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La conversione

Ultimo Aggiornamento: 15/04/2010 13:34
15/04/2010 13:24
 
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a) Modelli fenomenologici

Chiamo “fenomenologico” un modello che intende descrivere – prima ancora di spiegare – “che cos’è” o “com’è” la conversione. M’interesso qui soltanto delle teorie della conversione, senza preoccuparmi della vexata quaestio dell’esistenza o meno di una fenomenologia della religione come scienza autonoma rispetto ad altre discipline.

La classica definizione fenomenologica della conversione è quella di Gerardus Van Der Leeuw (1890-1950) secondo cui si tratta di “una nuova nascita”: “l’esperienza vissuta nella conversione è quasi sempre la stessa in tutte le religioni: un secondo io sorge accanto al primo, una vita nuova comincia, tutto è trasformato”[9]. Con l’emergere della problematica dei nuovi movimenti religiosi dopo la Seconda guerra mondiale, anche gli accostamenti fenomenologici si sono modificati. Ci si è resi conto che la conversione non poteva più essere descritta come un fenomeno unitario, ma occorreva piuttosto cercare una tipologia che distinguesse tra vari tipi di conversione. I cultori di fenomenologia della religione adottano spesso ancora oggi un modello che tiene conto anche della sociologia, proposto all’inizio degli anni 1980 da John Lofland e L. Norman Skonovd, che distingue fra sei diversi tipi di conversione a seconda di cinque variabili: la pressione sociale, la durata temporale dell’esperienza di conversione, l’“eccitazione affettiva”, il contenuto dell’esperienza di conversione, il rapporto fra credenza nelle dottrine e partecipazione alle attività del gruppo a cui ci si converte. Lofland e Skonovd distinguono così:

– la conversione intellettuale, che può avvenire – in casi limite che tuttavia non sono inesistenti – senza contatto diretto con il gruppo cui ci si converte. È possibile, nel mondo mediatico della società complessa, convertirsi semplicemente leggendo letteratura di propaganda o più spesso vedendo la televisione – o ancora, oggi, via Internet –, senza conoscere personalmente neppure un membro del gruppo, che sarà avvicinato in seguito ma cui ci si considera già convertiti;

– la conversione mistica, una sorta di “estasi” o “teofania” che si manifesta al termine di un periodo di tensione, in genere con una scarsa pressione da parte del gruppo cui ci si converte. Questo tipo di conversione è raro, ma di tanto in tanto si presenta anche nella società globalizzata, che non ha ucciso il misticismo;

– la conversione sperimentale, molto più frequente e tipica della società contemporanea, caratteristica al contrario di chi decide di tentare, quasi come “esperimento”, una partecipazione protratta per qualche tempo alle attività di una nuova religione per “vedere com’è”. Se l’esperienza si rivela soddisfacente segue la vera e propria conversione. In questo caso la sequenza “conversione alle credenze/impegno nelle attività” viene rovesciata: si comincia a rendersi attivi in un gruppo religioso prima di credere nelle sue dottrine. Secondo Lofland e Skonovd la conversione “sperimentale” si ritroverebbe frequentemente presso i Testimoni di Geova e nella Chiesa di Scientology;

– la conversione affettiva passa per lo sviluppo di legami di affezione con un membro della religione cui ci si converte. La frequenza delle conversioni causate da matrimoni nella nostra società è un esempio eloquente di questo tipo di processo; anche qui – come nell’ipotesi precedente – l’impegno in alcune attività del gruppo spesso precede la credenza;

– la conversione di risveglio si distingue da quella “mistica” perché, a differenza del misticismo, il “risveglio” o revival è stato organizzato da qualcuno con il dichiarato scopo di ottenere conversioni. In questo caso la pressione del gruppo cui ci si converte è alta, ma l’esperienza è breve e rischia di essere effimera. L’esempio caratteristico è quello delle conversioni ottenute dai predicatori televisivi americani. In genere, in tutto il variegato mondo del protestantesimo pentecostale l’itinerario di conversione è in maggioranza di questo tipo;

