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la finanza islamica è l'unica ancora di salvezza

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    Cryptone
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    00 18/03/2008 20:30
    Aprile 2010. Dai paesi arabi arriva un aiuto insperato per arginare la crisi di liquidità che sta trascinando nel baratro l'economia occidentale: la finanza islamica, che per motivi religiosi rifiuta la speculazione ed è quindi rimasta immune dall'infezione dei mutui statunitensi, offre il proprio sostegno in cambio della possibilità di vendere il petrolio in euro per compensare gli effetti della disastrosa svalutazione del dollaro. Le capitali europee hanno accettato entusiasticamente mentre la Casa Bianca, per motivi puramente ideologici, ha preferito cedere importanti assetts alle banche cinesi, ormai principali creditrici di Washington. Così Bruxelles decreta che, d'ora in poi, gli europei celebreranno con i musulmani la festa per la fine del Ramadam per esprimere la propria gratitudine…

    Fantascienza? Effettivamente il calendario ci ha preso un po' la mano. Facciamo allora un passo indietro e torniamo al febbraio 2008 quando, nel pieno della crisi causata dai mutui americani, è stato organizzato un summit dedicato alla finanza islamica nel Bahrain, ricco stato insulare affacciato sul Golfo Persico.



    E' stato proprio in quei giorni che, a sorpresa, il governatore della banca centrale Rasheed Al Maraj ha dichiarato ai giornalisti della Reuters: «Il business della finanza islamica non è stato toccato dalla tempesta subprime. Anzi, la crisi del credito potrebbe favorire l'espansione dei prodotti finanziari compatibili con le leggi islamiche anche al di fuori dei mercati asiatici e dei Paesi del Golfo». E, dopo questo annuncio a effetto, il governatore ha illustrato i dati raccolti dall'istituto bancario Abcb.bh secondo i quali nel 2008 il valore di bond e prestiti compatibili con i dettami del Corano raggiungerà i 5 miliardi di dollari. Le cifre fornite dall'istituto del Bahrain sono più che credibili: diversi analisti prevedono che nel 2010 il giro d'affari dei fondi rispettosi della legge islamica toccherà il trilione di dollari, crescendo ogni anno del 15 per cento. Un business che non è stato compromesso, se non marginalmente, dalla crisi dei mutui. Ai giornalisti stupefatti il governatore della banca centrale del Bahrain ha spiegato paziente:

    «La nostra religione vieta i prestiti basati sull'interesse o la commercializzazione dei debiti, ogni prodotto finanziario deve essere trasparente e, in tutto e per tutto, compatibile con i dettami del Corano».

    L'investitore musulmano quindi non potrebbe mai acquistare prodotti complessi come le famigerate collaterized debt obligations, astrusi prodotti finanziari, tra le principali cause della tempesta subprime. Nel Bahrain, che ha registrato perdite legate ai subprime, è stato proprio Abcb.bh che nel 2007 ha visto i suoi profitti calare del 38 per cento. Una crisi però che ha interessato solo il comparto tradizionale e non la nuova gamma di prodotti compatibili con le leggi coraniche che Abcb.bh, come molte altre banche della regione, ha messo a disposizione dei suoi clienti.
    Insomma, non siamo ancora al tracollo immaginario del 2010 ma la finanza globale continua a perdere colpi mentre il fenomeno della finanza islamica è già abbastanza consistente da attirare l'interesse dell'Occidente. Stiamo parlando di qualcosa come 200 istituzioni finanziarie, con oltre 400 miliardi di dollari di fondi gestiti e un tasso di crescita annuale nell'ultimo triennio maggiore del venti per cento tanto da indurre l'istituzione di appositi indicatori, i Dow Jones Islamic Indexes. E stiamo parlando di un miliardo e mezzo di musulmani sparsi su tutto il pianeta. Il motivo di questo boom inaspettato è dovuto a molteplici fattori: prima ci si è messa l'arabofobia post-11 settembre che ha spinto molti musulmani a sgusciare via dalle banche Usa e investire altrove quei capitali che, con l'aumento del petrolio, sono cresciuti in modo esponenziale. Poi è arrivato il tracollo del dollaro e, infine, la crisi dei mutui americani che ha provocato una fuga di capitali dal mercato immobiliare alla spasmodica ricerca di porti sicuri. E i fondi coranici si sono inaspettatamente rivelati il posto migliore dove posteggiare i propri soldi.

