La beatificazione del "giudice ragazzino"

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Angela Castorelli
00domenica 27 dicembre 2020 11:25
Il riconoscimento del martirio di Rosario Livatino "in odium fidei"
Cinque giorni fa, la mattina dello scorso 22 dicembre, Papa Francesco ha ricevuto il cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, e ha autorizzato il riconoscimento del martirio di Rosario Livatino, ucciso "in odio alla fede". Come decise Benedetto XVI per don Pino Puglisi, il riconoscimento del martirio porta direttamente alla beatificazione, senza bisogno di un "miracolo per intercessione", ed è un altro segnale della Chiesa contro la mafia. Rosario Livatino aveva 37 anni quando i killer mafiosi della "Stidda" lo uccisero il 21 settembre 1990, e presto sarà il primo magistrato dichiarato beato dalla Chiesa (e più tardi il primo santo: a meno di considerare, prima degli Stati moderni, Tommaso Moro, che era stato Lord Cancelliere di Enrico VIII). Il cardinale Semeraro spiega al Corriere della Sera, in un bell'articolo apparso sul quotidiano di via Solferino lo scorso 23 dicembre, a firma di Gian Guido Vecchi: "Tra le tante virtù, c'è anzitutto il riconoscimento della santità quotidiana legata al compimento del proprio dovere. E poi, come in don Puglisi, parlare di martirio significa considerare la mafia come un fenomeno anticristiano. Nel processo si è citato Tommaso d'Aquino: il martirio è conseguenza dell'"odium fidei" ma anche di un odio contro la virtù della giustizia, legata alla disponibilità a dare la vita come testimone di Cristo". Francesco, del resto, lo aveva sillabato nella Piana di Sibari, il 21 giugno 2014, 21 anni dopo lo storico ed accorato e vibrante anatema ed invito alla conversione di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento: i mafiosi "che adorano il male" sono "scomunicati". L'anno scorso, il Papa aveva parlato di Livatino come di "un esempio non solo per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel diritto: per la coerenza tra la sua fede, il suo impegno di lavoro e l'attualità delle riflessioni". La beatificazione si potrebbe celebrare già in primavera. Per sostenere la causa sono state raccolte quattromila pagine di documenti e testimonianza, compresa quella di uno dei killer, Gaetano Puzzangaro, all'ergastolo. Anche uno dei quattro mandanti ha testimoniato che si decise di uccidere Livatino per la sua rettitudine di uomo giusto e legato alla fede. I mafiosi lo definivano con disprezzo "santocchio", bigotto, perchè frequentava la parrocchia di San Domenico, a Canicattì. Prima di entrare in Tribunale ad Agrigento, pregava nella chiesa di San Giuseppe. Nell'agenda di lavoro ritrovata dove fu ucciso aveva scritto "SDT": Sub tutela Dei, "sotto la protezione di Dio". Il suo primo giorno da magistrato, a 26 anni, aveva scritto: "Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l'educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige". L'ex procuratore Caselli ha ricordato a sua volta la sua frase più famosa: "Non importa essere credenti, importa soprattutto essere credibili". Il postulatore della causa di beatificazione, presso la Diocesi di Agrigento, è diventato sacerdote dopo che il magistrato con il suo stesso cognome era stato ucciso dalla mafia. "Una vocazione rafforzata", dice don Giuseppe Livatino, 55 anni, parroco ed appunto primo postulatore del processo di beatificazione all'interno della Diocesi di Agrigento, in un'intervista rilasciata, sempre il 22 dicembre, al Corriere della Sera: "Mi fu subito chiaro che la storia e il miracolo di Rosario Livatino non rispondevano al clichè del "giudice ragazzino" che va incontro alla morte senza sapere e capire. Livatino affronta il sacrificio supremo nella piena consapevolezza. Erano chiare le indiscrezioni che circolavano nell'estate del 1990. Pochi giorni prima del delitto, per un controllo ad Agrigento i suoi assassini furono fermati e rilasciati perchè non c'era nulla a carico. Lo braccavano. E lui sapeva. Nella sua agenda non ci sono indicazioni per i giorni successivi. Eppure aveva rinunciato alla scorta e aveva rinunciato, pur cosciente del rischio, anche all'auto blindata. Pensando agli altri: Non posso coinvolgere padri di famiglia nel mio destino. Del resto, se vogliono, possono comunque usare il tritolo". Don Giuseppe Livatino, da postulatore, ha esaltato, in particolare, due episodi: innanzitutto, nel momento estremo, la Fiesta speronata e crivellata di pallottole lungo la strada da Canicattì ad Agrigento, alle 8 e 30 di quel giorno di fine estate, ferito a una spalla, la fuga a perdifiato oltre il guardrail e giù tra le pietraie del vallone, la sua ultima frase, prima del colpo di grazia, guardando in faccia gli assassini che lo avevano inseguito: "Picciò, che cosa vi ho fatto?". Li richiama. Aziona l'arma del dialogo. Lascia un quesito che germoglia e lentamente porterà chi spara a pentirsi. E poi quando, dopo che, nel corso di un regolamento di conti, un boss mafioso viene colpito a morte, a un ufficiale dei carabineri tutto soddisfatto e gongolante accanto a quel corpo senza vita, Livatino dice: Di fronte alla morte chi ha fede, prega!chi non ce l'ha, tace!". Lo hanno sempre descritto, giustamente, come un giudice severo. Alla legge bisogna dare necessariamente un'anima, sosteneva. Spiegando che l'obiettivo della giustizia è redimere chi sbaglia e reinserirlo nella società civile. E così conclude la sua intervista al Corriere don Giuseppe Livatino: "Credo che la caratteristica che Livatino offrirebbe come modello agli altri magistrati sia il riserbo. Egli fu estremamente riservato e schivo a ogni palcoscenico. Non volle mai far parte di gruppi, associazioni o club-service. Pochissime le foto ritrovate. Non c'è una sua intervista in 12 anni da magistrato. Mai dalla sua bocca uscì una sola indiscrezione sulle indagini che andavano svolte nel riserbo cercando prove e riscontri". Requiescat in pace, nella comunione celeste degli Angeli, dei Beati e dei Santi, il "giudice ragazzino" (nella famosa espressione che era stata coniata dall'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, in riferimento alla categoria dei magistrati troppo giovani), a cui il regista Alessandro Di Robilant ha dedicato anche un film, nel 1994, in cui il magistrato Servo di Dio e beatificando è interpretato da Giulio Scarpati.
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