Ascesi indù e ascesi cristiana

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ShivaBhakta
00mercoledì 26 aprile 2006 15:30
Salve a tutti.
Molto tempo fa trovai sul sito dell'U.I.I. (Unione Induista Italiana) un articolo dove veniva raccontato un dialogo interreligioso tra cristiani e indù.Nella nuova versione aggiornata del sito dell'U.I.I. l'articolo non esistè più.Fortunatamente qualcuno ha pensato di metterlo sul suo sito.
Ho trovato l'articolo sul link www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiacomparata/as...

Riporto qui l'articolo:
INDUISTI E CRISTIANI

dall’uomo a Dio:

Ascesi indù e ascesi cristiana


Nel ringraziare per la calorosa accoglienza gli organizzatori dell’incontro interreligioso presso Grumo Appula(BA), Francesco Regina e Don Franco Vitucci, vorrei ricordare anche il vero spirito ecumenico che ha regnato in un piccolo paesino della Puglia. L’accoglienza è stata molto calorosa, aperta, ed abbiamo potuto vedere ancora le tracce di una fede che in altre parti d’Italia sembrerebbe superata, ma che invece, in questi piccoli paesi si sta rinnovando senza perdere le proprie tradizioni. In questi due giorni abbiamo non solo gustato le bellezze dei luoghi, abbiamo incontrato le autorità del paese, il sindaco, e altri responsabili, siamo entrati, accolti con calorosi abbracci, nelle parrochie, addirittura durante la celebrazione della messa. Abbiamo constatato una dimostrazione di profonda ospitalità da parte di tutti i membri della comunità cattolica. È stato veramente forte il messaggio di questi fratelli cristiani nell'aprirsi, nell’abbracciare i loro fratelli indù. Penso che questo, vuoi per il carattere delle persone, vuoi per le strutture sociali ancora semplici, sia stato l’incontro interreligioso più autentico in questi ultimi anni.
L’incontro, nell’ambito del dialogo interreligioso, è stato organizzato da Don Franco Vitucci, parroco della parrocchia Santa Maria di Monteverde, ed ha ospitato esponenti di fedi diverse, cattolici, cristiani ortodossi e indù.
In apertura del simposio, Don Franco Vitucci ha espresso la sua immensa gioia nel ritrovarsi ad un incontro interreligioso fra fratelli indù e cristiani cattolici ed ortodossi; ha ringraziato Dio e la Vergine di Monteverde, patrona e madre di tutti gli uomini, e i santi illuminati… P. Arcivescovo, il segretario per il dialogo E/I, Don Angelo Romita, il sig. Preside della scuola che ha ospitato l’iniziativa e l’intero personale docente, i genitori e gli alunni con ogni benedizione…Ringraziamenti anche a tutti i collaboratori, un saluto alle presenze interparrocchiali, ai fratelli delle diverse tradizioni cristiane… il Sindaco e l’Amministrazione comunale, i parrocchiani…

"E’ nella parola del nostro santo Concilio che ormai riconosciamo che anche "nell’Induismo, gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia" e "nel rifugio in Dio con amore e confidenza" il fratello indù cerca come noi di ascendere all’ombra delle ali di Dio.

L’India che fu pure la terra del dottor D’Aquino e della nostra Teresa di Calcutta ha il privilegio dell’induismo, così pure l’Italia certifica la presenza di questi nostri fratelli che indubbiamente arricchiscono la cultura della meditazione in un mondo di clamori e dissoluzione…Molte cose di voi sono anche nostre cose…
Caro Maestro Svami Yogananda Giri, caro fratello Ilies, vi do il mio benvenuto ed il mio abbraccio!"



Francesco Regina, responsabile del settore ecumenico
Dando anch’io calorosamente il benvenuto a questo simposio voluto da chi può anche dalle pietre far nascere figli di Abramo (cfr. Lc. 3. 17), presento i relatori che questo secondo incontro, dopo lo storico incontro del marzo scorso con i fratelli ebrei e mussulmani, vedrà per la prima volta nel nostro paese per le nostre comunità, noi cristiani e i fratelli indù…
"Benché Dio, attraverso vie a lui note, possa portare gli uomini a sé medesimo, è tuttavia compito imprescindibile della Chiesa ed insieme sacro diritto di evangelizzare" (C.C.C. 84[SM=g27989].
In Cristo, Verbo e Principio di tutte le cose, saluto A Ilies della tradizione cristiana e ortodossa. Vorrei qui ricordare il santo G. Palamas e l’Esicamio, fiaccola dell’ortodossia, monaco dell’Athos e araldo della grazia…Mi piace ricordarlo nella sua triade e nel suo riferimento all’apparenza del sole per contemplare Dio…
Vorrei tanto che la tunica di Cristo si ricomponesse e che sorridesse soltanto di fronte a qualsiasi argomento di divisione…
La religione non sta nel proselitismo o nel primato d’una vana gloria ma nel servire la tarda umanità alla primavera di Gesù Cristo nostro redentore… Se siamo veramente cristiani, non c’è divisione! La tradizione indù è a me carissima, infatti in molti spettacoli teatrali e in parecchi interventi scritti mi sono sempre intenerito sul merito dell’ascesi indù…
Comunque è nel nome dell’unico Dio che oggi verifichiamo quanto di comune abbiamo e quanto ancora un giorno potremo avere…