    Quel che colpisce è che nei paesi islamici si sia riusciti a fare, attraverso la religione, quel che da noi non si è riusciti a fare con l'etica: costruire sistemi finanziari stabili e fortemente connessi alla realtà produttiva e al riparo dall'infezione dell'economia criminale. Come scrive Loretta Napoleoni in Economia canaglia: «La finanza islamica rifiuta istituzioni quali gli hedge funds e i private equity che si limitano a moltiplicare il denaro spostandolo verso investimenti ad alto rischio e alto reddito. Il denaro è solo un mezzo o uno strumento di produttività, come avevano originariamente immaginato Adam Smith e David Ricardo. Questo principio è cementato nei sukuk, le obbligazioni islamiche, che devono sempre essere legate a investimenti reali, per esempio la costruzione di un'autostrada a pedaggio, e mai destinate a scopi puramente speculativi».
    Il rispetto del principio religioso dell'haram, inoltre, non garantisce soltanto che le attività economiche finanziate con i nostri soldi si tengano lontane da cose come la distribuzione/produzione di alcool, tabacco e carne suina, ma riguarda anche altre attività proibite dal Corano come il traffico di armi, la pornografia e il gioco d'azzardo, qualcosa su cui concordano anche i laici (o i fedeli di altre religioni) ma che ben poche banche, in Occidente, sono in grado di garantire.
    Com'è noto, fino alla fine del Medioevo, anche il cristianesimo condannava l'usura intesa come qualsiasi pagamento dovuto per un prestito di denaro.

    La famosa massima aristotelica - «il denaro non può generare denaro» - venne fatta propria dal Concilio di Lione II che, nel 1274, condannò espressamente la riscossione di interessi a fronte della concessione di un mutuo perché considerata come una vendita di denaro con pagamento differito, i cui interessi non erano giustificabili dalla variante del tempo visto che il tempo era considerato "bene comune". La condanna non aveva quindi a che fare con l'entità del tasso di interesse richiesto: prestare denaro era considerato peccato, qualsiasi compenso fosse richiesto in cambio.
    La condanna aristotelica (ed evangelica) in Occidente venne dimenticata con l'avvento dei mercanti mentre rimase nell'Islam. Nel 1970, con la creazione dell'Organizzazione della conferenza islamica (Oci) per riunire i paesi musulmani, la questione dei precetti economici dell'Islam tornò all'ordine del giorno e gli istituti islamici di ricerca economica cominciarono a proliferare. Il loro compito non era facile: si trattava di adeguare un sistema medievale alla realtà di un'economia globalizzata in rapidissima espansione.
    Mentre economisti ed esegeti del Corano spaccavano il capello in quattro, però, il prezzo del petrolio quadruplicava. Così, durante il vertice che si tenne a Lahore nel 1974, l'Oci decise di fondare la Banca islamica di sviluppo. Fu proprio questa istituzione, con sede a Gedda, che gettò le basi di un sistema di aiuto reciproco fondato su principi islamici che sarebbe sfociato nel fenomeno finanziario di oggi. Nel 1975, dopo la fondazione della prima banca privata islamica, la Dubai Islamic Bank, venne costituita un'associazione internazionale con il preciso compito di stabilire le norme e difendere gli interessi comuni. Il Pakistan fu il primo paese a decretare l'islamizzazione di tutto il settore bancario nel 1979, e poi venne seguito a ruota dal Sudan e dall'Iran. A quel punto fu chiaro che i giuristi musulmani dovevano darsi da fare per adattare una tradizione pre-capitalistica ai bisogni della società contemporanea.

