DNA - Vita o Morte

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benimussoo
00mercoledì 5 settembre 2007 14:28
Come dice qualcuno il DNA è nulla , nel senso che nel momento in cui viene distrutto l'embrione o lo spermatozoio , non significa uccidere nessuno perchè la vita non è ancora nata .. proviamo ad andare un attimo in fondo alla questione ??
cosa ne pensate [SM=x511438]
Desu
00mercoledì 5 settembre 2007 15:05
Filosoficamente parlando
Vita o non vita per me non esiste, o non ne conosco la differenza, esiste solo cosciente o non cosciente. I diritti li hanno solo le cose coscienti o che saranno coscienti, non quelle che "sarebbero state coscienti se".

(posto che l'embrione non è cosciente)
Un embrione che sarà uomo ha diritto di vivere.
Un embrione che lo sarebbe stato se non fosse stato distrutto non ha diritto di vivere.

pultroppo tutti gli embrioni sono "sarebbe" e nessuno "sarà" perchè il futuro non esiste, è solo un'astrazione, nessun embrione ha diritti su se stesso.
un esempio: danneggiare un embrione e ucciderlo non è un reato,
danneggiare un embrione e farlo nascere è un reato contro la persona nata.


Però visto che l'embrione è un oggetto appartiene a qualcuno e i loro proprietari hanno diritti su di esso,

chi sono i proprietari di un embrione? i genitori o l'umanità?
Rainboy
00mercoledì 5 settembre 2007 18:17
Ricopierò qui un intervento che feci su Apocalisse, quando mi resi conto a suo tempo della nebulosità che esisteva, nella mente di molti amici ed utenti, circa il concetto di identità genetica paragonato a quello di identità individuale.
Lo scopo era quello di dare ai profani un'infarinata su cosa fosse realmente e a cosa servisse il DNA (almeno nelle sue funzioni di base); vari utenti in quel forum mi dissero che l'intervento era soddisfacente, quindi spero possa essere utile a qualcuno anche qui.



DISCORSI GENERALI CIRCA LA NATURA DEL DNA, IL RUOLO DEL CODICE GENETICO E DELL’INFORMAZIONE EREDITARIA - parte I


1) "D.N.A."
Che cosa vi hanno insegnato su questa molecola?
Saprete che la sigla sta per Desoxiribo-Nucleic Acid, acido desossiribonucleico. Sicuramente vi avranno detto anche che contiene il nostro patrimonio genetico, il quale definisce l’appartenenza ad una razza e caratterizza tutto ciò che siamo fisicamente; saprete anche che ogni essere umano ha un DNA la cui sequenza è nel complesso unica e irripetibile, e che se questa sequenza contiene degli “errori”, delle mutazioni, la cosa può essere molto grave e causare malattie genetiche, tumori e così via.
Anche la sua forma poi è entrata nell’immaginario collettivo: una specie di doppia elica, o piuttosto una scala a pioli contorta su sé stessa, che trasporta una sequenza infinita di quattro gruppi chimici chiamati “basi azotate”, rappresentati da quattro lettere… Adenina, Timina, Guanina, Citosina. A, T, C, G.
E ogni base azotata, legata alla sua personale molecola di zucchero (il desossiribosio) e al suo personale gruppo fosforo, costituisce una subunità molecolare definita “nucleotide”: in pratica un anello della catena del DNA.
Queste cose sono di dominio pubblico.
Molta gente però vede il DNA come una specie di lungo e magico nastro forato, scritto apposta con il solo scopo di essere letto dalla cellula, e contenente tutte le istruzioni per la costruzione di un determinato individuo; si tende a pensare inoltre al DNA come a qualcosa che “basta a sé stesso”: il DNA è una specie di factotum che avendo immagazzinata tutta la conoscenza genetica, è la fonte delle azioni stesse della cellula; si crede anche che la cellula gli obbedisca ciecamente, che tutto ciò che lo circonda non siano altro che dei robot che eseguono i suoi comandi; e da questo si deduce che essendo il DNA uguale in ogni cellula di un dato organismo, di fatto può essere visto come la rappresentazione molecolare dell’individuo di cui fa parte.
Si pensa infine che il DNA sia, esso stesso, il patrimonio genetico che trasporta. Se io ora scrivessi una sequenza di basi azotate di DNA, come ad esempio “ATTTAGACCTCCGTCAGGGTTA”, molti penserebbero che – se questa sequenza è reale ed è stata tratta da un vero DNA – allora essa ha necessariamente un significato informativo; insomma lì sopra c’è scritto un frammento di “qualche cosa” che qualcuno dotato dei giusti mezzi “potrebbe leggere”.

