sognato la sera prima e l'aveva pregato di non andare in senato. Se dovessimo usare il tuo metodo leggendo questo ridicolo brano di Svetonio sulle idi di Marzo ne dovremmo dedurre che visto il cumulo di particolari leggendari l'assassinio del divo Giulio non sia mai avvenuto:

"La morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Egli venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, attraversando il Rubicone, al dio del fiume, e aveva lasciato libere di vagare senza guardiano, si rifiutavano con assoluta ostinazione di pascolare e piangevano a dirotto. E mentre faceva un sacrificio, l'aruspice Spurinna lo ammonì di guardarsi dal pericolo, che non si sarebbe protratto oltre le Idi di marzo. In quella notte, poi, che precedette il giorno dell’assassinio, anche Cesare stesso sognò ora di volare al di sopra delle nubi, ora di stringere la mano di Giove; e la moglie Calpurnia sognò che crollava la sommità della casa e che il marito veniva ucciso nel suo grembo; e all’improvviso le porte della camera da letto si aprirono da sole. A causa di questi presagi, ed anche per il cattivo stato di salute, Cesare, a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato, alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non deludere i senatori accorsi in gran numero e che lo stavano aspettando ormai da un pezzo, verso la quinta ora s’incamminò, e quando gli fu consegnato da uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava la congiura, lo mise insieme con gli altri biglietti che teneva nella mano sinistra, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, poiché non riusciva ad ottenere auspici favorevoli, entrò in curia incurante di ogni scrupolo religioso, deridendo Spurinna ed accusandolo di dire il falso, perché le Idi erano arrivate senza alcun danno per lui: Spurinna però gli rispose che erano arrivate, sì, ma non erano ancora passate." (Svetonio, Vita di Cesare, 81 passim)

Questo a significare che non bisogna scambiare i particolari di contorno col nucleo duro di una tradizione che invece è ben attestata. Non solo infatti non c'è alcuna altra tradizione concorrente, eppure parliamo del principe degli apostoli, ma per di più è una tradizione riconosciuta anche dall'Oriente.

[Modificato da Polymetis 24/12/2006 15.24]

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Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
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"alla stregua del presunto "bollito" che secondo Ireneo fu tentato con Giovanni a Roma"

Digiti a macchinetta fregandotene delle obiezioni che ti vengono fatte?
Avevo scritto:
a)Non so di che testo di Ireneo stai parlando, probabilmente ti confondi con Tertulliano b) Ireneo, vescovo proveniente dall’Asia minore ed in seguito venuto a Roma, è uno dei meglio informati su tradizioni di qualunque tipo grazie al suo legame con Policarpo. c)Io non ho nessun problema a credere che anche Giovanni sia passato per Roma, ma visto che non so neppure di che testo tu stia parlando sospendo il giudizio prima di analizzarlo. Spero che non si riveli un altro caso di Gesù sopravvissuto alla crocifissione e morto a 50 anni, passo inesistente.

"Insomma dagli scritti appare una volontà di "legittimare" Roma in modo via via crescente con gli anni."

Come già detto i primi scritti non hanno nulla a che fare con la legittimazione sono di carattere apocalittico. Inoltre come già detto trovare un movente non vuol dire dimostrare la colpevolezza: stai procedendo in base al paradigma del colpevole fino a prova contraria. Si noti come questa legittimazione di Roma data dal martirio di Pietro non sia mai stata contestata in Oriente, anzi da Dionigi sappiamo che la lettera di Clemente a Corinto fu ricevuta proprio in virtù della comune predicazione petrino-paolina delle due comunità.

"Questa mi pare l'unica conclusione seria e non apologetica"

Allora evidentemente gli studiosi protestanti che oggi non mettono più in dubbio la venuta di pietro a Roma sono tutti poco seri e addirittura apologetici. Se la mia è apologetica la tua che è faziosità e partigianeria da setta fondamentalista americana, che con la scienza non ha nulla a che fare. Nessuno studioso protestante contesta più il martirio di Pietro a Roma, a questo proposito hai saputo citare solo delle mummie che al momento stanno nell'empireo.

"che possiamo trarre da documenti (per di più numerosi!) che nel I secolo non testimoniano la presenza di Pietro"
Anche a questo modo ridicolo di fare storia ho già risposto, Riporto quanto già scritto e ancora in attesa di replica (chi ha letto il mio post a Spirito qui salti pure, il brano è già stato riportato).
Avevi scritto:

“Abbiamo il silenzio totale di una ventina di libri e lettere. Niente male, non credi?”