    Benché la religione si mostrasse molto favorevole al commercio - che era stata la professione esercitata dal profeta Maometto - l'antica condanna aristotelica pendeva sui guadagni generati dalla finanza "pura". L'Islam proibisce in particolare la riba, parola tradotta generalmente con "usura" che in realtà significa "aumento". Naturalmente - visto che tutto il mondo è paese - è proprio sull'interpretazione di questa parola che si scatenano da sempre le controversie: secondo alcuni la riba fa riferimento a tutte le forme di "interesse fisso" mentre per altri il termine designa soltanto l'interesse eccessivo. In realtà, senza contestare il principio della remunerazione del denaro dato in prestito, la tradizione islamica rifiuta l'aspetto "fisso e predeterminato" dell'interesse, con tutte le sue implicazioni in materia di equità e di potenziale di sfruttamento del debitore. La finanza islamica propugna piuttosto l'equa spartizione dei rischi e dei guadagni che risale ai primi tempi dell'Islam, quando la forma di finanziamento applicata correntemente consisteva nell'associare chi concede il prestito e chi lo ottiene. I teorici della finanza islamica ritenevano - a ragione - che questo sistema si adattasse meglio sia ai bisogni economici del mondo islamico che alle esigenze morali della religione. In effetti, mentre la banca classica privilegia i possessori di capitali o di beni suscettibili di essere ipotecati, la finanza associativa favorisce gli imprenditori dinamici anche se hanno pochi fondi. A tutto ciò l'Islam aggiunge anche una dimensione caritativa: nella gestione della zakat, l'elemosina che per i musulmani è precetto religioso, le banche hanno l'obbligo di lottare contro la povertà e l'esclusione.
    Il nuovo sistema finanziario islamico si fonda quindi su due principi di finanza associativa: la mudarab a (accomandita) e la musharaka (associazione). Altri strumenti "neutri", come la murabaha (dove la banca svolge il ruolo di intermediario commerciale comprando le merci necessarie ai suoi clienti e realizzando un profitto rivendendogliele), dovrebbero svolgere un ruolo di transizione per permettere alle banche di realizzare un reddito in attesa della diffusione dell'uso della finanza di partecipazione.

    Anche la remunerazione dei depositi viene fondata sul principio della spartizione delle perdite e dei profitti: i conti di risparmio vengono remunerati in funzione degli utili fatti dall'istituto e i conti di investimento destinati a finanziare specifiche iniziative vengono retribuiti in funzione dei guadagni realizzati da questi investimenti. Dal punto di vista laico non è molto rassicurante il fatto che gli unici garanti del rispetto di questi virtuosi precetti siano le autorità religiose, incaricate di vegliare sulle virtù delle banche islamiche così come vegliano sulla macellazione degli animali. Ma di fronte alla catastrofe economica provocata dagli speculatori dobbiamo ammettere che non ci dispiacerebbe affatto se il Papa si volgesse alla tradizione anche in questo campo, condannando alle fiamme più o meno eterne chi gioca d'azzardo con il nostro futuro.

    Sabina Morandi
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    00 20/03/2008 17:23
    Re:
    Cryptone, 18/03/2008 20.30:

    Aprile 2010. Dai paesi arabi arriva un aiuto insperato per arginare la crisi di liquidità che sta trascinando nel baratro l'economia occidentale: la finanza islamica, che per motivi religiosi rifiuta la speculazione ed è quindi rimasta immune dall'infezione dei mutui statunitensi, offre il proprio sostegno in cambio della possibilità di vendere il petrolio in euro per compensare gli effetti della disastrosa svalutazione del dollaro. Le capitali europee hanno accettato entusiasticamente mentre la Casa Bianca, per motivi puramente ideologici, ha preferito cedere importanti assetts alle banche cinesi, ormai principali creditrici di Washington. Così Bruxelles decreta che, d'ora in poi, gli europei celebreranno con i musulmani la festa per la fine del Ramadam per esprimere la propria gratitudine…

    Fantascienza? Effettivamente il calendario ci ha preso un po' la mano. Facciamo allora un passo indietro e torniamo al febbraio 2008 quando, nel pieno della crisi causata dai mutui americani, è stato organizzato un summit dedicato alla finanza islamica nel Bahrain, ricco stato insulare affacciato sul Golfo Persico.