Un grande santo indù, Sri Ramakrishna, diceva:

"Un lago ha diverse rive. Ad una gli indù con vasi attingono acqua e la chiamano jal, ad un’altra i mussulmani l’attingono con otri e la chiamano pani, ad una terza i cristiani la chiamano acqua. La sostanza è una con nomi differenti e perciò ognuno va ricercando la stessa sostanza, solo il clima, l’indole ed il colore creano differenze… Lasciate che ogni uomo segua la sua via".

Così Gesù Cristo Nostro Signore, maestro ecumenico ha parlato e manifestato la sua parola di messia a zeloti, samaritani, esseni, greci, romani, farisei, sadducei, a volte dicendo addirittura che in tutta Israele non aveva trovato una fede così grande come quella del centurione romano pagano… (Mt. 8-10).
Le religioni sono fiumi di uno stesso oceano e "nulla si rigetta di quanto di vero e santo, esse rappresentano" (C.V.II. N.AE.)
Il mio interesse è su quanto io possa essere unito a chi non è come me, e su come il ritorno di Cristo si possa realizzare ricomponendo l’unità di tutti gli uomini… Il cristianesimo vede l’unità di tutti gli uomini come una condizione per il messia, così rimanendo con i fianchi cinti e le lucerne accese verifichiamo con suppliche, inni e preghiere, i cenacoli dell’unico padre di tutti gli uomini del mondo…(cfr. LC.12.35-1Tess.5.17).
Anche il Mahatma Gandhi, saggio assai caro al cristianesimo, durante la sua vita non ha mai voluto distinguere per discriminare, usando con la stessa grazia la nostra Bibbia, il Corano o la Ghita indù… per pregare!
Leggendo la Ghita, ho voluto rivedere il passo "I saggi non piangono né per i morti né per i vivi" (II-11), anche Gesù, il messia, ha detto a chi voleva seguirlo "Lascia che i morti seppelliscano i loro morti" (Mt. 8.22); questo passo comune alle due braccia del Padre testimonia il roveto ardente della santità…
Induismo e cristianesimo, quindi, non per il travaglio del Cristo ma per il suo ritorno glorioso auspicando la pace e il grido nel deserto.
Qui si condanna la radice della guerra e della crociata e si prega che un giorno, spero non lontano, com’è detto dal profeta Amos, "chi ara, s’incontri con chi miete".