– infine la conversione coercitiva – secondo il controverso modello della manipolazione mentale, su cui torneremo a proposito degli accostamenti di tipo psicologico – sarebbe, secondo Lofland e Skonovd, estremamente rara e si verificherebbe soltanto nel caso di individui già afflitti da gravi problemi psicologici, o quando ci si trova di fronte a gruppi che attirano i loro adepti in comunità chiuse dove possono subire pressioni e minacce anche di ordine fisico[10]. Naturalmente l’accenno alla conversione “coercitiva” sposta il discorso su un piano diverso da quello puramente fenomenologico, in direzione di un’analisi delle ragioni e dei meccanismi della conversione, studiati anche da altre angolazioni[11].


b) Modelli storici

Le spiegazioni che sono più comunemente offerte in quella letteratura, anche sociologica, che tiene conto di una prospettiva di carattere storico in tema di conversione – specie in relazione ai nuovi movimenti religiosi – sono sostanzialmente due. La prima è di natura soggettiva e si concentra – per esprimersi in termini economici – sulla domanda religiosa. La seconda è di natura oggettiva e si concentra invece sull’offerta. La prima spiegazione prende l’avvio dalle teorie della deprivazione, assoluta o relativa, di cui soffrirebbero numerose persone nella nostra società per i più svariati motivi. Alcuni si sentiranno “deprivati” dei beni economici ritenuti necessari a un livello di vita decoroso, altri soffriranno di una “deprivazione relativa” quanto alla felicità o al senso da dare alla propria vita. La teoria della “deprivazione relativa” era già stata formulata negli anni 1930 da Robert K. Merton (1910-2003)[12], ed era stata applicata ai nuovi movimenti religiosi da David Aberle (1918-2004) negli anni 1970[13].

Da un certo punto di vista, la teoria della “deprivazione relativa” è perfino ovvia: è evidente che chiunque cambi radicalmente il suo atteggiamento nella vita, per esempio – ma non solo – convertendosi a una nuova religione, avverte un vuoto che intende colmare. Studi più recenti hanno tuttavia notato come esista una coincidenza sospetta fra le teorie sociologiche della “deprivazione relativa” e le spiegazioni che i convertiti ai nuovi movimenti religiosi danno della loro esperienza ai sociologi che li intervistano. Vi è il rischio, in altre parole, che la teoria della “deprivazione relativa” si limiti a prendere per buona la ricostruzione ideologica della propria conversione offerta in modo stereotipato post factum da chi ha aderito a una religione diversa da quella in cui è nato[14].

Naturalmente, non si deve neppure presupporre che i convertiti mentano quando vengono intervistati: piuttosto, la loro ricostruzione della conversione tende naturalmente a conformarsi all’ideologia e alla visione del mondo che hanno appreso nella religione di approdo. James Beckford in un celebre studio sui Testimoni di Geova[15], e David E. Van Zandt nel suo resoconto di una “osservazione partecipante” condotta fra i Bambini di Dio, il movimento oggi chiamato The Family[16], hanno messo in luce un’altra importante limitazione delle teorie della “deprivazione relativa”. È possibile che, da un certo punto di vista, il convertito non sapesse di soffrire di una “deprivazione” e lo abbia “scoperto” soltanto quando è stato sollecitato dall’abile tecnica proselitistica del movimento. Più in generale, oggi la sociologia guarda con sospetto alle teorie ingenue secondo cui i movimenti sociali “rispecchierebbero” i bisogni. Sono teorie vittima di una “fallacia naturalistica” tipica del positivismo o di un certo marxismo. Più spesso, i movimenti sociali creano propagandisticamente i bisogni che poi si offrono di soddisfare.

