Polymetis
00lunedì 9 gennaio 2006 22:14
Scriveva S. Girolamo, il più grande biblista del mondo antico, all’amico Paolino da Nola:
«I contadini, i muratori, i fabbri, i lavoranti in metallo e in legno, i tessitori e i gualchierai, e in genere quelli che forniscono articoli vari e cose di poco valore, non possono diventare quel che desiderano senza un maestro.
I medici fanno i medici, i fabbri maneggiano gli attrezzi dei fabbri (1).
C’è solo una scienza, quella delle Scritture, che tutti, senza distinzione, attribuiscono a se stessi:
Incolti e colti, senza distinzione, scriviamo poesie(2).
Questa scienza è quello che la nonnetta chiacchierona, il vecchio rimbambito, il cavillatore parolaio, e in genere tutti quanti si arrogano, fanno a brandelli, insegnano prima di aver imparato […] e, come se fosse poco, con una certa facilità di parola e anche con audacia spiegano agli altri quel ch'essi non capiscono.
Taccio dei miei colleghi, i quali, se per caso, dopo aver coltivato le lettere profane, arrivano alle sacre Scritture […] adattano alla propria opinione testimonianze incongruenti, come se fosse un magnifico e non un pessimo sistema di parlare il distorcere frasi e piegare alla propria opinione la Scrittura, benché questa vi si opponga […] Questi comportamenti sono infantili e simili al gioco dei ciarlatani: insegnare ciò che ignori, anzi, per dire una cosa che mi ripugna, non saper neppure di non sapere» (Epistula LIII ad Paulinum presbyterum, 7)
(1)ORAZIO, Epistulae II, 1, 115-116
(2)ORAZIO, ibidem, 117
Avendo in mente questa lettera il biblista Giuseppe Ricciotti, che fu professore di Orientalistica all'università La Sapienza di Roma, scrisse:
«Era il meno che potesse scrivere un Girolamo. Passar l'intera vita a studiare la Bibbia; logorarsi in viaggi, veglie, strapazzi, visitare posti, consultare codici, ascoltare maestri, sempre coll’intento di approfondire il senso ed aumentare la cognizione del gran libro: e poi trovare ad ogni angolo di strada la nonnetta chiacchierona, il vecchio rimbambito e compagnia bella, che in materie bibliche trinciano sentenze e risolvono questioni in quattro e quattr'otto. Siamo giusti: era umiliante; e non c'era davvero bisogno quel suo caratteristico spirito ringhioso per scrivere così e peggio. Indubbiamente Girolamo era un santo» (G. Ricciotti, Bibbia e non Bibbia, Brescia, Morcelliana, 1946, p. 15)
Compose anche la seguente "Lettera ad Anthropos", valido insegnamento per tutti i ciarlieri e gli pseudo-storici del cristianesimo antico che oggi affollano la rete dandosi alla mitologia comparativa.
“LOCUTUS EST IN PARABOLIS”
Di Giuseppe Ricciotti.
«Alcune decine d'anni fa verso il 1870, un celebre personaggio scrisse ed inviò una lettera ad un privato qualunque, che noi chiameremo convenzionalmente il signor Anthropos; la lettera era scritta in italiano, era assai lunga, e trattava di argomenti contemporanei vari, alcuni dei quali assai importanti. Data la celebrità del mittente, alcuni amici chiesero e ottennero dal signor Anthropos il permesso di ricopiar la lettera. Di fatti, ne furono eseguite sia semplici copie, sia traduzioni in varie lingue anche assai differenti dell'italiano, ad esempio in arabo e in giapponese. E fu una fortuna, giacché poco tempo dopo che il sig. Anthropos aveva ricevuto la lettera, avvenne un incendio nel suo studio e il testo originale della lettera andò distrutto.
Rimasero però le copie e traduzioni, che s'andavano sempre più moltiplicando col passare da amico ad amico. Sennonché questi testi ricopiati o tradotti avevano tutti, chi più chi meno, gravi difetti: una copia era stata fatta in gran fretta, e quindi conteneva sviste e lacune; un'altra era stata fatta da un amico di vista debole e di mano malferma, e perciò mostrava qua e là che si era scambiata una parola con un'altra somigliante, ed era poi riscritta con una calligrafia così tremolante che, a leggerci sopra, questi scambi potevano accrescersi in gran numero; una terza copia sarebbe stata ben fatta ma disgraziatamente rimase lunghi anni negletta in un ripostiglio, ove fu macchiata dalla pioggia, lacerata dai topi, e ridotta in uno stato per metà inservibile.