Mia risposta:

Non se questi scritti parlano di tutt’altro fuorché Roma. Gli argumenta e silentio notoriamente non valgono nulla, valgono qualcosa solo nel caso ci sia un silenzio su qualcosa in un testo che tratta proprio di quell’argomento. Ad esempio se mi dicono che Cesare è il comandante della campagna in Gallia ma in un testo coevo sulla guerra gallica nessuno mi nomina mai Cesare posso pensare che ci sia sotto qualcosa. Ora analizzando la miseria che c’è rimasta dell’epoca apostolica bisogna considerare quali testi avrebbero avuto l’occasione di parlare di Pietro a Roma, perché degli altri è ovvio che l’assenza di menzioni su Pietro a Roma è equivalente all’assenza di menzioni della ricetta per cucinare i cannelloni, giacché semplicemente quell’argomento non c’entra nulla col testo. Si ha occasione di parlare di Pietro a Roma ovviamente se si parla di Roma. Analizziamo dunque nei Padri Apostolici quanti scritti ci siano rimasti che parlino della comunità di Roma o di Roma in generale.
-Ignazio di Antiochia, (otto lettere di una paginetta ciascuna rimaste, parla di Pietro e Paolo proprio nelle lettera ai romani, proprio come in quella agli Efesini che erano depositari dell’insegnamento di Paolo parlo di lui) 8
-Pseudo-Barnaba, (sopravvissuta una lettera di otto paginette su questioni giudaiche, non parla né di Roma né di Pietro) 1
-Erma (Uno scritto rimasto, Il pastore d’Erma, un’opera in visioni che ha tutto fuorché la realtà di cui occuparsi, credo che sarebbe più probabile trovare menzione di Pietro in un libro di oroscopi) 1
-Policarpo di Smirne, (1 lettera di una paginetta rimasta, non parla né di Roma né di Pietro) 1
-Papia di Ierapoli (Rimasti solo frammenti, parla della predicazione di Pietro a Roma e della stesura del Vangelo di Marco su richiesta dei romani che ne derivò, in Eus, op. cit., II, 15, 2) 0
-Anonimo, Didaché(5 paginette,Non parla né di Roma né di Pietro)1
-Clemente Romano (vescovo di Roma, parla del martirio di Pietro e Paolo “fra noi”, ne ho trattato specificatamente in un articolo) 1
-Anonimo, A Diogneto (Sopravvissuta una lettera di 4 paginette, Non parla né di Roma né di Pietro)1
Ho dimenticato qualcuno? Vediamo dunque. Voi amici lettori siete riusciti a contare 20 opere?Io ne ho contate 14, di cui 7 sono lettere di Ignazio scritte ad altre comunità come Efeso o Tralle, ergo ridicolo domandarsi perché non ci parli della comunità di Roma. Delle restanti 7 opere apostoliche nessun altra c’entra qualcosa con Roma o parla di quella chiesa tranne l’epistola di Clemente che parla della comunità romana per confrontarla con quella di Corinto, e infatti saltano fuori Pietro e Paolo, tra le sette rimanenti c’è l’ottava lettera di Ignazio che abbiamo lasciato fuori dal computo precedente, cioè quella ai Romani, della quale abbiamo già discusso. Alla luce dei fatti parandosi dietro una quantità così misera di fonti, fonti brevissime e non storiografiche, e per giunta fonti che parlano di tutt’altro fuorché l’argomento in questione, un argumentum e silentio vale meno di una cicca. Questo signori miei si chiama metodo storco-critico, ed è il motivo per cui oggigiorno i biblisti protestanti non contestano più la venuta di Pietro a Roma.



Avevo aggiunto, ovviamente senza ottenere risposta, le testimonianze nella letteratura apocalittica del I secolo nell'analisi di Cullmann e Gnilka:


E ora vorrei aprire una parentesi su delle nuove fonti, l’attestazione della morte di Pietro a Roma negli apocrifi dei primi due secoli. Il primo passo è tratto da un testo apocrifo del I secolo (per la datazione si veda Cullmann, op.cit. pag. 150), l’Ascensione di Isaia, composto in tre parti e contenente una piccola apocalisse cristiana(Asc. Is. 3,13-4,18 ). Per chi volesse leggerlo in italiano lo potete trovare in M. Erbetta, Gli apocrifi del Nuovo Testamento, tomo III, 175-204. In questa apocalisse si trova un passo che dovrebbe riferirsi al martirio di Pietro. Si parla di un re ingiusto, di un matricida, nel quale si sarebbe incarnato Beliar(=il diavolo). In una finta profezia si predice che avrebbe perseguitato la piantagione piantata dai dodici apostoli del Diletto (del Figlio Diletto) e che uno dei dodici sarebbe stato dato in sua mano (Asc. Is 4,2 s.). Non c’è alcun dubbio che col re matricida si voglia indicare Nerone,. Questo nome si era attaccato saldamento all’imperatore. (Dione Cassio 62,18,4; Or. Sib. 4,121)Egli ha perseguitato la piantagione del diletto, cioè la Chiesa. Quando, in un siffatto contesto, si menziona uno dei dodici apostoli, non può trattarsi che di Pietro. Paolo non appartiene al gruppo dei dodici apostoli. Se il nome di Pietro non viene fatto esplicitamente ciò è dovuto allo stile apocalittico che procede per riferimenti indiretti. “Dato in mano a qualcuno” è una formulazione già di per sé minacciosa; ma se la mano di un matricida quella in cui si cade, può trattarsi solo del peggio. Merita di osservare che il passo connette ancora una volta la persecuzione della comunità e il destino di Pietro con Nerone. C’è uno stretto nesso tra questo testo e il frammento Rainer dell’Apocalisse di Pietro, anch’esso di fine I secolo (E. Peterson, Das Martyrium des hl. Petrus nach der Petrus-Apocalypse, in Frühkirke, Judentum und Gnosis, Roma, 1959, 88-91; O. Cullmann, op. cit. pag. 151)). Il passo rilevante ai nostri scopi recita: “Ecco, o Pietro, ti ho rivelato e spiegato tutto. Ora va nella città della prostituzione (ovviamente Roma N.d.R.) e bevi il calice che ti ho promesso dalle mani del figlio di colui che si trova nell’Ade. Così la sua distruzione avrà inizio, ma tu sarai invece degno della promessa”. Anche qui collimano nello stesso discorso Nerone, Pietro e l’orizzonte escatologico. Importante è anche la concentrazione su Pietro che contraddistingue questa tradizione. Essa è più antica di quella che pone Pietro e Paolo in parallelo. Dovrebbe essere sorta come tradizione autonoma: essa ci diviene accessibile verso gli anni novanta del I secolo, cioè trent’anni dopo gli eventi. Questa distanza cronologica relativamente breve garantisce l’attendibilità del martirio romano di Pietro. In questa medesima decade rientra la composizione della prima lettera di Clemente, della piccola apocalisse contenuta nell’Ascensione di Isaia, dell’Apocalisse di Giovanni e certamente anche del testo contenuto nel frammento Rainer (da Gnilka, op. cit. pag. 114-115)


"Il fatto stesso che Ignazio non ne faccia riferimento diretto indica che evidentemente poteva facilmente essere smentito."

Siamo al delirio del paralogismo. Adesso Ignazio diventa qualcuno che voleva parlare del martirio di Pietro ma non ne fa riferimento diretto perché poteva essere smentito e dunque vela la questione. La domanda: se il successore di Pietro ad Antiochia sapeva di un suo martirio romano, tu ne sai forse più di lui? Inoltre dire che l'ha detto indirettamente perché aveva paura di essere smentito presuppone la malafede, cioè che sapesse di mentire e dunque celasse quello che voleva dire. Ma sorge la domanda: perché lui che era vescovo di Antiochia dovrebbe mentire sul martirio di Pietro a Roma? Non è un cattolico del XVI secolo intendo a dissertare con un protestante, a lui che Pietro sia morto a Roma non fa né caldo né freddo, non ha un partito ideologico basato su tale Traditio da difendere. Inutile cioè inventarsi qualcosa che non torna utile. E poi, se a tuo dire scrive in modo velato per non essere smentito dai romani, e dunque sa che il martirio è falso se immagina che i romani lo smentirebbero, perché usa questa Tradizione che sa essere falsa? Cosa aveva da guadagnarci? "Cui prodest?" direbbe Cicerone. Poteva essere smentito da chi, dai romani? Perché mai dovrebbe scrivere di un martirio, ma farlo in modo criptico, alla città che quel martirio non l'aveva visto? Sia che non si capisse il linguaggio velato, sia che lo si capisse, in nessun caso avrebbe raggiunto un risultato, infatti nel I caso il suo messaggio non arrivava e nel II caso, da coloro tra i romani che avessero inteso il suo parlare del martirio, sarebbe stato comunque smentito, giacché anch'essi erano romani e dunque testimoni oculari come chi il simbolismo non l'aveva inteso. In definitiva non ha il benché minimo senso quello che hai scritto.