    E' stato proprio in quei giorni che, a sorpresa, il governatore della banca centrale Rasheed Al Maraj ha dichiarato ai giornalisti della Reuters: «Il business della finanza islamica non è stato toccato dalla tempesta subprime. Anzi, la crisi del credito potrebbe favorire l'espansione dei prodotti finanziari compatibili con le leggi islamiche anche al di fuori dei mercati asiatici e dei Paesi del Golfo». E, dopo questo annuncio a effetto, il governatore ha illustrato i dati raccolti dall'istituto bancario Abcb.bh secondo i quali nel 2008 il valore di bond e prestiti compatibili con i dettami del Corano raggiungerà i 5 miliardi di dollari. Le cifre fornite dall'istituto del Bahrain sono più che credibili: diversi analisti prevedono che nel 2010 il giro d'affari dei fondi rispettosi della legge islamica toccherà il trilione di dollari, crescendo ogni anno del 15 per cento. Un business che non è stato compromesso, se non marginalmente, dalla crisi dei mutui. Ai giornalisti stupefatti il governatore della banca centrale del Bahrain ha spiegato paziente:

    «La nostra religione vieta i prestiti basati sull'interesse o la commercializzazione dei debiti, ogni prodotto finanziario deve essere trasparente e, in tutto e per tutto, compatibile con i dettami del Corano».

    L'investitore musulmano quindi non potrebbe mai acquistare prodotti complessi come le famigerate collaterized debt obligations, astrusi prodotti finanziari, tra le principali cause della tempesta subprime. Nel Bahrain, che ha registrato perdite legate ai subprime, è stato proprio Abcb.bh che nel 2007 ha visto i suoi profitti calare del 38 per cento. Una crisi però che ha interessato solo il comparto tradizionale e non la nuova gamma di prodotti compatibili con le leggi coraniche che Abcb.bh, come molte altre banche della regione, ha messo a disposizione dei suoi clienti.
    Insomma, non siamo ancora al tracollo immaginario del 2010 ma la finanza globale continua a perdere colpi mentre il fenomeno della finanza islamica è già abbastanza consistente da attirare l'interesse dell'Occidente. Stiamo parlando di qualcosa come 200 istituzioni finanziarie, con oltre 400 miliardi di dollari di fondi gestiti e un tasso di crescita annuale nell'ultimo triennio maggiore del venti per cento tanto da indurre l'istituzione di appositi indicatori, i Dow Jones Islamic Indexes. E stiamo parlando di un miliardo e mezzo di musulmani sparsi su tutto il pianeta. Il motivo di questo boom inaspettato è dovuto a molteplici fattori: prima ci si è messa l'arabofobia post-11 settembre che ha spinto molti musulmani a sgusciare via dalle banche Usa e investire altrove quei capitali che, con l'aumento del petrolio, sono cresciuti in modo esponenziale. Poi è arrivato il tracollo del dollaro e, infine, la crisi dei mutui americani che ha provocato una fuga di capitali dal mercato immobiliare alla spasmodica ricerca di porti sicuri. E i fondi coranici si sono inaspettatamente rivelati il posto migliore dove posteggiare i propri soldi.

    Quel che colpisce è che nei paesi islamici si sia riusciti a fare, attraverso la religione, quel che da noi non si è riusciti a fare con l'etica: costruire sistemi finanziari stabili e fortemente connessi alla realtà produttiva e al riparo dall'infezione dell'economia criminale. Come scrive Loretta Napoleoni in Economia canaglia: «La finanza islamica rifiuta istituzioni quali gli hedge funds e i private equity che si limitano a moltiplicare il denaro spostandolo verso investimenti ad alto rischio e alto reddito. Il denaro è solo un mezzo o uno strumento di produttività, come avevano originariamente immaginato Adam Smith e David Ricardo. Questo principio è cementato nei sukuk, le obbligazioni islamiche, che devono sempre essere legate a investimenti reali, per esempio la costruzione di un'autostrada a pedaggio, e mai destinate a scopi puramente speculativi».
    Il rispetto del principio religioso dell'haram, inoltre, non garantisce soltanto che le attività economiche finanziate con i nostri soldi si tengano lontane da cose come la distribuzione/produzione di alcool, tabacco e carne suina, ma riguarda anche altre attività proibite dal Corano come il traffico di armi, la pornografia e il gioco d'azzardo, qualcosa su cui concordano anche i laici (o i fedeli di altre religioni) ma che ben poche banche, in Occidente, sono in grado di garantire.
    Com'è noto, fino alla fine del Medioevo, anche il cristianesimo condannava l'usura intesa come qualsiasi pagamento dovuto per un prestito di denaro.