Ariton Ilies, rappresentante del cristianesimo ortodosso

Ascesi cristiana nelle chiese orientali

Sono stato inviato per parlarvi dell’ascesi cristiana nella Chiesa orientale. Però prima di fare questo dobbiamo chiarire alcune cose, cioè cosa vuol dire "ascesi" e "Chiese orientali".
Oggi nel campo della teologia spirituale, quasi tutti sono d’accordo sull’uso della parola "spiritualità" con lo stesso senso della parola ascesi. Etimologicamente il termine ascesi significa esercizio, allenamento, e si applica sia all’esercizio fisico, che alla riflessione filosofica. Ben presto, però questa parola è venuta a significare gli sforzi mediante i quali si vuole riuscire a progredire nella vita morale e religiosa. Questi sforzi, quasi sempre sono di natura metodologica. L’ascesi spirituale da un lato impone una disciplina corporale, dall’altro presuppone esercizi di orazione mentale, sottoposti a metodi più o mento stretti. Partendo dalla necessità, per l’uomo, di uno sforzo per conseguire la perfezione, tutte le spiritualità e tutte le religioni, parlano di ascesi e di vita ascetica, quindi ogni persona spirituale deve praticare "esercizi spirituali" o allenamenti spirituali, in una parola deve fare ascesi.
Dunque anche nella vita cristiana è necessario lo sforzo umano, per cooperare alla grazia divina e disporsi a ricevere un incremento di vita spirituale, ma non basta solo questo, perché lo sforzo di purificazione e di cooperazione non è mai completo, e quindi necessariamente deve essere permanente, perciò sotto il nome di ascesi entra tutta la teologia spirituale.
Con il nome di Chiese Orientali vanno indicate tutte le chiese della parte orientale dell’impero romano insieme con le comunità sorte in dipendenza da esse, sia ortodosse sia unite a Roma, come ad esempio: le Chiese Ortodosse, la Chiesa Armena, la chiesa Copta, la Chiesa Etiopica, la Chiesa Maronita, ecc. Però, ciò che colpisce oggi più nella situazione delle Chiese Orientali è la varietà e la diversità dei riti, delle giurisdizioni e spesso anche dei dogmi. Abbiamo, invece, il contrario per quanto riguarda la dottrina spirituale, che manifesta una sorprendente unità.
La spiritualità orientale cristiana, è nata dall’ispirazione evangelica ed appare come tipicamente tradizionale. Nell’oriente cristiano non si è mai dimenticato che gli scritti dei santi padri della chiesa sono fonti principali di vita spirituale, per cui non si è sentito mai il bisogno di scrivere un manuale di spiritualità; in quanto, questa deve essere e restare una vita "in accordo con le divine scritture", come di dice spesso nelle introduzioni alle Regole monastiche, ma col termine "divine scritture", s’intende, oltre alla Sacra Scrittura, anche gli scritti dei padri e degli scrittori spirituali.
In seguito vedremo alcuni elementi specifici dell’ascesi cristiana orientale (certamente, alcuni altri gli ho tralasciati, non perché sono meno importanti di quelli che presenterò, ma perché il tempo non ce lo permette):
La spiritualità antropologica: l’uomo, nella spiritualità orientale non è visto come un microcosmo, come spesso si dice nella riflessione filosofica, ma l’uomo vero, autentico, è quello creato "ad immagine e somiglianza di Dio", solo quest’uomo è la persona capace di manifestare Dio nella misura in cui la sua natura si lascia penetrare dalla grazia deificante" (V. Losskij). L’uomo, quando dico uomo mi riferisco al cristiano, è spirituale perché lo Spirito santo fa parte della sua vita, questo Spirito viene ricevuto nel lavacro battesimale, come dice anche s. Ireneo "L’uomo perfetto è composto di corpo, anima e lo Spirito". Sulla stessa linea si trova anche un autore ortodosso russo del secolo scorso, Teofano Recluso, che riassume così l’insegnamento tradizionale, per quanto riguarda l’essenza della vita spirituale e dell’uomo perfetto: "L’essenza della vita in Gesù Cristo, della vita spirituale, consiste nella trasformazione dell’anima e del corpo e nell’introdurli nella sfera dello Spirito, cioè nella spiritualizzazione dell’anima e del corpo". Nei padri orientali la grandezza dell’uomo sta nell’essere creato ad immagine e somiglianza di Dio, e questo lo sottolinea molto bene s. Gregorio di Nissa nella sua opera Sulla creazione dell’uomo. Inoltre i padri greci distinguono fra l’"immagine" e la "rassomiglianza": per loro l’immagine è iniziale, e la perfezione sta nella rassomiglianza. Quindi l’ascesi consiste nel passare dall’immagine alla rassomiglianza. Ma alla domanda dove risiede l’immagine, essi rispondono diversamente. I padri della scuola alessandrina dicono nella mente sola, ossia nella parte suprema dell’anima. Perciò la rassomiglianza con Dio diventa perfetta nella contemplazione. Invece per i padri della scuola antiochena, l’uomo è immagine di Dio a causa della sua padronanza sul mondo, sulla natura irragionevole, sulle passioni. Però, alcuni affermano che a causa del peccato di Adamo e di ogni cristiano dopo il bagno del battesimo, l’immagine di Dio nell’uomo viene distrutta, ma i padri rispondono a questi, che il peccato non distrugge l’immagine di Dio nell’uomo, ma la copre con l’immagine del diavolo, della bestia, delle cattive passioni, come dice Origene; e per riportarla al suo splendore primitivo è necessario il bagno del battesimo per quanto riguarda il peccato di Adamo, la preghiera per conservare questa immagine nel suo splendore, e per non soccombere nella tentazione e le lacrime della penitenza una volta caduto nel peccato. Un’altra soluzione a questo problema ci è proposta da Diadoco di Foticea. Secondo lui "ogni uomo è creato a immagine di Dio, ma raggiungere la somiglianza è concesso solo a colui che sottomette la sua liberà a quella di Dio per mezzo di un grande amore".
Sempre lui dice che "allora quando arriviamo a rassomigliare a Dio non apparteniamo più a noi stessi, ma a Colui, che mediante l’amore, ci ha riconciliati con Dio".

Ho detto più sopra che per arrivare alla somiglianza di Dio abbiamo bisogno anche di pregare; perciò in seguito cercherò di esporre, brevemente, cosa è la preghiera per i padri orientali.
Secondo Teofano Recluso essa è "il respiro dello Spirito", "il barometro della vita spirituale". Però, negli scritti dei padri si possono riscontrare numerosissime altre definizioni della preghiera, le quali mettono in risalto un aspetto o un altro. Prevalgono però tre più importanti: Ascensione della mente a Dio, s. Giovanni Damasceno; Colloquio con Dio, Evagrio; Domanda delle cose convenienti a Dio, s. Basilio il Grande. Ma la preghiera per i padri non è soltanto un atto puramente intellettuale, né un ragionamento sulle cose divine, invece, è un atto vitale e personale che coinvolge tutta la persona, con tutte le sue facoltà, non sempre, però, allo stesso modo. Perciò a seconda della facoltà che prevale si possono distinguere i vari gradi della preghiera in corrispondenza alla struttura antropologica della vita spirituale: 1) La preghiera corporale o vocale, che consiste soprattutto nella recita dei testi sacri; 2) La preghiera mentale, appare come uno sforzo dell’intelligenza di capire e ponderare le verità divine; 3) La preghiera del cuore che è affettiva, in questo caso la relazione con Dio diventa un atteggiamento vitale, sentito, una disposizione costante della propria volontà alla volontà divina, come dice san Paolo "… non sono più io che vivo, ma è Dio che vive in me…"; 4) La preghiera spirituale, è il grado più alto della preghiera, e si ha quando l’attività dello Spirito che prega nel nostro cuore diventa così palese che le facoltà umane tacciono e sembrano quasi superate, in questo caso abbiamo l’estasi.