2) Ma tutto questo è concettualmente errato. Si basa su una visione semplicistica e disinformativa, che molti trovano utile per divulgare o più spesso per diffamare... a partire dai giornalisti italiani, che hanno demeriti enormi in fatto di informazione scientifica. Prima di entrare nei dettagli, analizziamo i fatti che hanno causato questo fraintendimento.
Vi ricordate a scuola, i rudimenti della sintesi proteica?
Molti decenni or sono, quando si scoprì il ruolo del DNA come "portatore" dell'informazione genetica (una prima prova sperimentale venne nel 1944, con l'esperimento di Avery; la dimostrazione definitiva fu nel 1952, con l'esperimento di Hersey e Chase) nessuno ancora aveva inventato il concetto moderno di codice genetico; quindi dopo aver stabilito la sua forma tridimensionale (nel 1953, ad opera di Watson, Crick, Wilkins e Franklin) la prima cosa che gli scienziati dell’epoca scoprirono, con i limitati mezzi che avevano a disposizione, fu che esisteva una corrispondenza molto specifica fra determinati gruppetti di basi azotate – composti sempre da tre basi ciascuno – e degli amminoacidi, i costituenti primari delle proteine, ovvero il prodotto che costituisce fisicamente i tessuti degli esseri viventi.
Ad esempio la prima corrispondenza che si trovò (nel 1961 ad opera di Niremberg e Matthaei) fu che “TTT”, ovvero “Timina, Timina, Timina” che tradotto nell’RNA era “UUU”, ovvero “Uracile, Uracile, Uracile” corrispondeva all’aggancio di un amminoacido chiamato Fenilalanina.
Ci sono milioni di amminoacidi possibili secondo le regole della chimica organica; ma le forme di vita su questo pianeta ne utilizzano soltanto venti (ventidue in alcuni rari casi).
E si scoprì, guarda caso, che tutte le triplette possibili con i 4 caratteri usati universalmente dal DNA, ovvero tutte le 4x4x4 = 64 combinazioni possibili con le lettere A,T,C,G, erano capaci di agganciare un loro amminoacido. E non uno qualunque, ma solo uno di quei venti amminoacidi vitali: ogni tripletta poteva agganciarne uno, che poteva essere lo stesso di un’altra tripletta (il codice genetico si dice in biologia che è RIDONDANTE), ma nessuna tripletta poteva mai avere più di un singolo amminoacido riconoscibile (il codice genetico si dice in biologia che è NON AMBIGUO). L’unica eccezione erano le triplette di “stop”, che avevano comunque un significato strettamente legato a quello della proteina in cui venivano usate.
Era così che la cellula poteva sempre sapere come costruire le sue proteine; ogni proteina, nella sua struttura primaria (la sua forma monodimensionale) non è altro che una lunga catena di amminoacidi, che vengono legati l’uno in fila all’altro con grande precisione durante il processo della sintesi proteica; si sapeva già che tutte le proteine potevano teoricamente essere ridotte a dei lunghissimi “fili” arrotolati ad arte su sé stessi, e si comprese che la loro “tessitura” (sintesi) avveniva fuori dal nucleo, in dei siti catalitici appositi chiamati ribosomi; essa era possibile solo grazie allo “stampo” fornito dall’RNA, che a sua volta proveniva dal nucleo, dove era stato copiato (trascritto) integralmente da quello del DNA. Quest’ultimo era quindi la grande banca dati; lo si poteva pensare come una sorta di lunghissima stringa informativa dove erano memorizzate e codificate con l'alfabeto a triplette tutte le sequenze di tutte le proteine utili alla cellula, cosa che rendeva possibile la produzione di ciò che è necessario alla sopravvivenza.
