Eispherw / Induco nel Pater. Un problema teologico

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Teodoro Studita
00sabato 10 marzo 2007 18:31
Nella redazione matteana e lucana della Preghiera del Signore troviamo la domanda:

kai mh eisenenkhs hmas eis peirasmon (Mt 6,13, Lc 11,4)

Così anche in Didaché 8.2.

La Vgt rende com'è noto "et ne inducas nos in tentationem"

Il problema teologico sta proprio qui. In che senso diciamo al Padre "non indurci in tentazione" ? Può Dio "indurre" in tentazione? L'epistola di Giacomo, oltre al buon senso, sembra rispondere a questa domanda in maniera chiara:

Giacomo 1
13 Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. 14 Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; 15 poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand'è consumato, produce la morte.

È evidente che siamo di fronte ad un problema serio, giacché il senso ricercato dovrebbe essere piuttosto "non esporci alla tentazione". Vero è che in-duco latino è l'esatto calco di eis-pherw, ma "induco" italiano conserva le stesse caratteristiche semantiche?

Polymetis
00sabato 10 marzo 2007 20:36
Wla taalan l’nisyona…

Non dev’essere il tentativo di evitare contraddizioni a guidare una traduzione, perché vorrebbe dire postulare che nella Bibbia non ci sono contraddizioni, un assunto ascientifico. Anche perché cosa vuol dire contradditizione? C’è una contraddizione solo qualora i campi semantici di qualunque parola sia così limitati da poter dire che è di sicuro il contraddittorio di un'altra, ma giacché il campo semantico oscilla trovare delle predicazioni per un soggetto che espongano ad una sicura contraddizione è quasi impossibile. Hai infatti appropriatamente intitolato il post dicendo che è un problema di teologia e non filologia tout court. Si può pregare Dio di non tentarci? E Se fosse una domanda che presuppone già una risposta e dunque una richiesta del tipo “amami Signore!”? Mi spiego: il fatto che si sappia già che Dio farà qualcosa, non esclude il fatto che si possa chiederla comunque, come quando chiediamo a Dio di amarci e volerci bene, anche se sappiamo benissimo che teologicamente lo farebbe anche a prescindere dalla nostra richiesta. In questo modo, chiedendo a Dio di non tentarci, gli chiediamo solo di non afr sì che noi ci troviamo di fronte alla tentazione, magari guidandoci misteriosamente affinché non incappiamo in ciò che potrebbe tentarci. Una preghiera a Dio non perché non ci tenti, ma perché ci eviti di essere tentatati facendo sì che non ci imbattiamo in ciò che ci mette alla prova. Si può altresì dire che siccome per la mentalità semitica Dio può indurire il cuore dell’uomo, come nel caso del faraone, noi chiediamo a Dio renderci ciechi, perché Dio acceca chi vuol mandare in rovina, il che con una fenomenologia più evoluta è da noi espresso dicendo che è la nostra ostinazione a rovinarci, e che facciamo tutto da soli, scegliamo cioè di insistere anche quando sappiamo che finiremo per spaccarci il naso contro qualcosa. E’ normale che il pensiero antico chiamasse “dio” questa oscura parte della nostra anima che ci fa immergere sempre più nel vortice della distruzione, è quello che Socrate chiamava il daimon e Hölderlin l’elemento aorgico, l’indistinto dove non è ancora giunta la ratio con le sue divisioni, l’indifferenziato originario che oggi chiamavamo pazzia e che non a caso presso i greci era la “divina follia”. Chiediamo forse a Dio di non lottare con noi? Ma lasciamo la psicologia dinamica e torniamo a noi. Quel verbo vuol dire indurre, non c’è dubbio, ed è più per sensibilità che per grammatica che la nuova CEI ha deciso di renderlo con un “non ci abbandonare alla tentazione”, o almeno così mi pare. Credo che sia molto più proficuo chiedersi quale sia la parola aramaica pronunciata da Gesù. Tempo fa lessi un ridicolo libro pieno di filosofia orientale scritto da un noto ciarlatano New Age che si spaccia per un ministro cristiano, il dott. Rocco A. Errico, pur depurando il libro da “sentieri di armonizzazione”, energie interiori, e menate parapsicologiche varie, resta il fatto che costui l’aramaico lo sa veramente, e nel suo libro c’è un bel riassunto di ciò che si può leggere altrove ma che francamente non ho mai trovato con una simile sintesi, vi ripropongo dunque le sue riflessioni: stando alla Peschitta il verbo incriminato è ta-alan, che deriva dalla radice aramaica al, la quale ha varie accezioni. Come verbo , al significa “penetrare”, “attaccare”, “combattere”, “lottare” e “contendere”. Una ltro dei significati è “avere contatti”, Quando la radice al compare come preposizione, può significare “su”, “in”, “da”, “sopra”, “attraverso”, “oltre”, “accanto a” oppure “in cima a” . Come si può vedere, nel tradurre questa parola, sia come verbo che come preposizione, bisogna essere molto accorti. (il potenziale combinatorio è infinito)
In questa frase della preghiera, ta-alan significa “penetrare, entrare”. Quindi il verseto corretto si legge: “non lasciarci entrare in tentazione”. Gesù utilizzò la stessa parola quando disse ai suoi discepoli: “Destatevi e pregate, affinché possiate non cadere (entrare, ta-alon) in tentazione” (Mt 26.41) Qui, nel passaggio delle scritture, la forma verbale differisce da quella che appare nella preghiera. In questo verso è ta-alon, che significa “che possiate non entrare” al posti di ta-alan “non lasciarci entrare”
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