La preghiera continua, per gli asceti orientali, è stato sempre un problema alla cui soluzione difficilmente si è arrivati.

Questo problema nasceva dalla domanda: come ubbidire al precetto dell’Apostolo: "pregate senza posa"? Le soluzioni sono state diverse, ma la più accettata dagli ortodossi fu quella di Origene, cioè di congiungere alla preghiera le buone opere ("ora et labora" di s. Benedetto), quindi la vita spirituale deve essere incarnata nel quotidiano. Lo scopo della preghiera continua secondo s. Basilio è quello di conservare dentro di sé la memoria di Dio, anche nel guardare le cose del mondo, che sono "voce di Dio". Questo ricordo eccita nell’anima un affetto di gratitudine perenne. Per avere dentro di sé questo amore perenne i monaci orientali cominciarono a recitare in continuazione delle preghiere giaculatorie, come per esempio "Signore, abbi pietà di me" oppure "Glorificato sii o Signore", una di queste preghiere, che poi divenne la più famosa in oriente è la preghiera di Gesù, o del cuore: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore". Per farvi capire meglio quali sono gli effetti di questa preghiera ho riportato un brano dell’opera "Racconti di un pellegrino russo": "Ed ora eccomi pellegrino, recitando senza posa la preghiera di Gesù che mi è più cara e più dolce d’ogni altra cosa al mondo. Talvolta percorro più di settanta verste in un giorno e non mi accorgo di camminare; sento soltanto che recito la preghiera. Quando un freddo violento mi colpisce, recito la preghiera con maggior attenzione e ben presto mi sento caldo e confortato. Se la fame si fa troppo insistente, invoco il nome di Gesù Cristo e non mi ricordo più di aver avuto fame. Se mi sento male e la schiena o le gambe mi dolgono, mi concentro nella preghiera e non sento più dolore. Quando qualcuno mi insulta, non penso che alla benefica preghiera di Gesù; immediatamente collera o pena svaniscono e dimentico tutto… Per abitudine, non ho che un bisogno solo: recitare senza posa la preghiera, e quando lo faccio divento allegro. Dio sa che cosa si compie in me… ma, grazie a Dio comprendo chiaramente ora quel che significa la parola dell’Apostolo che avevo udito un tempo: "pregate senza posa".

Un altro elemento specifico dell’ascesi cristiana orientale è quello della contemplazione. Per i padri la vera contemplazione non è né la contemplazione estetica, cioè delle forme sensibili, neanche la scienza semplice che fu disprezzata dagli asceti sin dagli inizi del monachesimo, ma è la conoscenza religiosa, che scopre il "senso finale delle cose, ciò per cui esse sono state fatte, per esempio la Provvidenza che si esprime negli eventi del mondo, il "senso spirituale" nascosto sotto la lettera della Sacra Scrittura. Esso si trova non ragionando ma quasi palpando per mezzo di un’intuizione che viene da Dio. Ma per arrivare alla contemplazione è necessario incarnare alcuni doni e alcune qualità, come per esempio l’illuminazione divina e la purezza morale. Tutto questo pensiero si può riassumere in una espressione origeniana: "la pratica delle virtù è l’ascensione verso la contemplazione". Però se c’è un’ascensione, ci devono essere anche dei gradi. E questi gradi dell’ascensione verso la vera contemplazione sono: il primo ed il più inferiore è la contemplazione naturale, ossia la visione di Dio per mezzo delle creature, in quanto, secondo s. Basilio "l’universo è stato creato per essere scuola delle anime"; il secondo grado è la contemplazione delle cose invisibili, ossia, secondo Origene, quando l’anima superando le apparenze visibili, comincia a intravedere la lotta invisibile che si combatte nel mondo; il terzo grado, il più alto, è la theologia, ossia la contemplazione della Santissima Trinità, che in questa vita non può essere mai perfetta, ma può essere esperimentata attraverso i sensi.
In stretta connessione con la contemplazione e la preghiera continua sta un altro elemento specifico della spiritualità cristiana orientale, e questo è il cuore, il quale è l’organo della contemplazione. Nella ascesi cristiana orientale il cuore dice la totalità della persona, è il "luogo di Dio", secondo s. Gregorio Palamas è "la parte più interiore del corpo", è il germoglio del corpo glorificato, è la radice dell’intelletto… La funzione del cuore consiste, secondo Teofano Recluso, nel sentire tutto ciò che tocca la nostra persona, quindi non può essere mai un minuto tranquillo, è sempre in uno stato di agitazione di allarme, sembra un barometro prima di una tempesta. Nel cuore si concentra l’attività spirituale dell’uomo, qui le verità ricevono il loro timbro, le buone disposizioni hanno qui la loro radice, mentre l’opera del cuore è dare il gusto, rendere amabile ciò che si deve fare… Perciò è molto importante la formazione del cuore, perché secondo gli asceti orientali cristiani i pensieri malvagi vengono dal di fuori del cuore, dai demoni. In questo caso è molto importante la custodia del cuore, che ci permette di allontanare i pensieri malvagi, di svuotare il loro contenuto psichico, per poterlo poi offrire, con la più grande umiltà a Dio, e così il cuore che è lo "specchio dell’uomo", comincia a riflettere la luce divina. Poi, si arriva al risveglio che ci toglie dalla insensibilità spirituale, dal ciclo della sazietà e dell’avarizia, dallo stato di dimenticanza, in cui non siamo più capaci né di amare, né di ammirare. Questo risveglio si trasforma poi in vigilanza, ossia nell’attesa dello Sposo che arriva durante la notte. In questo caso il carisma maggiore è quello delle lacrime, che trasforma il "cuore di pietra", più precisamente il cuore avvolto dalla nebbia, dal fango, delle cattive passioni, in un "cuore di carne"; lo trasforma in "tempio di Dio", in una terra misteriosa, dove la luce battesimale produce frutti solo allora quando le lacrime dell’amarezza diventano lacrime di ringraziamento. Come dice s. Giovanni Climaco: "Solo colui che riveste il pianto felice e pieno di grazia come un vestito di nozze, solo costui ha conosciuto il sorriso spirituale dell’anima", e aggiungo io: solo costui potrà vivere nella purezza del cuore e nella contemplazione di Dio.