    La famosa massima aristotelica - «il denaro non può generare denaro» - venne fatta propria dal Concilio di Lione II che, nel 1274, condannò espressamente la riscossione di interessi a fronte della concessione di un mutuo perché considerata come una vendita di denaro con pagamento differito, i cui interessi non erano giustificabili dalla variante del tempo visto che il tempo era considerato "bene comune". La condanna non aveva quindi a che fare con l'entità del tasso di interesse richiesto: prestare denaro era considerato peccato, qualsiasi compenso fosse richiesto in cambio.
    La condanna aristotelica (ed evangelica) in Occidente venne dimenticata con l'avvento dei mercanti mentre rimase nell'Islam. Nel 1970, con la creazione dell'Organizzazione della conferenza islamica (Oci) per riunire i paesi musulmani, la questione dei precetti economici dell'Islam tornò all'ordine del giorno e gli istituti islamici di ricerca economica cominciarono a proliferare. Il loro compito non era facile: si trattava di adeguare un sistema medievale alla realtà di un'economia globalizzata in rapidissima espansione.
    Mentre economisti ed esegeti del Corano spaccavano il capello in quattro, però, il prezzo del petrolio quadruplicava. Così, durante il vertice che si tenne a Lahore nel 1974, l'Oci decise di fondare la Banca islamica di sviluppo. Fu proprio questa istituzione, con sede a Gedda, che gettò le basi di un sistema di aiuto reciproco fondato su principi islamici che sarebbe sfociato nel fenomeno finanziario di oggi. Nel 1975, dopo la fondazione della prima banca privata islamica, la Dubai Islamic Bank, venne costituita un'associazione internazionale con il preciso compito di stabilire le norme e difendere gli interessi comuni. Il Pakistan fu il primo paese a decretare l'islamizzazione di tutto il settore bancario nel 1979, e poi venne seguito a ruota dal Sudan e dall'Iran. A quel punto fu chiaro che i giuristi musulmani dovevano darsi da fare per adattare una tradizione pre-capitalistica ai bisogni della società contemporanea.

    Benché la religione si mostrasse molto favorevole al commercio - che era stata la professione esercitata dal profeta Maometto - l'antica condanna aristotelica pendeva sui guadagni generati dalla finanza "pura". L'Islam proibisce in particolare la riba, parola tradotta generalmente con "usura" che in realtà significa "aumento". Naturalmente - visto che tutto il mondo è paese - è proprio sull'interpretazione di questa parola che si scatenano da sempre le controversie: secondo alcuni la riba fa riferimento a tutte le forme di "interesse fisso" mentre per altri il termine designa soltanto l'interesse eccessivo. In realtà, senza contestare il principio della remunerazione del denaro dato in prestito, la tradizione islamica rifiuta l'aspetto "fisso e predeterminato" dell'interesse, con tutte le sue implicazioni in materia di equità e di potenziale di sfruttamento del debitore. La finanza islamica propugna piuttosto l'equa spartizione dei rischi e dei guadagni che risale ai primi tempi dell'Islam, quando la forma di finanziamento applicata correntemente consisteva nell'associare chi concede il prestito e chi lo ottiene. I teorici della finanza islamica ritenevano - a ragione - che questo sistema si adattasse meglio sia ai bisogni economici del mondo islamico che alle esigenze morali della religione. In effetti, mentre la banca classica privilegia i possessori di capitali o di beni suscettibili di essere ipotecati, la finanza associativa favorisce gli imprenditori dinamici anche se hanno pochi fondi. A tutto ciò l'Islam aggiunge anche una dimensione caritativa: nella gestione della zakat, l'elemosina che per i musulmani è precetto religioso, le banche hanno l'obbligo di lottare contro la povertà e l'esclusione.
    Il nuovo sistema finanziario islamico si fonda quindi su due principi di finanza associativa: la mudarab a (accomandita) e la musharaka (associazione). Altri strumenti "neutri", come la murabaha (dove la banca svolge il ruolo di intermediario commerciale comprando le merci necessarie ai suoi clienti e realizzando un profitto rivendendogliele), dovrebbero svolgere un ruolo di transizione per permettere alle banche di realizzare un reddito in attesa della diffusione dell'uso della finanza di partecipazione.