"Se poi come tu sostieni"

Io sostengo? Il mondo accademico sostiene. Ho portato le argomentazioni seguenti:


A ciò si aggiunga la testimonianza dello steso Pietro, o chi per lui, che scrive da Roma “vi saluta la comunità che sta in Babilonia”, che i commentari e la Bibbia stessa nell’Apocalisse identificano con Roma. Sull’identificazione nel tardo giudaismo e nel cristianesimo primitivo di Babilonia con Roma si possono vedere gli Oracoli Sibillini V, 59; Ap. Bar. 11,1; 67,7; e IV Esdra 3,1.18.21. Per il cristiani: Papia e Clemente Alessandrino (in Eus, Storia Ecclesiastica II, 15,2), Tertulliano, Adv. Judeos 9; Adv. Marcionem 3,13, molteplici in Origene ed Agostino, ecc. Per un elenco H. Fuchs, Der geistige Widerstand gegen Rom, 1938, pag 74 ss. E B. Altaner, art. Babylon, in Reallexikon fü Antike und Christentum, I, coll. 1121 ss, e O. Cullmann, op. cit. pag. 111(nota 65). Per i passi nella letteratura rabbinica Strack- Billerbeck, III, 816 e inoltre Num. R. 7; Midr. Ps 121). Ma ovviamente si veda l’Apocalisse, che da sola basta. Su questo lascio la parola al GLNT: la città di cui si profetizza la distruzione esiste già nel presente: Ap 17,18 “he gynê… estin hê (si noti l’articolo determinativo) polis hê megalê hê echousa(al presente!) basileian epi tôn basileôn tês gês, e non può che essere Roma, infatti sta sui sette monti (i sette colli di Roma), si è prostituita coi re della terra, anzi è la loro sovrana, e controlla i traffici commerciali in tutto il mondo. E’ l’impero romano. Tra l’altro il GLNT sulla questione Pietro a Roma ha questa esplicita uscita: la storicità della sia permanenza e del suo martirio in Roma non può più ormai essere messa in dubbio (vol. II, pag 10-12) Si aggiunga poi che apprendiamo da Giuseppe Flavio di come verso la metà del primo secolo gli Ebrei avevano abbandonato Babilonia e si erano trasferiti nella città di Seleucia (Ant. Giud. XVIII,9.8 ), e dunque sebbene abbiamo testimonianze di attività giudaica a Babilonia nei secoli successivi non sono credibili in questo periodo. L’interpretazione di Babilonia nell’epistola petrina come la città mesopotamica, e riferisco gli ipsissima verba di Cullmann visto che mi si accusa di portare solo studiosi cattolici, non è affatto verosimile né si appoggia alla tradizione cristiana posteriore, la quale non conosce in quelle regioni attività missionario di Pietro bensì solo dell’Apostolo Tommaso; si aggiunga il fatto che anche il Talmud babilonese menziona soltanto a partire dal III secolo la presenza di cristiani in questa regione (pag. 113) Di particolare nota, tanto per ricordarci che la comunità di Roma non s’è inventata un mito da sola ma anche le altre comunità Asia sapevano che Pietro era stato là, la lettera di Dionigi di Corinto ai Romani del 170 d.C. riportata da Eusebio, II, 25,8 dove si menziona la predicazione dell’apostolo nell’Urbe.



Ovviamente non ho avuto risposte.

"se nella 1 di Pietro Babilonia sarebbe una maniera criptata per intendere Roma l'uso di un eufemismo"

Non è un eufemismo (parola del tutto inappropriata), e non c'entra nulla con la paura di essere smentiti, semplicemente come ho dimostrato nel lessico del tardo giudaismo e del cristianesimo primitivo Babilonia era un appellativo di Roma a causa dei vizi di questa città, vista come una sorta di Sodoma. Se dunque Pietro o chi per lui scrive Babilonia è perché tutti sapevano cosa intendeva.

"farebbe pensare che quello che tu ritieni un anonimo autore evitasse di scrivere "Roma" in modo chiaro perché poteva essere smentito da quanti sapevano benissimo che Pietro non vi era mai stato."

Siamo al doppiamente ridicolo. 1)In primis se tu sostieni che l'autore sia Pietro ne verrebbe fuori che Pietro mente su dove si trovi per paura di essere smentito. Assurdo! 2)Sostenendo invece che 1Pt non sia opera di Pietro avremmo comunque la testimonianza che nel I secolo la tradizione di Pietro a Roma esisteva già ma il suo autore, sapendo di dire il falso, scriverebbe Babilonia per paura di essere smentito. Anche qui sorge la domanda: che senso ha mettere un messaggio criptato se non vuoi che venga decifrato? E se una volta decifrato porta al tuo sbugiardamento, a che scopo lo hai messo dentro? nella comunità di ricezione sapevano o no che Pietro non era stato a Roma? E se sapevano che non era stato a Roma che senso ha mettere un messaggio velato visto che sia che venga decifrato sia che non venga decifrato tu comunque non hai raggiunto lo scopo di comunicare quello che intendevi. Un'assurdità dietro l'altra, e questo giocare alle ipotesi controfattuali ha dimostrato come il tuo sia il semplice rimanere fisso su una posizione tentando di smontare i ragionamento altri con indimostrate ipotesi ad hoc. Quod gratis adfirmatur, gratis negatur.

Ad maiora
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