Queste osservazioni – che naturalmente non negano il complesso intreccio fra esigenze reali e altre create dalle varie propagande e proselitismi – tengono già conto del secondo tipo di spiegazioni della conversione, in genere proposto più dagli storici della religione in senso stretto che non dai sociologi. Si tratta della teoria dell’“incontro delle culture” su cui ha insistito Jean-François Mayer[17], secondo cui, a fronte di domande e di inquietudini che sono sempre esistite, è cresciuta oggi in modo impressionante l’offerta religiosa, a causa anche della globalizzazione. Si tratta, anche in questo caso, di una crescita relativa: in ogni epoca di crisi, dall’ellenismo al Rinascimento, sono nati numerosissimi movimenti religiosi nuovi. Ma soltanto oggi grazie alla facilità dei viaggi, alla radio, alla televisione, a Internet, alla possibilità di preparare e stampare le loro pubblicazioni a basso costo grazie al desktop publishing quasi qualunque movimento nato su scala locale riesce a farsi conoscere in pochi anni in gran parte del mondo. Se una certa “fame” di novità e di esotismi è sempre esistita, oggi può essere soddisfatta senza troppa fatica e senza neppure spostarsi dal proprio paese. Si possono incontrare ashram indiani o comunità di monaci tibetani in Spagna o sulle colline toscane in Italia senza bisogno di raggiungere l’India o il Tibet.

Anche i modelli di carattere storico spiegano le circostanze del cambiamento, ma non veramente perché questo possa prodursi in un modo radicale. Per una visione più completa sembra necessario introdurre anche altre variabili.


c) Modelli psicologici

La letteratura psicologica in tema di conversione si è concentrata a lungo sulla polemica intorno alla metafora del “lavaggio del cervello”, originariamente coniata per descrivere il trattamento inflitto dalla Cina comunista prima ai propri “dissidenti” in patria, poi ai prigionieri di guerra americani in Corea, che rilasciavano sorprendenti – ma spesso effimere – dichiarazioni di “conversione” al comunismo. La discussione – condotta spesso in toni molto accesi – non è rimasta limitata agli ambiti accademici, perché – soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa – non sono mancate vicende giudiziarie che hanno coinvolto nuovi movimenti religiosi (in particolare la Chiesa di Scientology, la Chiesa dell’Unificazione, gli Hare Krishna) accusati di “lavare il cervello” ai loro adepti. Sulla base della teoria del “lavaggio del cervello” è nata anche la pratica della cosiddetta “deprogrammazione”, cioè il rapimento di membri maggiorenni di nuovi movimenti religiosi – in genere su incarico dei loro genitori – per sottoporli a una serie di tecniche in cui “deprogrammatori”, che in genere non sono medici né psichiatri, tentano di indurli a rinunciare alla loro adesione al movimento attraverso tecniche di pressione psicologica e qualche volta anche fisica.

Non è questa la sede per ripercorrere le complesse vicende giudiziarie che si sono sviluppate a proposito del “lavaggio del cervello” e della “deprogrammazione”[18]. Vale la pena, tuttavia, di chiedersi di che tipo sia il modello di conversione basato sulla teoria del “lavaggio del cervello”. Snow e Machalek hanno affermato che “il modello del ‘lavaggio del cervello’ e della ‘persuasione coercitiva’ costituisce la più popolare spiegazione della conversione al di fuori degli ambienti sociologici. La tesi di base è che la conversione è il prodotto di forze devianti ma identificabili, che agiscono su persone che non ne sospettano la natura e sono pertanto altamente vulnerabili. Questa tesi riposa sulla congiunzione di elementi che provengono sia dalla psicologia clinica sia dalla teoria psicoanalitica (...). Una disfunzione fisiologica indotta del cervello è vista pertanto come la chiave della conversione. Quando questa proposta si combina con una teoria psicoanalitica, abbiamo il quadro del convertito come un individuo che è diventato ricettivo a nuove idee perché la sua capacità critica e la forza del suo ego sono state erose dal controllo dell’informazione, dall’eccessiva stimolazione del sistema nervoso, da confessioni forzate, e dalla distruzione dell’ego”[19].