    Anche la remunerazione dei depositi viene fondata sul principio della spartizione delle perdite e dei profitti: i conti di risparmio vengono remunerati in funzione degli utili fatti dall'istituto e i conti di investimento destinati a finanziare specifiche iniziative vengono retribuiti in funzione dei guadagni realizzati da questi investimenti. Dal punto di vista laico non è molto rassicurante il fatto che gli unici garanti del rispetto di questi virtuosi precetti siano le autorità religiose, incaricate di vegliare sulle virtù delle banche islamiche così come vegliano sulla macellazione degli animali. Ma di fronte alla catastrofe economica provocata dagli speculatori dobbiamo ammettere che non ci dispiacerebbe affatto se il Papa si volgesse alla tradizione anche in questo campo, condannando alle fiamme più o meno eterne chi gioca d'azzardo con il nostro futuro.

    Sabina Morandi



    CRITICA a cura di Olga di Comite: Vorrà pur dire qualcosa un applauso di venti minuti a Cannes e il ritorno dello stesso applauso nelle nostre sale dopo anni e anni senza battimani finali. Uno dei molti significati di tale reazione sta, a mio parere, nella voglia di verità che tutti proviamo, sempre più incerti nella comprensione e decodificazione di una realtà complessa, ambigua, manipolabile al di sopra delle nostre teste. E se qualche limite il film di Moore ce l'ha, è d'altronde innegabile che esso ci coinvolge nella rappresentazione di drammatici pezzi di realtà. Questi riguardano il potere e ne fotografano la secolare spregiudicatezza, quando non l'ottusità o l'involontaria comicità. Da questo punto di vista Fahrenheit 9/11 è uno spettacolo da non perdere. Del resto, al di là dei contenuti volutamente e sfacciatamente di parte (vivaddio!), l'opera del regista, tecnicamente parlando, è da manuale. Ritmo sicuro, montaggio efficacissimo, alternanza di chiavi diverse, effetti espressivi di grande impatto, come le inquadrature che riguardano l'attentato alle torri. L'evento è risolto con lo schermo buio da cui arrivano solo i rumori della tragedia, seguono alcuni volti fissati negli istanti successivi all'esplosione, che cristallizzano dolore, stupore e rabbia, infine la scena si riempie di frammenti di carta, pagine strappate che svolazzano nel fumo grigio, quasi a simboleggiare lo svanire dei dati del potere racchiuso e gestito nelle Due Torri. Da maestro anche le interviste: nè troppo lunghe nè troppo sintetiche, giuste nel taglio e nella scelta dei testimoni. Ogni tanto, e un po' meno del solito, eccolo lì anche lui, Michael Moore, con la mole straripante, lo sguardo furbo e il berrettino rosso a visiera. La sua comparsa ci ricorda che l'autore è un americano, parte di quella metà che non ama nè Bush nè la sua politica, ma pur sempre un americano che si batte con il mezzo a lui più noto per modificare una realtà nella quale non si identifica. Così il film è diventato un vero e proprio contributo, teso a chiedere ai suoi concittadini di non rieleggere il texano dagli occhi sfuggenti, vacui, affarista di basso rango, circondato da un entourage che peggio non si può. Basta fissarne i volti, come fa Moore, o i gesti ridicoli, segnali della loro pochezza: vedi Wolfowitz che si pettina i capelli con la saliva o Condoleezza Rice al trucco prima di un'intervista importante. Partita come un'analisi dei rapporti di affari tra il clan Bush e quello saudita dei Bin Laden, la materia si è poi modificata nelle mani dell'autore dopo le vicende della Guerra in Iraq. Perciò nella seconda parte l'opera si fa atto d'accusa contro la guerra e presenta momenti di banalizzazione sul piano espressivo, ma << I mezzi giustificano il fine >>, come ha ben detto Tullio Kezich dalle colonne del Corriere della Sera. Per andare diretto al cuore degli americani, Moore squaderna l'orrore di qualsiasi conflitto. Le madri private dei figli, i soldati prima baldanzosi che diventano ragazzini spaventati nel dover uccidere inermi e bambini, i morti di cui non si conoscono le esatte cifre, opportunamente celate alla nazione, si sostituiscono alla sferzante lucidità della prima parte, diventando un sanguigno e spesso moralistico incitamento a cambiare. Belle al riguardo le immagini delle interviste ai senatori, che non mandano certo i propri figli a combattere, o quelle finali della madre che s'aggira come una belva ferita fuori dalla Casa Bianca, sorvegliatissima, ostile e lontana. C'è poi anche l'invito a non svendere la libertà individuale per la sicurezza politica, giacché la paura è il mezzo più subdolo e universale per soggiogare la massa alla gestione indisturbata del potere. Qualcuno ha scritto che il film avrebbe dovuto spiegare meglio la filosofia in base alla quale si muove l'America di Bush, ma Moore non è un filosofo: è un geniale uomo di cinema, provocatore convincente e al tempo stesso non predicatorio. E' giusto quindi ringraziarlo per il coraggio che dimostra nel prendere posizione, utilizzando il pamphlet, lo spot politico, il documento e ogni altra cosa che, lontana dall'inganno della fiction, ricordi a tutti noi che nessuno è innocente, ma che qualcuno è più colpevole di altri. Olga di Comite
    VOTO:

    CRITICA a cura di Livio Marciano: Fahrenheit 9/11 è la nuova inchiesta-spettacolo di Michael Moore. Il titolo riecheggia il bellissimo romanzo di Ray Bradbury, già portato sul grande schermo da Truffaut. Questo nuovo Fahrenheit non c'entra nulla con i precedenti, se non nel condividere preoccupazione nell'immaginare un futuro prossimo da incubo. Il lavoro di Moore si prefigge di fare contro-informazione, denunciando i loschi traffici di Bush (George Sr. nell'ombra e George W. Jr. alla luce del sole) e del suo staff per difendere i propri interessi personali anziché quelli dei cittadini da cui (non) ha ricevuto mandato presidenziale. Il punto di partenza è la contestata elezione con cui, per una manciata di discutibili voti, Al Gore fu sconfitto da Bush. Conseguenza pressoché immediata di questa "sciagurata" elezione fu l'attentato al World Trade Center. Con Fahrenheit 9/11 il regista protrae le sue indagini e le sue battaglie a favore della libertà d'informazione e d'inchiesta: cerca di mostrare al pubblico le motivazioni e le dinamiche che hanno portato all'immensa catastrofe dell'11 settembre, di scoprire nuovi dettagli su Enduring Freedom, l'operazione militare americana nata per la lotta al terrorismo dopo la suddetta tragedia. Protagonisti della vicenda sono coloro che detengono attualmente il potere in America: il Presidente George W. Bush e tutti i collaboratori che lavorano al mantenimento di questo potere: il suo vice Dick Cheney, il ministro della difesa Donald Rumsfeld, il segretario di Stato Colin Powell, il consigliere alla sicurezza Condoleeza Rice. La Presidenza di Bush viene descritta come un crescendo di giochi di potere che portano all'attuale politica del terrore, costruita a tavolino per giustificare guerre contro regimi dittatoriali lontani, rei di detenere il controllo del bene più prezioso del mondo: il petrolio. Moore cerca di dimostrare, basandosi sui fatti concreti, che tutto ciò che il governo decide per il proprio popolo ha il solo scopo di favorire e accrescere il potere di quella strettissima cerchia di uomini che proteggono Bush, patinato da un falso interesse per i più deboli e gli emarginati. Il regista sofferma gran parte della sua attenzione sulla Guerra in Iraq: cerca testimonianze coinvolgendo uomini e donne provenienti da diversi strati sociali e dalle diverse opinioni. Michael Moore ha uno stile quasi cabarettistico-spettacolare nel proporsi al pubblico ed è per questo che i suoi lavori ottengono una così vasta popolarità. Tuttavia gli va riconosciuto il merito di basare le sue condivisibili tesi su una scrupolosa raccolta di prove, testimonianze, dati, cifre, interviste. L'apparente bonomia da "pacioccone" corpulento non deve ingannare: egli è uno scaltro conoscitore dei meccanismi spettacolari. Moore, pur di ottenere il consenso del pubblico, sa utilizzare e dosare con maestria i più svariati registri retorici. Il divertimento: disegna Bush e i suoi alleati come la saga di personaggi tratti dai telefilm di "Bonanza"; l'orrore: mostra l'11 settembre nella maniera più cruda e atterrita di chi, testimone oculare della vicenda, non poteva fare altro che guardare; l'indignazione: documenta l'infamità della classe dirigente nel reclutare le forze per combattere dalle classi sociali più disagiate, ai