Fino adesso ho parlato degli elementi che caratterizzano l’ascesi cristiana delle chiese orientali, in conclusione, brevemente, cercherò di parlare del lato pratico dell’ascesi cristiana orientale, cioè dell’ortoprassi. Secondo gli asceti cristiani orientali, i pensieri malvagi e le cattive passioni, assalgono e penetrano nel cuore e nell’attività umana progressivamente. In questo senso essi generalmente distinguono cinque stadi: la prima suggestione al male; un "discorso" con la suggestione; la lotta contro la tentazione; il consenso al peccato; la schiavitù del peccato, delle passioni.
Il vero peccato, secondo loro consiste soltanto nel consenso; gli stadi precedenti, invece turbano la tranquillità dell’anima e della vita spirituale. Perciò l’arte dell’ascesi consiste nell’eliminare i "discorsi" interni con la loro malizia, per mezzo della sobrietà mentale, della custodia del cuore e della vigilanza; "si deve uccidere il serpente appena mostra la testa", e non permettergli di entrare nel paradiso del cuore, dicono questi atleti dello spirito. Ma come si uccidono questi pensieri malvagi? Ecco la loro risposta: introducendo nella mente pensieri salutari, e qui interviene "il discernimento degli spiriti", che è un dono dello Spirito santo, ma anche frutto dell’esperienza ascetica. Perciò il principiante, incapace di questo discernimento deve rivelare i suoi pensieri al padre spirituale. Per facilitare il discernimento degli spiriti Evagrio propone un elenco di otto pensieri generici, che sono la sorgente di ogni malizia, questi sono: gola; fornicazione; avarizia; tristezza; collera; accidia; vanagloria; superbia; questo catalogo evagriano in occidente si trasformò ulteriormente nei "sette peccati capitali". Un altro mezzo per uccidere i pensieri malvagi che assalgono il cuore del cristiano è quello della carità, che è il fine della vita pratica di ogni cristiano, è la porta della conoscenza degli altri, è la condizione della vita contemplativa, è l’unica legge universale della convivenza umana.

Per quanto riguarda l’importanza della carità, s. Massimo Confessore dice che se sparisse l’amore perverso di se stesso, in altre parole l’egoismo, sparirebbe ogni differenza nel trattare gli altri; perché le note caratteristiche della carità cristiana sono l’universalità, la perennità e l’uguaglianza.

"La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità.
Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà". Prima lettera ai Corinzi



Svami Yogananda Giri, presidente dell’Unione Induista Italiana e acharya del Gitananda Ashram
Ascesi nel cristianesimo e nell’induismo

