W il matrimonio islamico?

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)Mefisto(
00martedì 12 dicembre 2006 13:27
PROPOSTA DS
FAMIGLIA, LE REGOLE LE DETTERÀ LA SHARIA
STEFANIA ATZORI Con la nuova proposta di legge denominata “Norme sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi”, avanzata dai Ds, gli imam - definiti “ministro di culto” e le cui professioni spaziano dal macellaio al gestore di internet point - potranno celebrare matrimoni con rito musulmano validi anche per lo Stato italiano, suggellando l’unione senza l’obbligo di richiamare gli sposi al rispetto della parità tra uomo e donna.
Lo Stato, quindi, non solo legittimerà il matrimonio islamico con tutti gli annessi e connessi del caso (ripudio, poligamia, discriminazione di genere), ma riconoscerà, di fatto, il Diritto di famiglia islamico regolamentato dalla Shar’ia, proprio in questi giorni definita dal ministro Amato «frutto di culture arretrate».
Tale imprudente legge non solo determina un evidente atto di disparità dal momento che i nubendi di religione islamica non saranno vincolati da quei diritti e doveri... ...stipulati dalla Codice Civile (Art. 143, 144 e 147), ma penalizzerà le donne italiane che contrarranno matrimonio con musulmani, e, naturalmente, i loro figli. L’art. 147, infatti, recita: «Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli». Nel Diritto islamico, il padre ha un potere assoluto nei confronti dei figli che devono necessariamente professare la fede islamica anche quando nati da madre non musulmana. Una donna non islamica non avrà alcuna voce in capitolo per quanto riguarda l’educazione della prole - qualora cozzasse con i principi dell’islam - e può quindi accadere (e accade) che ad una figlia potrà essere imposto il velo, potrà essere preclusa un’istruzione per evitare situazioni di promiscuità, potrà essere costretta ad un matrimonio combinato anche se solo adolescente, dal momento che, per il diritto islamico, l’età minima per contrarre matrimonio è di 15/17 anni, in altri casi a pubertà raggiunta. Nonostante le varie limitazioni che nel corso degli anni sono state introdotte al matrimonio imposto (jabr), il capofamiglia può imporre un marito qualora si temesse la “cattiva condotta” da parte della ragazza. Hina, la giovane pachistana sgozzata dal padre, per intendersi, era un esempio di “cattiva condotta”. Per i deputati diessini «lo Stato italiano ha tutto da guadagnare dall’integrazione di chi si vuole integrare e tutto da perdere nell’alimentare una situazione “grigia” di non regolazione e di confusione in materia». Sembra scontato ribadire che il processo di integrazione non si basa sul cambiamento della Costituzione di un Paese per favorire una determinata etnia o religione, bensì sulla coscienza che le leggi del Paese ospitante vanno sempre e comunque rispettate piuttosto che accettate, e la certezza che tali leggi tutelino tutti gli individui a prescindere. In altre parole, la legge è uguale per tutti. Convinzione, questa, non condivisa dal diritto islamico. Eppure, leggendo la suddetta proposta di legge, una domanda sorge spontanea: quanti di questi “luminari” in materia legislativa conoscono almeno i rudimenti del diritto di famiglia islamico?
I casi riportati negli ultimi editoriali di Magdi Allam “Poligamia e violenza a Roma” e “La trappola della poligamia” - tralasciando le tragiche vicende accadute in questi mesi - sono solo una piccola (si fa per dire) testimonianza di quali potrebbero essere le devastanti conseguenze sulla società italiana qualora una legge di questo tipo venisse varata. Se la parità dei sessi è un principio fondamentale sancito dalla nostra Costituzione, per la legge islamica l’uomo ha il diritto di imporre la propria volontà alla donna, che sia essa musulmana o meno. Sui siti islamici italiani i diritti e i doveri dei coniugi si sintetizzano in due punti fondamentali: superiorità dell’uomo e obbedienza della donna. Scrive un convertito italiano su Huda.it: «L’obbedienza nelle faccende generali della famiglia è un dovere di tutti i suoi membri nei confronti del capofamiglia, che è il marito. Il Profeta menzionò come dovere della donna, quello di obbedire al marito, come riportato in molti ahadith sahih (detti autentici, ndr). L’obbedienza si riferisce soprattutto al non uscire di casa senza il permesso del marito e al non ricevere nessuno che a lui non piace che entri a casa sua. La moglie deve sempre essere pronta ad offrire al proprio marito il piacere sessuale quando e come a lui piaccia».
«Alla moglie di un musulmano», afferma invece UmmUsama, una convertita italiana, «conviene sapere che, nei confronti di suo marito, è una specie di schiava. Deve porre i diritti del marito davanti ai propri, così come i diritti dei suoi parenti stretti. Deve essere decente, umile, obbediente; deve mantenere il silenzio quando lui parla, alzarsi quando lui rientra a casa, evitare tutto ciò che potrebbe irritarlo, accompagnarlo fino alla porta quando esce, domandargli se la desidera prima di andare a dormire e infine accontentarsi del poco che lui le offre».
Un altro convertito italiano, membro della nota organizzazione islamica Ucoii, scrive: «Nell’Islam, l’uomo musulmano può sposare una donna non musulmana ma una donna musulmana non può sposare un uomo non musulmano. Il musulmano considera le religioni ebraica e cristiana immature rispetto all’Islam e in definitiva “inferiori, imperfette, pericolose per il destino eterno”. L’uomo musulmano può sposare una non musulmana perché “garantisce” anche ad essa la maturità di fede religiosa: secondo l’Islam in una famiglia è sempre l’uomo che rappresenta la guida religiosa e sociale della moglie e dei figli».
Il matrimonio islamico è un contratto di diritto privato che si effettua alla presenza di un imam e di due testimoni musulmani, dove vengono decretati diritti e doveri secondo l’insegnamento del Corano e degli ahadith; la donna non può contrarre matrimonio senza il consenso del suo tutore legale (wali) e la presenza della stessa, durante la cerimonia, non è necessaria in quanto il matrimonio viene stipulato dallo sposo e dal padre della sposa.
Ali Matteo Scalabrin e Rachida Razzouk su IslamItalia.it firmano un articolo sul matrimonio islamico, dove si può leggere: «Esistono essenzialmente due tipi di matrimoni nell’Islam. Il Nikah, ovvero il contratto di matrimonio classico a tempo indeterminato, che, legalmente rientra nella categoria delle “vendite”(bay’). (Ha lo stesso valore legale di un contratto di compra/vendita ma non si stipula una compra/vendita). Il Mut’a, ovvero il contratto di matrimonio a tempo determinato (rinnovabile) che rientra nella categoria degli “affitti o locazioni” (ijara) che ne regolamenta solo l’uso (è una pratica ormai molto poco usata nell’Islam moderno, vige ancora tra gli sciiti duodecimani e nel mondo sunnita è stata abolita)».
In realtà, il contratto di matrimonio a tempo determinato è pratica molto in voga nelle comunità islamiche. L’ambiguo articolo 12 della “Bozza d’intesa tra lo Stato e la confessione islamica” redatta dall’Ucoii recita: «Resta ferma la facoltà di celebrare e sciogliere matrimoni religiosi senza alcun effetto o rilevanza civile secondo la legge e la tradizione islamica». In parole povere, la proposta di legge legittimerà il ripudio, la poligamia, il dominio dell’uomo sulla donna, il matrimonio a tempo determinato (Mut’a), senza che tali pratiche abbiano «alcun effetto o rilevanza civile». Insomma, la sharia in casa nostra.