In questa definizione è significativo il riferimento alla teoria del “lavaggio del cervello” come “la più popolare (...) al di fuori degli ambienti sociologici”. Con pochissime eccezioni, infatti, i sociologi hanno respinto la teoria del “lavaggio del cervello” accusando gli psicologi e psichiatri che la propongono di pregiudizi positivistici. Se i modelli storici tendono a prendere per buona la ricostruzione posteriore della conversione a opera del convertito, i modelli del “lavaggio del cervello” – non meno acriticamente – tendono ad accettare le ricostruzioni degli “ex” che sono stati “deconvertiti” – talora tramite la “deprogrammazione” – e hanno abbandonato movimenti religiosi controversi. Per spiegare come hanno potuto compiere in passato una scelta che oggi giudicano assurda, gli “ex” tendono a creare “storie di atrocità”, che rafforzano la metafora del “lavaggio del cervello” ma la cui base fattuale è spesso dubbia[20].

I modelli psicologici del “lavaggio del cervello”, inoltre, si concentrano sull’analisi qualitativa di singoli casi, e ignorano gli studi quantitativi che mostrano come i metodi praticati anche dai nuovi movimenti religiosi più controversi non abbiano nulla di “magico”, perché – fra centinaia di frequentatori di un corso o seminario introduttivo, tutti sottoposti alle stesse tecniche di persuasione – solo una piccola parte si affilia al movimento. Gli stessi studi quantitativi mostrano che il turnover di nuovi movimenti religiosi controversi come la Chiesa di Scientology e la Chiesa dell’Unificazione è altissimo. Una larga maggioranza dei convertiti abbandona il movimento spontaneamente – cioé non in seguito a “deprogrammazione” o a consimili interventi dall’esterno – dopo un periodo variabile da due a cinque anni. In un’opera cruciale per questo problema, la sociologa inglese Eileen Barker concludeva che tra coloro che visitano un centro della Chiesa dell’Unificazione e sono sottoposti a un tentativo di conversione meno di uno su cento aderisce al movimento e ne fa ancora parte due anni dopo il primo contatto[21].

Benché ancora popolare nella letteratura giornalistica, l’uso dell’espressione “lavaggio del cervello” appare oggi in via di abbandono negli ambienti scientifici, particolarmente dopo la morte della sua più convinta sostenitrice, la psicologa americana Margaret Singer (1921-2003). Non mancano, anzi, tentativi di dialogo fra (ex-)sostenitori della teoria del lavaggio del cervello e sociologi che hanno duramente criticato questa teoria, per arrivare a posizioni almeno parzialmente comuni[22]. Se è vero che i cervelli non si “lavano” e che non ci sono tecniche “magiche” per ottenere la conversione, non è meno vero che in alcuni movimenti non si può prescindere da un certo profilo di manipolazione, di truffa, d’inganno che almeno sul piano morale dev’essere denunciato e censurato.

Non sono mancati peraltro psicologi e psichiatri che hanno proposto modelli alternativi a quelli della manipolazione mentale. Alcuni fra gli studi più importanti si devono al docente di psichiatria presso la New York University Marc Galanter, che ha proposto un modello basato sulla teoria generale dei sistemi del biologo Ludwig von Bertalanffy (1901-1972), secondo cui nei gruppi religiosi che svolgono intense attività proselitistiche – e ai quali dunque ci si converte – si verificano fenomeni tipici dei sistemi complessi, come l’induzione e il controllo dei confini[23].


d) Modelli antropologici

Chiamo “antropologici” i modelli che insistono sul ruolo attivo di “ricercatore” (seeker) del convertito, che in un certo senso “crea” la sua nuova identità religiosa. Criticando le teorie del “lavaggio del cervello”, soprattutto il sociologo del Nevada James T. Richardson ha invitato a liberarsi dei modelli “passivi” secondo cui la conversione sarebbe sempre qualcosa che “accade” al convertito senza che chi si converte giochi un ruolo particolarmente attivo nel processo[24]. Uno dei modelli più antichi ma tuttora influenti – che muove da ricerche sulle conversioni alla Chiesa dell’Unificazione – rientra nel paradigma “antropologico” ed è stato elaborato dal già menzionato John Lofland e da uno dei fondatori della nuova sociologia della religione americana, Rodney Stark. Il modello Lofland-Stark – che risale al 1965 e che ha esercitato un’enorme influenza sugli studi in tema di conversione – prevede sette tappe:

– presenza nella persona che si convertirà di tensioni profonde e non passeggere;

– tendenza della persona a cercare risposte ai suoi problemi in un contesto religioso;

– trasformazione in un seeker, cioè in un soggetto che si sposta da un gruppo all’altro alla ricerca di una verità religiosa;

– incontro in un momento cruciale della vita (turning point, “punto di svolta”) con un determinato gruppo religioso;

– sviluppo di legami affettivi con uno o più membri del gruppo incontrato;

– rottura delle relazioni con le persone che si oppongono al gruppo o che comunque vogliono rimanergli estranee;

– interazione intensa con i membri del gruppo, che a questo punto può “dispiegare” il convertito sul suo “teatro di operazioni” come “agente” per ulteriori attività di proselitismo[25].

Lo stesso John Lofland, ritornando sul famoso articolo scritto con Stark dopo oltre vent’anni, trovava il modello ancora troppo “passivo” e suggeriva d’interpretare le sette tappe sottolineando maggiormente il ruolo attivo del convertito[26]. Si può osservare che nel modello Lofland-Stark le sette tappe si riferiscono, in realtà, a situazioni diverse. Le prime quattro rappresentano piuttosto fattori che predispongono a convertirsi, le ultime tre sono invece gli “stadi” per cui passa il vero e proprio processo di conversione. A proposito di questi ultimi il sociologo francese Thierry Mathé, in uno studio del 2005 sulle conversioni al buddhismo in Francia, ha sostenuto che queste corrispondono a un bisogno di “rigenerazione” personale: il seeker cercherebbe il benessere e la pace piuttosto che la verità[27].

Greil e Rudy – rianalizzando i numerosi tentativi di applicazione del modello Lofland-Stark a un gran numero di gruppi religiosi diversi – hanno concluso che il modello si è rivelato valido per le conversioni a movimenti considerati devianti dalla società nel suo insieme, mentre spiega meno bene le conversioni a gruppi che godono di una maggiore accettazione sociale[28]. Il modello Lofland-Stark rimane comunque influente, ma – in diversi studi relativi a singoli movimenti religiosi – si è sottolineata la necessità di coordinarlo con un’analisi dello “sfondo” sociale del processo di conversione. Gli stessi Lofland e Stark sono oggi d’accordo con questa impostazione.


e) Modelli sociologici

I modelli che chiamo “sociologici” danno rilievo principale a un elemento che non è assente nel modello Lofland-Stark – i quali, dopo tutto, sono sociologi –: il ruolo dei network sociali, il cui studio è coltivato anche in altri settori della sociologia. Uno dei più antichi studi sociologici del processo di conversione che utilizza la teoria dei social network risale al 1980 e si deve a Snow, Zurcher ed Ekland-Olson. Snow e i suoi collaboratori concludevano che la conversione a un gruppo religioso dipende largamente da due variabili: la presenza di legami personali con uno o più membri del gruppo, e l’assenza di forti legami personali con membri di network diversi o concorrenti[29]. Le “contro-influenze” più forti che ostacolano la conversione a un nuovo movimento religioso che richiede un impegno a tempo pieno sarebbero il legame matrimoniale o familiare, la situazione economica, il lavoro.

È stata applicata così anche alle conversioni – particolarmente ai nuovi movimenti religiosi – l’analisi che punta sulla nozione di “soggetto a rischio”, chiedendosi chi è “a rischio” di aderire a un movimento controverso[30]. Queste analisi hanno finito per distinguere fra movimenti religiosi proselitistici che operano seguendo i network sociali e movimenti che operano invece contro i network. I movimenti del secondo gruppo – come gli Hare Krishna, la Chiesa dell’Unificazione o la Chiesa di Scientology – tendono a isolare i convertiti dai loro network familiari e occupazionali richiedendo un impegno molto intenso, e per molti a tempo pieno, nelle attività del gruppo. I soggetti “a rischio” di convertirsi a questo tipo di movimenti sono pertanto soprattutto i giovani (talora gli anziani) che non hanno un forte attaccamento a network preesistenti. Tipicamente, hanno appena lasciato la famiglia dei genitori, non ne hanno ancora formata una nuova e non hanno ancora una precisa identità lavorativa.