Ringrazio gli organizzatori di quest’incontro, in particolar modo Francesco Regina che ha seguito con molta cura e molta sensibilità l’organizzazione dell’incontro.
(...) Le religioni sono diverse, ma la spiritualità che le sostiene è unica. Il termine spiritualità è di ordine universale, esso tende a indicare quella vita che lentamente nasce nella parte più profonda di noi stessi e che è indefinibile perché si rinnova continuamente. Tutto ciò che si manifesta (simboli, idee, credenze) non è altro che l’involucro mutevole a seconda delle diverse dottrine e delle diverse nozioni di Dio che l’uomo elabora quando si pone il problema della sua salvezza. Ma se prendiamo la parola religione, nel significato di sforzo dell’uomo per realizzare un più alto livello di coscienza, trasformare il suo essere, allora nell’ambito delle varie visioni, per quanto diverse siano, scopriamo una vera unicità d’aspirazione, un compimento, nel senso di uno schiudersi, di uno sbocciare verso la nostra natura divina.
Non credo che il questionare sui principi o sulle dottrine abbia contribuito ad aumentare nell’uomo l’amore o la mutua comprensione, ma spesso, al contrario, ha creato barriere e divisioni.
Se invece consideriamo la vita dei grandi mistici, a qualsiasi religione essi appartengano, vediamo che in essi si compie una specie di realizzazione spirituale che li rende tutti fratelli in uno slancio di amore per l’umanità intera. Tutti questi grandi esseri e coloro che aspirano alla ricerca di Dio, hanno intrapreso quel sentiero trasformante che è l’ascesi. In sanscrito per definire l’ascesi si fa riferimento a due concetti: si parla di tapas e sadhana, termini che racchiudono l’idea della vita spirituale e della sua pratica.
Ascesi etimologicamente significa pratica spirituale, applicazione, esercizio. Tapas significa ciò che brucia, calore, aspirazione, austerità, quindi esso brucia ogni impurità e sviluppa l’aspirazione spirituale. Sadhana significa ricerca della verità, pratica, indica tutte le vie attraverso le quali si arriva a conoscere quella verità.
Infatti, a seconda dei temperamenti dell’uomo, si percorrono tre vie: la via della devozione, quella della conoscenza e quella dell’azione. Esse non sono mai isolate l’una dall’altra, s’integrano e si completano. In nessuna via sono escluse le altre.
Ricerca e purificazione sono mezzi necessari per la vera trasformazione dell’essere, per la realizzazione di uno stato di felicità e pace: quella gioia suprema che porta la conoscenza di Dio.
Ma quali sono le procedure, i metodi della sadhana, dell’ascesi per risvegliare la nostra coscienza divina?
Nell’induismo, come abbiamo detto, convergono moltissime tradizioni spirituali ognuna con la propria filosofia, teologia, liturgia e sadhana. Naturalmente, per questione di tempo, non possiamo trattarle tutte, ma ci soffermeremo su quelle più comuni e praticate.

L’orazione

Una pratica comune a quasi tutte le religioni è l’orazione che, come sapete, è una preghiera ardente per entrare in intimità con Dio. Santa Teresa d’Avila consigliava di meditare sul significato del Padre Nostro e sulla sua recitazione per scoprirne il contenuto. Tale orazione porta a diversi gradi di raccoglimento e realizza una vera trasformazione interiore.
Nell’induismo abbiamo la stessa tecnica chiamata japa. Japa significa ciò che purifica dal demerito o peccato (detto papa) e consiste nella ripetizione di formule sacre generalmente contenenti nomi di Dio. Ma vi è tuttavia qualche differenza; innanzi tutto, per ripetere queste formule, è necessaria un’iniziazione. Esistono diverse specie di orazioni: vi è quella che conferisce delle impressioni spirituali (samskara) creando certe disposizioni per la vita spirituale (in questo caso il ruolo dei sacramenti è molto importante); vi è poi quella del conferimento di una formula assieme a vari procedimenti meditativi come il mantra o formula sacra che viene trasmessa da un’autorità spirituale al devoto sufficientemente pronto. La ripetizione consapevole del mantra porta l’aspirante spirituale ad integrarsi con la divinità. L’induista crede nella presenza oggettiva di Dio nel mantra che gli è stato comunicato, presenza che, per mezzo della ripetizione, si fonde in lui e diviene con lui un’unica sostanza rendendolo più spirituale di prima.

Il rituale

Per quanto riguarda il rituale, anche se con qualche piccola differenza a seconda delle varie tradizioni religiose, esso si differenzia in rituale del tempio e rituale domestico. Il tempio rappresenta uno spazio sacro e simboleggia l’agire di Dio nel mondo e il cammino evolutivo dell’uomo verso l’assoluto. Nel rituale l’uomo si trasforma, si divinizza per elevarsi a Dio ed i mezzi consistono normalmente di sedici procedure, come le purificazioni, i mantra, le offerte, i gesti rituali, la meditazione. Si può dire che la puja, il rituale, è lo stadio in cui si realizza la nostra natura divina attraverso i simboli.
Il rituale domestico si svolge, anziché nel tempio, nell’abitazione del devoto e in tale ambito vengono celebrati i vari sacramenti. In questo caso, non è la comunità, ma l’individuo o la famiglia il soggetto dell’attività religiosa.

