Vi riporto alcuni brani molto interessanti sulla tesi della Arendt del male come
banalità:
“Lo stimolo mi venne assistendo al processo Eichmann a Gerusalemme. Nel resoconto che ne ho lasciato parlavo della “banalità del male”. Tale espressione non implicava allora nessuna tesi o dottrina, anche se mi rendevo conto, confusamente, che essa andava in direzione opposta a quanto asserito dalla nostra tradizione di pensiero – letteraria, teologica o filosofica – intorno al fenomeno del male. Il male, come ci è stato insegnato, è qualcosa di demoniaco; la sua incarnazione è Satana, "una folgore caduta dal cielo" (Luca, X, 1
, ovvero Lucifero, l’angelo caduto il cui peccato è l’orgoglio, cioè quella
superbia della quale solo i migliori sono capaci: essi non vogliono servire Dio, vogliono essere come Lui. Gli uomini malvagi, ci è stato detto, agiscono per invidia; può trattarsi del risentimento per essere riusciti male senza avere nessuna colpa (Riccoardo III) o dell’invidia di Caino che uccise Abele perché "il Signore tenne conto di Abele e della sua offerta: ma non tenne conto di Caino né della sua offerta". Essi possono altresì essere spinti dalla debolezza (Macbeth) o, al contrario, dall’odio potente che la malvagità nutre verso la bontà ("odio il Moro: le mie ragioni partono dal cuore", dice Iago; l’odio di Claggart per l’innocenza "barbara" di Billy Budd, odio che Melville considera una "depravazione secondo natura") oppure ancora dalla cupidigia, "la radice di tutti i mali". Nondimeno, ciò che avevo sotto gli occhi a Gerusalemme, qualcosa di totalmente diverso, era pure innegabilmente un fatto. Restai colpita dalla evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause o di motivazioni. Gli atti erano mostruosi, ma l’attore – per lo meno l’attore tremendamente efficace che si trovava ora sul banco degli imputati – risultava quanto mai ordinario, mediocre tutt’altro che demoniaco o mostruoso. Nessun segno in lui di ferme convinzioni ideologiche o di specifiche motivazioni malvagie, e l’unica caratteristica degna di nota che si potesse individuare nel suo comportamento passato, era qualcosa di interamente negativo: non stupidità ma
mancanza di pensiero. Sulla scena del tribunale israeliano e delle procedure carcerarie egli si comportava come aveva fatto nel regime nazista, ma di fronte a situazioni in cui tali procedure di routine non esistevano, eccolo improvvisamente smarrito, mentre il suo linguaggio dominato da
clichès produceva in tribunale, come certo doveva essere avvenuto altre volte nella sua vita ufficiale, una sorta di macabra commedia.
Clichès, frasi fatte, l’adesione a codici di espressione e di condotta convenzionali e standardizzati adempiono la funzione socialmente riconosciuta di proteggerci dalla realtà, cioè dalla pretesa che tutti gli eventi e tutti i fatti, in virtù della loro esistenza, avanzano all’attenzione del nostro pensiero. Saremmo rapidamente esausti se fossimo ogni volta sensibili a tali pretese: la sola differenza tra Eichmann e il resto dell’umanità è che, manifestamente, egli la ignorava del tutto.
Fu proprio questa assenza di pensiero – un’esperienza così consueta nella vita di tutti i giorni, quando si ha appena il tempo, o anche solo la voglia di
fermarci a pensare – che destò il mio interesse. E’ possibile fare il male in mancanza non solo di "moventi abietti" (come li chiama la legge), ma di moventi
tout court, di uno stimolo particolare dell’interesse o della volizione? Si può credere che la malvagità, comunque la si definisca, non sia una condizione necessaria per compiere il male?”
(H.Arendt,
La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987)
[…] Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca.
Esso può invadere e devastare il mondo intero perché si espande sulla sua superficie come un fungo.
Esso “sfida” il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicale. […]
(tratto da
Ebraismo e modernità; appendice)
Saluti
[Modificato da lost-angel 11/01/2005 21.55]