Questo modus operandi, tipico di movimenti religiosi controversi che reclutano persone avvicinate per strada, da una parte è favorevole a rapide conversioni, ma dall’altra ostacola l’espansione del movimento nel suo insieme. Le conversioni che non hanno occasione di confrontarsi con un inserimento preesistente in network forti sono spesso effimere e di breve durata. Inoltre manca la possibilità di utilizzare il convertito come porta d’accesso a network sociali in cui svolgere ulteriori operazioni di proselitismo. Il convertito potrà essere soltanto “dispiegato” come “agente” per avvicinare persone che non conosce[31]. Per contrasto, i movimenti che cercano i convertiti principalmente utilizzando i network sociali e familiari di coloro che sono già membri – come i mormoni – a gioco lungo sembrano ottenere conversioni più durature e anche più numerose.

Vi è certo il rischio di assumere i network e le relazioni interpersonali come elementi di un modello sociale puramente meccanico, prendendo ultimamente poco sul serio la conversione e le credenze del convertito. Wuthnow ha criticato queste teorie come “riduzionismo sociometrico”[32]. Il compianto Roy Wallis (1945-1990) e Steve Bruce hanno criticato soprattutto i modelli di Snow, sottolineando come “le strategie di conversione non sono indipendenti dagli scopi e dalle visioni del mondo dei movimenti”[33]. La conversione agli Hare Krishna, per esempio, non dipende soltanto dall’uso – o dal non uso – dei network ma dalla particolare ideologia, indù e di “separazione dal mondo”, di questo movimento che attira alcune persone e ne respinge altre. Ultimamente Wallis e Bruce criticano la nozione di “soggetto a rischio” e di “disponibilità” alla conversione, rilevando che si tratta di termini che tendono a mettere in secondo piano le caratteristiche uniche di ogni nuova fede a cui ci si converte.

Secondo i due studiosi britannici “la ‘disponibilità’ non è una qualità fissa. Se siamo ‘disponibili’ o ‘a rischio’ di adulterio nonostante le nostre mogli, i nostri figli, e i mutui da pagare, dipende spesso da chi esattamente ci offre la sua compagnia”. Un uomo felicemente sposato e con figli non sarà “a rischio” – gli esempi femminili utilizzati sono evidentemente degli anni in cui scrivevano i due sociologi, e diranno poco ai giovani di oggi – di avere una relazione “con Margaret Thatcher, ma potrebbe diventare ‘a rischio’ se a proporgli una relazione si presentasse Brooke Shields”...[34].

Con queste ultime osservazioni comincia a venire in primo piano un elemento spesso “non detto” nelle teorie sociali della conversione, cioè il sistema di credenze al quale ci si converte. Più in generale il modello dell’individuo “socialmente isolato” che, secondo la teoria dei social network, sarebbe più disponibile alla conversione è stato costruito sulla base di tre nuovi movimenti religiosi a proposito dei quali i fenomeni di conversione sono stati più studiati dai sociologi: la Chiesa dell’Unificazione, gli Hare Krishna e la Chiesa di Scientology. Il modello – come molti hanno notato – funziona meno nei confronti di altri movimenti; ma sono proprio altri gruppi – pentecostali, mormoni, Testimoni di Geova, Soka Gakkai – a essere emersi come protagonisti di primo piano di conversioni, molto più numerose, che la società occidentale trova difficile spiegare.

[Modificato da mps_rh 15/04/2010 13:33]

«Il Mondo non sarà mai abbastanza vasto, né l’Umanità abbastanza forte per essere degni di Colui che li ha creati e vi si è incarnato»
(P. Teilhard de Chardin, La vision du passé, in “Inno dell’universo”, Queriniana, Brescia 1995, p. 76)>>



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