Le traduzioni avevano poi altri difetti. Quella in russo, ad esempio, era stata fatta da un amico moscovita di passaggio in Italia, che però aveva tradotto assai liberamente: di rado egli aveva seguito la parola, spesso si era accontentato di una certa corrispondenza di concetti, e talvolta - non contenendosi nel suo ufficio di traduttore - aveva inserito qua e là nel testo russo piccole spiegazioni, brevi richiami, e anche qualche riflessione personale.
La traduzione inglese, al contrario, ci era proposta di esser fedelissima, ma troppo spesso era riuscita sbagliata; ne era autore un rigido e grave londinese che, conscio della sua debolezza in italiano, non si sentì tranquillo se non quando si vide dietro il riparo di un autorevole vocabolario: e così gli successe di tradurre il nome merluzzo, che capitava una volta nella lettera, come se significasse piccolo merlo (l'autorevole vocabolario di cui si serviva, era quello di J. E. Wessely, «19a ediz. interamente rifatta» da G. Rigutini e G. Payn, Milano, Hoepli, 1902; ivi egli lesse a pag. 100, che merluzzo significa young blackbird).
La traduzione in arabo, invece, fu fatta da un italiano, sì, ma che era alle sue prime anni con la lingua del Corano e che fece quella traduzione giusto per esercitarsi: è facile immaginarsi che cosa saltò fuori. E così, più o meno, per tutte le altre.
Pochi anni fa, il valore documentario di quella lettera crebbe a dismisura e se ne ricercò dappertutto, in Italia e all'estero, il testo esatto per vedere con precisione ciò che essa diceva. Naturalmente da principio ognuno che ne aveva una copia, o una traduzione, ritenne di possedere il testo esatto; ma poi, confrontate le varie copie e messe a riscontro con le diverse traduzioni si constatò che era necessario ricostruire attraverso tutti questi documenti il testo genuino, per quanto era possibile, apprestando un'edizione critica. E l'edizione critica fu fatta, naturalmente in Germania, a cura di un certo professor Deutschmann; essa risultò dalla collazione delle varie copie italiane, e insieme anche dal confronto con le varie traduzioni esistenti: quelle lezioni che apparvero raccomandate da un maggior numero di copie o di traduzioni furono accolte nel testo, le altre furono relegate in nota. Così la lettera ad Anthropos fu ricostruita, e se ne ebbe un testo complessivamente sicuro: sebbene qua e là rimanessero ancora delle incertezze, delle piccole lacune, e altri insoluti problemi di vario genere, che il prof. Deutschmann con i documenti a sua disposizione non riuscì ad eliminare.
La lettera, criticamente edita, fu ricercatissima, fece il giro di tutto il mondo, e i dotti cominciarono subito a pubblicarne commenti totali e dilucidazioni storiche parziali. Si ebbero dei risultati molto interessanti. La lettera era d'un italiano a un italiano; trattava di cose e fatti italiani d'attorno il 1870, allorché fu scritta la lettera; usava anche spesso quella fraseologia familiare che noi italiani impieghiamo in una conversazione amichevole. Perciò qualunque commento o dilucidazione richiedeva evidentemente una buona conoscenza, non solo dei fatti e delle cose italiane d’attorno il 1870, ma anche della terminologia politica e della fraseologia familiare di quei tempi.
Invece, che avvenne? Ecco qualche esempio a caso.
Un professore di una università del Giappone, trovando spesse volte nominato nella lettera un certo Garibaldi, sostenne che questo personaggio era un influentissimo cardinale: e non campò mica in aria la sua identificazione, giacché lunghe ricerche da lui fatte nelle biblioteche giapponesi lo autorizzarono ad affermare con ogni sicurezza che quel tal signor Garibaldi vestiva di rosso, precisamente come i cardinali.
Un altro commentatore, appartenente a un istituto superiore del Siam, notò nella lettera, ripetute più volte, le seguenti frasi: il Pio IX del 1848 e della Costituzione, e altrove, il Pio IX del «Non possumus» e del 1870; dopo lunghi e pazienti studi egli concluse che erano esistiti due personaggi storici chiamati Pio IX: uno, papa legittimo, aveva regnato a Roma; l'altro era morto, poco dopo, come antipapa a Gaeta, da dove era riuscito ad impadronirsi di Roma espellendone il legittimo Pio IX ed occupandone il seggio.
Un filologo australiano, invece fece oggetto delle sue esperte ricerche alcune espressioni alquanto oscure che aveva rinvenute qua e là nella lettera; riuscì, fra l'altro a fissare il significato di una sibillina frase della lettera che diceva il conte Y ha le mani in pasta ed è un vero accidente: la scoperta fu che quel personaggio doveva essere un conte caduto in miseria, e perciò costretto a maneggiare la pasta facendo il fornaio; inoltre, se egli era chiamato un vero accidente ciò dimostrava che quel personaggio non aveva più nella vita politica italiana alcuna «sostanziale» importanza, giacché il termine accidente significava – e qui il dotto filologo australiano citava in prova una congerie di testi di S. Tommaso e d'altri scrittori medievali - quod non pertinet ad substantiam (ciò che non compete alla sostanza).