Il raggiungimento di questa visione delle cose, per gli scienziati era l'anello mancante che completava una lunga catena di eventi; perché la sintesi proteica, come sappiamo da circa un secolo, è la base della vita.
Le proteine sono impiegate in qualsiasi funzione metabolica; molte di esse sono enzimi, cioè dispositivi chimici che con la loro particolare forma catalizzano tutte le nostre reazioni chimiche interne, velocizzandole o inibendole per modularle fra loro e mantenere una perfetta omeostasi – l’equilibrio chimico ideale fra i distretti interni ed esterni di una cellula. Altre proteine sono invece proteine strutturali, che costituiscono fisicamente le strutture e gli organuli della cellula; altre ancora sono proteine di membrana, o proteine destinate alla secrezione, proteine leganti, proteine di riconoscimento, proteine solventi, proteine litiche (distruttive). E così via, con una lista che potrebbe durare pagine intere.
Le proteine hanno tutti i ruoli metabolici possibili e immaginabili, e per questo la loro sintesi è l’attività anabolica primaria della cellula. “Anabolismo” è inteso come l’insieme di tutte le reazioni chimiche che portano alla costituzione di composti complessi partendo da elementi o composti più semplici; ogni processo anabolico richiede energia, e non avviene spontaneamente ma deve essere catalizzato. Naturalmente l’energia deve venire da qualche parte. Gli esseri viventi che non sono autotrofi, quindi quelli incapaci di costruire spontaneamente zuccheri sfruttando gli elementi organici e l’energia solare, devono acquisire energia “rubando” molecole utili ad altri organismi. In pratica, divorando questi organismi per assimilare i prodotti già presenti nei loro tessuti. I processi anabolici sono possibili solo grazie all’esistenza di contro-processi, detti processi catabolici, che consistono nella distruzione mediata di zuccheri e altre molecole, le quali vengono “bruciate” assieme all’ossigeno, per ricavarne energia chimica. I mediatori catalitici di questo processo, ovviamente, sono ancora una volta le proteine. Anche gli amminoacidi essenziali, cioè quelli che non siamo in grado di sintetizzare da soli, vengono acquisiti soltanto denaturando e distruggendo le proteine dei tessuti degli esseri viventi da noi mangiati, e anche questo avviene ad opera di enzimi proteici specializzati.
E’ un circolo chiuso insomma: il catabolismo, l’insieme di tutti i processi che generano la formazione di molecole più semplici (ed energia chimica) a partire da molecole più complesse, è direttamente dipendente dall’esistenza delle giuste proteine nella cellula; ma le proteine nella cellula vengono sintetizzate anabolicamente, usando l’energia e gli amminoacidi acquisiti dalle precedenti reazioni cataboliche. Ognuno dei due cicli alimenta l’altro, in un cerchio senza fine di sintesi e distruzione mediato dalle proteine.
Fatte queste premesse, si può dire a buon diritto che chi controlla la sintesi proteica, controlla la vita.
E da chi provengono queste informazioni? Dal DNA.
Sembra tutto facile, giusto? I principi chiave sembrano esserci tutti. Ma queste sono conoscenze che erano già ben note negli anni ’60. Dobbiamo dedurne che oggi tutti i biologi molecolari sono diventati dei mangia-pane a tradimento?
No, invece i loro (magrissimi) stipendi se li guadagnano eccome.
Ora vediamo perché.