La meditazione

Per quanto vi siano moltissime tecniche per praticare la meditazione, essa è soprattutto uno stato della mente che naturalmente non si raggiunge istantaneamente, ma richiede un graduale procedimento suddiviso normalmente in tre stadi.
Il primo stadio consiste nel nutrire i sensi interni per imparare a ritirare la mente dal contatto con gli oggetti esterni. Un simbolo molto esemplificativo è rappresentato dalla tartaruga che ritira le sue membra dentro il proprio guscio: gli arti, la coda, la testa. I quattro arti e la coda rappresentano i cinque sensi e la testa la mente. Questa capacità di ritirare in se stessi mente e sensi, evita le fluttuazioni della mente da un oggetto all’altro e favorisce la meditazione. Il secondo stadio è fissare la mente su un punto unico, un centro sottile, un concetto o idea di Dio. Il terzo è lo stato meditativo vero e proprio, che consiste nella fusione della mente con l’oggetto della contemplazione.
Naturalmente, tutto questo avviene a livello della mente. Vi è un quarto stato trascendente la mente che si chiama samadhi, l’assoluta identità con il Supremo, puro stato di coscienza.
Nell’induismo si è data sempre grande importanza alla naturale evoluzione dell’uomo seguendolo nei vari stadi della sua esistenza comunitaria che corrispondono a quattro livelli: quello di studente (brahmacarya), di capofamiglia (grahasthya), di asceta (vanaprastha) e di rinunciatario (samnyasin).
Questa suddivisione ha permesso di istituire delle regole per ogni livello. Lo studente viene istruito non solo nelle scienze e nelle arti, che sono tutte basate e arricchite dallo studio delle sacre scritture (basti pensare che l’alfabeto è appreso associando ogni lettera ad un’espressione del Divino), ma è anche istruito a pratiche spirituali pertinenti al suo stato. Quando entra nello stato di capofamiglia, lo sposo, come la sua sposa, considera il Divino stesso nel suo consorte, com’è detto in questo dialogo tratto dalle Upanisad tra un rishi, saggio-veggente, e la sua sposa.

"Non è, mia cara, per amore dello sposo che lo sposo è amato, ma per amore dell’Atman. Non è, mia cara, per amore della sposa che la sposa è amata, ma per amore dell’Atman"

Questo vuol dire che l’amore è la nostra natura, come il profumo è l’essenza del fiore: si ama per l’amore stesso.
Gli ultimi due stadi della vita sono dedicati interamente alla realizzazione di Dio (anche se il penultimo, quello di vanaprastha, al giorno d’oggi è praticamente scomparso). L’ultimo quindi è il samnyas, la via della rinuncia, una via prettamente monastica nella quale la vita è interamente dedicata a Dio e alla realizzazione della liberazione.
Oltre alle pratiche ed osservanze etiche prescritte ad ogni particolare stadio della vita, vi è anche una sadhana, una ricerca di Dio, comune a tutti. Ogni stadio, infatti, è un processo di purificazione, non dell’anima, che è per sua natura eterna e pura, ma degli strumenti: corpo, intelletto, ego, sensi, che attraverso l’errata identificazione condizionano la nostra consapevolezza.
I mistici, ad esempio, affermano che il modo più efficace per superare la coscienza dell’ego è pensare, agire, parlare in termini di Dio. Se a Dio è permesso di risiedere nel cuore-tempio del devoto, allora ogni attitudine negativa sarà sostituita da virtù. Così anche per purificare i sensi, considerati metaforicamente come i "cinque ladroni" che rapiscono l’anima facendole dimenticare la sua vera natura divina, i saggi veggenti ci dicono:

Per purificare la vista osserva le bellezze del Signore,
per purificare l'udito ascolta le sue sacre parole, i sacri inni, i mantra.
Per purificare l'odorato odora i sacri profumi del rituale, fiori, incensi ed altro,
per purificare la parola pronuncia parole che parlino di Lui,
per purificare il tatto senti le dolci vibrazioni della sua adorazione.