Anche più erudito si mostrò il direttore di un'accademia dell'Africa centrale, che in una conferenza tenuta sotto un bel palmizio alla temperatura di 50 centigradi, ricorse ad argomenti sia storici che filologici per stabilire con sicurezza a che cosa alludesse il termine carbonari, che ricorreva più volte nella lettera. In primo luogo egli demolì in maniera definitiva la opinione, comunemente seguita, d'un professore cinese, secondo cui i carbonari sarebbero stati una specie di casta mandarinale, contraddistinta da un lungo paudamento di seta nera brillante come carbone, da cui il nome dei suoi membri. Niente affatto: l'accademico africano dimostrò invece che il termine doveva aver conservato il suo significato etimologico originario, e che si trattava di una vera corporazione di fabbricanti di carbone; ricorrendo poi ad argomenti storico-geografici spiegò in maniera del tutto convincente che la straordinaria potenza politica della corporazione era dovuta al fatto che l'Italia, paese freddissimo, aveva un bisogno assoluto di carbone, e perciò quei che lo producevano tenevano in mano le chiavi della vita economica e sociale.
Infine, un dotto monaco buddista, che nel suo nevoso altipiano del Tibet si occupava molto di studi folkloristici, mise bene in rilievo alcune curiose usanze italiane attestate dalla lettera, ad esempio quella di lavarsi ogni giorno e perfino di stare delle ore intere, durante i mesi di luglio e agosto, tuffati nelle onde sulla spiaggia del mare, e ne concluse che gli italiani erano resistenti al freddo molto più che i Tibetani, i quali facevano a meno di lavarsi e nei mesi di luglio e agosto preferivano stare attorno e un buon fuoco; confrontò anche l'usanza delle donne italiane di avere un solo marito con quella delle donne tibetane di averne fino a una dozzina, e vi fece sopra alcune considerazioni demografiche.
E qui, la storiella è finita.
Il lettore probabilmente dirà che è una favola di cattivo gusto. Il gusto lo lascio giudicare a lui: a me preme far notare che non è punto una favola; è invece una parabola, e una parabola tanto verosimile, che è veramente avvenuta, benché sotto altro nome, in altre circostanze, e mutatis mutandis.
La lettera ad Anthropos rappresenta la Bibbia. Le vicende del resto della lettera corrispondono, in sostanza, alle vicende del testo della Bibbia. I commenti e le dilucidazioni che hanno dato della lettera i dotti, rassomigliano in modo impressionante a molti - non tutti - commenti studi apparsi sulla Bibbia nelle ultime decine d'anni; con la differenza che le ricostruzioni storiche d'indole giapponese e siamese sono il campo preferito degli studiosi tedeschi e di chi ne segue il metodo; invece, le dilucidazioni varie di tipo australiano, africano e tibetano sono un campo assai più vasto, perché aperto a tutti gli incompetenti presuntuosi: nel cui numero entrano non soltanto «la nonnetta chiacchierona, il vecchio rimbambito», e compagnia bella, descrittaci da Girolamo, ma molti e molti altri» (Giuseppe Ricciotti, Bibbia e non Bibbia, Brescia, Morcelliana, 19463, pp. 30-35)
----
Ad maiora
sandraN
00martedì 10 gennaio 2006 14:01
Ma la Parola di Dio approva realmente questa visione di Girolamo
che fa l'apologia della sapienza umana?
La Bibbia afferma innanzitutto:
Giacomo 4:6
Comunque, l’immeritata benignità che egli dà è maggiore. Quindi dice: “Dio si oppone ai superbi, ma dà immeritata benignità agli umili”.
Perciò l'umiltà è un requisito importante per ricevere conoscenza e questa proviene solo da Dio. L'uomo può stare millenni sui libri ma se parte dal presupposto che la conoscenza di Dio sarà frutto dei suoi studi e delle sue speculazioni mentali si sbaglia di grosso.
E infatti Giacomo 1:5 afferma:
Quindi, se qualcuno di voi manca di sapienza, continui a chiederla a Dio, poiché egli dà generosamente a tutti e senza biasimare; ed essa gli sarà data.
Come si dimostra la veridicità di queste dichiarazioni ispirate?
In effetti gli studi e le speculazioni umane sia degli scribi ebrei che dei filosofi greci li aveva resi ciechi alla sapienza di Dio manifesta nella accessibilità della sua Parola.