margini del sistema; il cinismo e l'ignoranza: agghiaccia con le dichiarazioni dei giovani e spavaldi soldati, carichi di adrenalina per gli imminenti scontri a fuoco; l'ambiguità del popolo americano: segue il cammino della madre di un soldato al fronte, dapprima acritica nei confronti della guerra e, immediatamente dopo, distrutta dal dolore per l'inutile morte del figlio. Il regista canadese affronta molteplici argomenti, apre tante parentesi, procede con una narrazione sempre più articolata e non sempre lineare, per cui il risultato appare, nel complesso, meno efficace rispetto al precedente "Bowling a Columbine", che aveva il grande pregio di coniugare forma e sostanza. Moore costruisce il suo film principalmente su materiale di repertorio: interviste, incontri, spezzoni tratti da servizi giornalistici o da programmi televisivi di attualità. Il montaggio, in questo caso, è più una sorta di puzzle, di collage, in cui il lavoro del regista consiste nel prendere il materiale, archiviarlo, ordinarlo cronologicamente e logicamente e nell'unire le parti aggiungendo materiale da lui creato per dare una finalità logica al tutto, attraverso voci over, nuove interviste, riprese, spesso quasi amatoriali. Grande merito di Moore è il saper bilanciare le parti serie e drammatiche, con altrettanti momenti di distensione ironica e sarcastica di cui è egli stesso protagonista in prima persona. Fahrenheit 9/11 ha l'indubbio merito di costituire un'importante voce di dissenso nei confronti di un'amministrazione che bada esclusivamente all'interesse dei pochi, non esitando a sacrificare milioni di vite umane sull'altare del denaro e del potere. Una drammatica situazione che dovrebbe far riflettere non solo gli americani ma l'intero mondo, in particolare molti alleati della "grande" America (<< isn't it Mr. Blair, Mr. Berlusconi? >>). Premesso che si riconosce una valenza fortemente informativa e positiva alla pellicola, è necessario segnalarne le debolezze dal punto di vista schiettamente formale e ideologico. Innanzitutto non si tratta di un documentario. Il film documentario deve seguire delle regole grammaticali ben precise, rispettando valori formali che questo Fahrenheit 9/11 non ha. Semmai possiamo definirlo una buona inchiesta in stile televisivo. Televisivo è il taglio delle immagini; cabarettistico-spettacolare è anche il tono e lo stile del conduttore, se dovessimo trovare un paragone a noi vicino potremmo definire l'operazione a metà strada tra le inchieste di "Report" e l'ironia populista e a buon mercato de "Le Iene". La debolezza ideologica è di partire da un punto di vista già dichiaratamente di parte, che tende a modellare il materiale a disposizione sulle proprie convinzioni, molto giocato su una contrapposizione ad effetto che, alla lunga, perde profondità. Inoltre abbastanza discutibile è la scelta di mostrare il Presidente americano come una macchietta da cabaret, ridicolo e sempre con la battuta pronta, cosa peraltro dolorosamente vicina alla realtà ma, come accade al Premier italiano nelle varie trasmissioni "satiriche" (cfr. "Striscia la notizia"), può provocare un effetto boomerang sul pubblico inducendolo a sottovalutarne l'effettiva, quanto drammatica, pericolosità.

    Volevo sottolineare come questa sembra la trama del film seguente