3) Il discorso che segue è dedicato specificamente alle cellule eucarioti umane; tenterò di darvi una prima infarinatura del concetto di “espressione genica”, partendo da basi molto pratiche.
In una cellula eucariote umana, la cui dimensione media si aggira fra 15 e i 25 micron (cioè millesimi di millimetro), il DNA diploide contenuto nel nucleo è la somma di 46 diverse molecole.
La forma di ognuna di queste molecole è in pratica quella di un filamento contorto; esse, se fossero distese una davanti all’altra per formare un unico filamento, sarebbero all’incirca 2 x 3,2 x 10^9 = 6.400.000.000 basi azotate consecutive. Che corrispondono a una lunghezza di oltre due metri.
Sono tutte contenute nel nucleo, una struttura di forma sferica o schiacciata che raggiunge i 5-10 micron di diametro.
Avete capito bene: una cellula possiede, in un nucleo largo al massimo 10 micron, due metri di molecola di DNA.
Considerato che un corpo umano adulto è composto mediamente da 60.000.000.000.000 (sessantamila miliardi) di cellule interagenti fra loro, se distendessimo tutto il nostro DNA potremmo tranquillamente farlo arrivare oltre i confini più remoti del sistema solare.
E non è solo una questione di dimensioni, ma anche di massa; si può dire, con ineccepibile correttezza, che se facessimo quel giochino che spesso si fa ai bambini – “il 65% del tuo corpo è composto da acqua, quindi potresti immaginare di essere pieno di acqua a partire dai piedi fino allo stomaco…” – beh, se lo facessimo parlando dei nostri composti chimici, allora una parte tutt’altro che trascurabile del nostro corpo (quasi un chilo) sarebbe “riempita” fisicamente di solo DNA.
Provate adesso ad immaginarvi le difficoltà di stoccaggio di questa macro-molecola, costituita da 46 enormi sub-unità (che sono i filamenti che poi durante la replicazione della cellula, si osserveranno sotto forma di cromosomi) nello spazio esiguo del nucleo di una cellula.
Avrete già capito che è ridicolo pensare di mantenerla dritta: sfonderebbe da tutte le parti. Dovrete piegarla, e dovrete farlo moltissime volte; centinaia di migliaia di volte.
Il problema è che dovrete piegarla a forza, perché il DNA usa, come collante fra le basi azotate, dei gruppi fosforo (quattro atomi di ossigeno ai lati, tenuti assieme da un atomo di fosforo centrale) e questo gruppo atomico è elettricamente carico, quindi tende a respingersi; pertanto il DNA tende spontaneamente a raddrizzarsi, e voi non potrete semplicemente piegarlo e lasciarlo lì: dovrete metterlo in ceppi, imprigionarlo, in modo che non si possa muovere.
Ma naturalmente, se vi limitate a metterlo in ceppi, sarà tutto perfettamente inutile: il DNA voi dovete poterlo srotolare e leggere, altrimenti che cosa ve ne fate?
Dovrà quindi esistere un sofisticato sistema che incatena molte parti di DNA, ma ne lascia libere alcune – soltanto quelle che servono – perché possano essere lette; e questo sistema dovrà essere eccezionalmente versatile, perché le parti di DNA che servono alla cellula non sono certamente sempre le stesse – altrimenti non sarebbe così lungo! In qualsiasi momento, si potrebbe aver bisogno di una parte che è immobilizzata; bisognerà che il sistema riconosca chimicamente la necessità di liberarla, che la liberi, che la trascriva, che mantenga lo status quo (evitando di liberare troppo DNA in una volta sola), che riconosca il momento in cui quel pezzo non serve più e lo rimetta in catene; e perché tutto questo abbia un senso, bisognerà tenere presente che il DNA è tutto fuorché una sequenza lineare di informazioni utili!
I geni costituiscono soltanto il 20-30% della lunghezza complessiva del nostro DNA, dal che si evince quanto sia sciocco sovrapporre il concetto di DNA umano a quello di genoma umano. Molte parti del DNA ad esempio non contengono informazioni, ma servono come siti di legame per rendere materialmente possibile l’inizio dell’attività degli enzimi di trascrizione, o degli enzimi responsabili della duplicazione semiconservativa. Ci sono molte di porzioni di DNA che milioni di anni fa erano geni, ma con l'evolversi della specie sono diventate inutili e, abbandonate a sé stesse, hanno perso ogni significato, diventando dei relitti evolutivi (i cosiddetti pseudogeni); altre porzioni invece sono fatte apposta per assecondare necessità meccaniche: non trasportano informazioni di sorta, ma i loro componenti sono particolarmente "malleabili" e servono per permette agli enzimi di aprire e srotolate quel tratto di doppia elica; esistono poi molte sequenze definite “di consenso” che devono potersi legare agli enzimi per “avvallare” la trascrizione di geni particolari. Del resto ci sono anche lunghe sequenze assolutamente prive di significato, interposte per rendere possibile che un determinato gene si trovi in un punto esatto del genoma, oppure altre poste in determinati punti per casualità, come degli errori di replicazione ancestrali che non furono mai corretti, o delle infezioni virali. Ci sono, infine, le distinzioni fondamentali da fare anche all’interno dei geni stessi, su cosa è utile e cosa no; ma di quest’ultimo aspetto, che è troppo importante per poter essere citato di sfuggita, ci preoccuperemo in un secondo momento.
Ora torniamo al ragionamento precedente. I meccanismi che presiedono all’espressione del genoma, sono ancora oggetto di studio e lo saranno per molti decenni. Molto si è scoperto, e molto resta ancora da scoprire.
Sappiamo che una grande quantità di geni trascrivono per proteine enzimatiche che hanno attività nel nucleo, con lo scopo di modulare l’azione degli altri enzimi trascrizionali e di conseguenza, la trascrizione del genoma stesso.
Ma quando dico “modulare”, forse non rendo abbastanza bene il concetto.
La modulazione è il cuore del concetto di espressione genica. Un gene non è né un’informazione lineare, né soprattutto un’entità che ha il potere di scegliere quando viene trascritta. Il DNA è “cieco”, perché privo della capacità di essere informato degli eventi ambientali esterni, e “inerte”, perché la trascrizione è un processo per lui del tutto passivo.
Ne consegue che non è mai dai geni in sé, che dipende la reazione di adattamento ambientale di una cellula; sono invece i sofisticati meccanismi a cascata che collegano le proteine recettrici della membrana cellulare agli enzimi trascrizionali all’interno del nucleo, che “informano” l'organismo delle necessità esterne; e quando parlo di informazione, mi riferisco a una questione di antagonismi meccanici.