Paolo scrisse: “Siccome, nella sapienza di Dio, il mondo per mezzo della propria sapienza non ha conosciuto Dio, Dio ha ritenuto bene salvare quelli che credono per mezzo della stoltezza di ciò che viene predicato”. ( 1 Cor. 1:21 )
L'originario messaggio cristiano, semplice e diretto, che toccava i cuori delle persone umili e semplici era stoltezza per gli Ebrei. La loro sapienza insegnava che potevano salvarsi mediante le opere della Legge, facendo l’elemosina, e per merito dei loro antenati, specialmente Abraamo. Soprattutto non volevano un Messia debole che si lasciasse sopprimere.
La predicazione cristiana era insipienza anche per i Greci. Non avevano bisogno che un Ebreo morisse come un disprezzato criminale per salvarli: avevano anime immortali, che non sarebbero mai morte! — 1 Cor. 1:21.
Per gli scribi ebrei col suo labirinto legalistico di tradizioni orali, sia per i filosofi greci con i loro sofismi e le loro disquisizioni il messaggio del Cristo con la sua disarmante semplicità, era da rigettare.
Ma i primi cristiani non avrebbe adulterato la Parola di Dio per renderla più appetibile ai cristiani ebrei o greci che volevano introdurvi le loro credenze d’un tempo. Non l’avrebbe annacquata con tali impurità per renderla più accettabile a un mondo la cui sapienza era stoltezza agli occhi di Dio. (2 Cor. 2:17; 4:2; 11:13).
La Parola di Dio aveva previsto che sarebbe venuto il momento in cui falsi insegnamenti d’origine sia ebraica che gentile avrebbero contaminato la verità cristiana con la sua originale semplicità, e diede alcuni avvertimenti:
Atti 20:29, 30:
So che dopo la mia partenza entreranno fra voi oppressivi lupi e non tratteranno il gregge con tenerezza, e che fra voi stessi sorgeranno uomini che diranno cose storte per trarsi dietro i discepoli.
2 Tim. 4:3, 4:
Vi sarà un periodo di tempo in cui non sopporteranno il sano insegnamento, ma, secondo i loro propri desideri, si accumuleranno maestri per farsi solleticare gli orecchi; e allontaneranno i loro orecchi dalla verità, mentre si volgeranno a false storie.
La storia ha confermato che gli avvertimenti degli apostoli erano ben fondati. Come è stato esposto finora, e regolarmente confutato a torto da Teodoro e Polymetis, dalla metà del secondo secolo E.V. i cristiani che avevano una
certa dimestichezza con la filosofia greca cominciarono a sentire il bisogno di esprimere la loro fede nei suoi termini, sia per propria soddisfazione intellettuale che per convertire i pagani istruiti.
Inoltre molti dei primi cristiani successivi al primo secolo diventarono apostati in quanto attratti dalle dottrine filosofiche greche e le adoperarono come armi per difendere e diffondere il cristianesimo, cioè adattarono le verità del cristianesimo al modello filosofico greco.
Ben poco è cambiato fino al nostro giorno. Le disquisizioni di Teodoro e di Polymetis lo dimostrano ampiamente.
Coloro che riportano il messaggio cristiano all'originale semplicità sono considerati da loro stolti e ignoranti.
D'altra parte, sull'onda lunga di queste umane speculazioni dei cosidetti "saggi e istruiti" la grande maggioranza delle chiese cosidette cristiane insegna ancora dottrine come l’immortalità dell’anima, la trinità e altre, infiltrate dalla filosofia greca nel cristianesimo apostata a partire dal secondo secolo E.V.
Dottrine che i greci, a loro volta, avevano prese da culture più antiche, che risalgono alle religioni egiziana e babilonese. Anche questo è stato ampiamente esposto, ma Teodoro e Polymetis continuano a negarlo malgrado le schiaccianti evidenze.
Per non dire che in aggiunta a questo molti religiosi della cristianità, pur definendosi cristiani, insegnano che Dio creò mediante evoluzione, pensando di modernizzare le proprie dottrine, ma in effetti abbracciano dottrine filosofiche preesistenti che risalgono a tempi anteriori la venuta di Cristo. Ma non fanno altro che rigiutare in effetti la verità biblica che Dio creò la vita sulla terra, che la vita si riproduce “secondo la sua specie”, che Geova è dall’eternità ed è onnipotente e che Cristo Gesù è suo Figlio, ha avuto un inizio ed è sottoposto a lui.
Per noi Testimoni di Geova oggi questa sapienza religiosa e filosofica non ha alcun valore. Accettiamo la dichiarazione di Paolo che scrisse: "Una cosa stolta di Dio è più saggia degli uomini, e una cosa debole di Dio è più forte degli uomini". ( 1 Cor. 1:25)
Sandra
[Modificato da sandraN 10/01/2006 14.09]