La vita dell’induista è rivolta a quattro scopi: osservare le leggi universali divine, dharma; pensare al benessere proprio e della società, artha; soddisfare in modo lecito e secondo il dharma i propri desideri, kama; ed infine la liberazione o la salvezza, moksha.
Persino nel perseguire questi quattro scopi vi è una progressiva purificazione. I primi tre sono rivolti all’uomo coinvolto nel mondo che dovrà osservare attentamente il dharma nell’adempiere i propri doveri e le proprie responsabilità: è la via dell’azione, la via che insegna a compiere l’azione disinteressata, a sviluppare quella rinuncia ai propri egoismi, ad allargare il senso dell’io all’umanità intera. Questa sadhana inizia dall’infanzia, quando, i genitori prima, ed i maestri poi, iniziano il bambino all’ordine universale. Le stesse preghiere lo abituano alla contemplazione del cosmo, gli fanno aprire la mente al valore dei principi universali. L’idea dell’armonia del tutto assorbe quella della sua individualità e, come si dissolve la neve al sole, così si dissolve il suo egoismo nella vita universale. Egli impara a riconoscere il mutuo scambio della vita, impara ad usare ciò che ha; sapendo che nulla gli appartiene, ma che riceve in uso da Dio tutto, compresa la sua vita stessa.
Questa dharma sadhana è la via del laico, di coloro che vivono nel mondo e nella società, stadio in cui non è chiesto di rinunciare al desiderio, ma di soddisfarlo secondo le leggi divine e s’impara così ad utilizzare ciò che si ha per il benessere collettivo.
Nell’induismo, come già detto, non vi è posto per il profano, tutto è sacro. Ogni atto della vita quotidiana aderisce ad una funzione cosmica, ripetendola in forma minore.
L’analogia tra il piano materiale e il piano spirituale viene affermata in ogni momento della giornata e anche il modo di vivere del laico conduce in maniera naturale alla spiritualità.
Le diverse sadhana sono altrettante vie che permettono di santificare l’esistenza umana e divinizzarla: è mia convinzione, infatti, che dobbiamo divinizzare l’uomo e non umanizzare il Divino, dobbiamo essere noi ad innalzarci verso Dio per riconoscere la nostra vera natura.
A seconda del grado di evoluzione di ogni singola persona, la sadhana accompagna il graduale risveglio dell’essere fino alla completa liberazione nella quale il ruolo della rinuncia gioca un aspetto fondamentale. Nell’induismo, l’insegnamento della rinuncia, riferita alla vita monacale, non viene concesso a tutti, viene impartito in modo prudente e solo alla persona qualificata.
La parola rinuncia, molto spesso, si presta a erronee interpretazioni. Prima di tutto, rinuncia non è indifferenza, sofferenza, privazione, ma realizzazione di ciò che è utile e ciò che è inutile, ciò che è, e ciò che non è.
Come ho detto, vivere lo stato di rinuncia richiede maturazione e qualificazione che è fondamentalmente composta da qualità quali discriminazione, non attaccamento, pace, tranquillità, controllo dei sensi, distacco, pazienza, fede, concentrazione e desiderio della liberazione. Quindi, vediamo che la rinuncia non è di per sé l’unica qualificazione necessaria: da sola essa porterebbe ad un’innaturale aridità.

"Non con il tenersi lontano dall’operare può l’uomo arrivare a conquistare la libertà dell’agire; e non con la rinuncia al mondo puramente e solamente può raggiungere la perfezione" (Bhagavadgita)

In realtà è necessaria un’integrazione di azione e rinuncia, di amore e conoscenza.
Questo concetto di rinuncia, d’abbandono assoluto è presente, anzi, penso sia un punto centrale, anche del cristianesimo. Non afferma forse Matteo (VI.25 e seguente):

"Non preoccupatevi della vostra vita, di che cosa mangerete e berrete, né del vostro corpo, né di che lo vestirete... guardate gli uccelli del cielo; essi non seminano, né mietono, non ammassano nulla nei granai, e il vostro Padre celeste li nutre. Non valete voi più di loro? Chi di voi, per quanto pensi e ripensi, può aggiungere un cubito alla durata della sua vita? E perché darsi tanta pena per i vestiti? Guardate i gigli dei campi come crescono: non lavorano, né filano, eppure vi assicuro che nemmeno Salomone, in tutta la sua gloria, fu mai vestito come uno di loro... dunque non datevi pena dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Con che cosa ci vestiremo?... Cercate prima di tutto il regno dei cieli e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù".

D’altronde, a che cosa si rinuncia, quando si ha tutto? Dio è totale assolutezza, non vi è nulla al di fuori di Lui, quindi dove è la rinuncia? Si rinuncia al nulla, all’effimero, a ciò che é pura apparenza, per essere il tutto, pienezza totale, ricchezza infinita. È risveglio, amore, sapienza.
Gli ultimi stadi dell’ascesi sono rinuncia, distacco e quella notte dei sensi necessaria al compimento del viaggio dell’uomo verso Dio. Riflettiamo sui versi della Bhagavadgita e di San Giovanni della Croce: "In quella che è notte per tutti gli esseri, veglia colui che è padrone di sé. Ed è notte per il saggio veggente, ciò che per gli altri è tempo di veglia". Anche San Giovanni nel suo "Salita al Monte Carmelo" I.3.5 esclama: "Notte che mi hai guidato! O notte amabile più dei primi albori! O notte che hai congiunto l’amato con l’amata, l’amata nell’amato trasformata."
È attraverso la notte dei sensi che si arriva allo splendore della luce divina. Si conosce Dio quando Egli occupa tutto lo spazio del nostro cuore.
Nell’induismo Dio è assoluta e totale realtà, l’Uno senza secondo, tutto è in lui.
In un verso sanscrito si dichiara "L’atto dell’offrire è Dio, egli è l’offerta stessa del rituale, Egli è il sacrificatore stesso, per colui che realizza Dio nel suo operare, Dio è ciò che deve essere attinto." (Bg. IV.24)
Donare se stessi è uno dei più alti scopi, come l’atto di Dio che offre se stesso in quell’immenso sacrificio che è la creazione stessa.

"Lavora e vivi come un atto d’offerta per ottenere fama immortale e completa soddisfazione di aver vissuto una vita. Ricordati, tu sei figlio dell’immortalità e che tutta la vita non è altro che un’offerta. Non dimenticare mai che il nettare del fiore della grazia è per quelli che sacrificano e la vita offerta è la vita accettata. Lascia che la sacra fiamma del fuoco divino brilli splendente nel tuo spirito." (Atharva Veda 15-17-10)

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Ciao,
Orlando.

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