4) In effetti, detta così questa cosa può essere poco intuitiva. Quindi ora abbandono per un attimo il discorso sul complesso genoma umano e faccio un esempio molto semplice, per rendere tutto più chiaro. Qualcuno di voi, se ha fatto un buon liceo scientifico, forse lo ha già trattato.
Nel nostro intestino, oltre al Bifidus tanto pubblicizzato dagli spot dell’Activia, vive anche un batterio chiamato Escherichia Coli. E’ un organismo procariote piuttosto semplice, che il nostro corpo tollera perché ha sviluppato con noi una piccola simbiosi: lui si nutre di lattosio, uno zucchero tipico del latte; lo digerisce e lo processa in galattosio, uno zucchero più semplice, ricavandoci una piccola quota di energia (sotto forma di un po' di glucosio), sufficiente per vivere. Noi possiamo quindi raccogliere il galattosio, che è più facilmente digeribile, e assorbirlo dai villi.
Sembra tutto idilliaco, ma l’E.Coli ha un problema: noi il latte lo beviamo, se gli va bene, due volte al giorno; quindi il lattosio arriva in pochi momenti della giornata, in modo discontinuo e con dei picchi piuttosto bruschi. E.Coli è in possesso di un gene che codifica per un enzima, detto beta-galattosidasi, che gli permette di processare il lattosio in galattosio; ma se questo gene fosse permanentemente trascritto, quantità enormi di energia sarebbero sprecate per produrre costantemente molecole di questa proteina, con futile scopo. Allora, E.Coli ha sviluppato un sistema di controllo: il gene che codifica per la beta-galattosidasi ha una sequenza a monte della striscia che codifica per la proteina; questa sequenza è detta “sequenza promotrice”, e serve a dare agli enzimi di trascrizione l’autorizzazione: essi possono agganciarsi per sintetizzare RNA da quel gene, soltanto se prima sono passati ad acquisire le informazioni di questa sequenza.
La sequenza promotrice, in condizioni di quiete, è coperta da una proteina. Questa proteina è un inibitore di trascrizione, che la rende inavvicinabile dagli enzimi di trascrizione; il gene pertanto non può essere trascritto.
Quando però arriva il latte nell’intestino, ecco che i recettori sulla membrana di E.Coli registrano un picco di lattosio; aprono i pori e iniziano a farlo entrare. Il lattosio penetra nella cellula, sconvolgendo l’omeostasi dei composti chimici al suo interno; e una molecola di lattosio finirà inevitabilmente per andarsi a trovare nella zona in cui c’è il gene della beta-galattosidasi (nei procarioti una cosa simile è più facile perché non c’è il filtro costituito dal nucleo della cellula. I procarioti del resto non hanno distretti interni delimitati da membrane. Potete immaginare un meccanismo analogo negli eucarioti, dove l’informazione viene portata dentro il nucleo da un segnale chimico specializzato).
A questo punto, la molecola di lattosio finisce per agganciarsi alla proteina inibitrice della trascrizione, quella che copriva la sequenza promotrice del gene; le due molecole, guarda caso, sono complementari, e non appena si legano, la forma dell’inibitore viene modificata, togliendogli aderenza dal DNA che prima ricopriva. A questo punto la sequenza di promozione è libera, e il primo enzima di trascrizione che passa in quel settore può iniziare ad esprimere il gene.
Viene quindi prodotto RNA messaggero codificante per la beta-galattosidasi, e questa proteina inizia nel giro di qualche minuto ad essere sintetizzata in massa da tutti i ribosomi; presto le sue molecole invadono il citoplasma della cellula di E.Coli e iniziano a processare il lattosio, riducendolo a galattosio e ricavandone energia chimica. Inevitabilmente aumenta la concentrazione di galattosio, ma diminuisce rapidamente quella di lattosio. Alla fine il gradiente di concentrazione del lattosio sarà così basso, che anche la molecola di lattosio che era legata all’inibitore di trascrizione arriverà a staccarsi e sarà processata; ma a quel punto l’inibitore riacquisterà la sua forma originale, tornerà a coprire la sequenza promotrice del gene e a bloccarne la trascrizione.
La beta-galattosidasi smetterà quindi di essere trascritta e sintetizzata. Il galattosio “di scarto” diffonderà in gran parte verso l’esterno, e tutto tornerà come era prima; l’omoestasi verrà ripristinata. Il glucosio utile ricavato dal processo magari permetterà ad E.Coli di fare qualcosa – per esempio riprodursi – o semplicemente di sopravvivere e aspettare, fino a che noi berremo la prossima tazza di latte.
Avverto che questo è un meccanismo di feedback negativo molto elementare; prende il nome di "operone lattosio di E. Coli" e per spiegarne il concetto l'ho a mia volta semplificato, visto che l'operone completo non include soltanto la beta-galattosidasi, ma è un gruppo di 3 geni che agiscono in modo cooperativo per riuscire a portare a termine la scissione del lattosio (due enzimi e una proteina "legante") la cui attività è sottoposta non soltanto al meccanismo lattosio-dipendente che abbiamo citato, ma anche ad altri analoghi fattori regolatori.
Del resto, anche se più o meno tutti i geni nel genoma di qualsiasi organismo hanno delle proprie sequenze promotrici e un comportamento di base molto simile, gli eucarioti (nel cui regno sono annoverati tutti gli organismi pluricellulari) hanno delle versioni di controllo dell’espressione genica di fronte alle quali questo sistema procariote sembra soltanto un gioco per bambini.
Comunque credo che renda bene l’idea, giusto?
Nessuno potrebbe disputare che il DNA, in questo caso rappresentato dal gene per la beta-galattosidasi, abbia avuto un ruolo chiave nel processo. Ma la sua funzione non era altri che quella di esistere; l’attività metabolica è all’origine di ogni cosa – l’acquisizione dell’informazione, la reazione mirata, il ripristino dell’omeostasi – e questi sono fenomeni sui quali il DNA non può esercitare alcun controllo diretto. Sono d’altronde fenomeni adattativi: non sarebbero mai successi se non fosse avvenuto il picco di lattosio nell’ambiente esterno. Ad esso è conseguita poi la reazione degli enzimi nucleari che, opportunamente stimolati, hanno “adattato” le informazioni geniche in loro possesso alla situazione corrente, competendo meccanicamente fra loro in modo tale da scegliere il gene giusto nel momento giusto.
Questo è uno dei motivi per cui qualsiasi forma di riduzionismo legata al DNA, sia da un punto di vista biologico che in campo filosofico, è del tutto fuorviante. In un individuo mono o pluricellulare, di qualsiasi regno sia, l’identità genetica è qualcosa di virtualmente unico (con rare eccezioni); è certamente basilare per la sua vita e contiene informazioni molto importanti su ciò che strutturalmente è; tuttavia, già a partire dalle singole cellule e soprattutto all’aumentare della complessità fisica degli organismi, il genoma è lungi dal rappresentare l’identità individuale di un essere vivente. Nei mammiferi superiori poi, culminando con l’uomo e la sua eccezionale evoluzione del cervello, lo sviluppo di facoltà complesse (come la mente umana) rende l’equivalenza fra la genetica individuale e la definizione di “persona” addirittura risibile.
[...]
Spero di non avervi annoiato, e di essere stato capace di arricchire la vostra comprensione dell’argomento.

Inbario
00mercoledì 5 settembre 2007 21:46
Re:
benimussoo, 05/09/2007 14.28:

Come dice qualcuno il DNA è nulla , nel senso che nel momento in cui viene distrutto l'embrione o lo spermatozoio , non significa uccidere nessuno perchè la vita non è ancora nata .. proviamo ad andare un attimo in fondo alla questione ??
cosa ne pensate [SM=x511438]




Il DNA di per sè non è un embrione ma parte dell'embrione,d'altra parte anche spermatozoo e ovulo contengono DNA ma non sono di per sè una vita concepita,lo divengono solo nella loro unione che genera l'embrione.Un embrione è già una vita alla partenza e deve avere tutti i diritti di ogni vita.
Justee
00giovedì 6 settembre 2007 16:52
scusatemi ma vorrei capire , è vero il dna è una specie di codice , però questo codice non può nascere dal nulla , è un modo ingegnoso di dare ordine ad un contenitore che deve avere delle caratteristiche , è perchè questo avvenga è tutto stabilito a priori
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