[Data pubblicazione: 12/12/2006]

www.lapadania.com/PadaniaOnLine/Articolo.aspx?pDesc=70447,1,1

Viviana.30
00martedì 22 maggio 2007 20:17
Statistiche
Per anni annunciato, il traguardo sarebbe stato ora raggiunto. I musulmani sostengono di avere superato i cattolici: sarebbero oltre un miliardo e trecento milioni, contro un miliardo e centoquindici milioni di fedeli di Roma. Alla domanda se queste cifre siano vere si può rispondere in tre modi diversi.

Anzitutto, è arbitrario paragonare i musulmani ai cattolici. Infatti sia l’islam sia il cristianesimo sono generi, al cui interno convivono specie diverse. Tra i musulmani, almeno sciiti e sunniti sono altrettanto diversi tra loro di cattolici, ortodossi e protestanti; le scuole sunnite più rigorose non considerano gli sciiti, a rigore, neppure musulmani. Pertanto il paragone proposto da grandi statistici come David Barrett non è, normalmente, fra i musulmani e i cattolici, ma o fra l'islam sunnita e il cattolicesimo (un miliardo di fedeli contro un miliardo e cento milioni), oppure fra l'islam e tutto il cristianesimo: quest’ultimo, sommando ai cattolici gli ortodossi e i protestanti, sfiora la cifra di un miliardo e settecento milioni di persone, da cui l’islam è ancora lontano.

In secondo luogo, come ha già risposto qualche esperto cattolico, si diventa cristiani con il battesimo e il numero di battesimi è misurabile con una certa precisione. L’islam invece ritiene che sia musulmano chiunque sia nato in un Paese a maggioranza islamica e non appartenga esplicitamente a una minoranza religiosa, le cui cifre tra l'altro sono spesso sottostimate per motivi politici. Le cifre fornite per l’islam rischiano quindi di comprendere molte persone che vivono nei Paesi musulmani ma di fatto non hanno alcun contatto con la religione islamica.

Il terzo aspetto - forse il più interessante - chiama in causa le varie dimensioni dell'esperienza religiosa. I sociologi di lingua inglese parlano delle tre B: believing (credere), belonging (appartenere) e behaving (comportarsi). Le statistiche di cui si parla in questo caso non riguardano né le credenze né i comportamenti - non si chiedono cioè «in che cosa» crede chi dichiara di seguire una religione, né se si comporta in pratica da buon cattolico o da buon musulmano - ma le appartenenze. Tuttavia, le appartenenze possono essere misurate in modi diversi. Nel cattolicesimo c'è una cerchia più ampia di battezzati e una più ristretta di praticanti, cioè di persone - secondo un parametro diffuso anche se non unanime - che dichiarano di andare a messa almeno due volte al mese. In Italia, per esempio, oltre il novanta per cento della popolazione è battezzato, mentre, utilizzando il criterio citato, le cifre dei praticanti oscillano dal trenta al quaranta per cento. Dei musulmani che vivono in Italia sappiamo che meno del dieci per cento va in moschea con qualche regolarità. Ma, in assenza di un precetto settimanale simile all'obbligo cattolico della messa, la frequenza in moschea non può essere l'unico criterio per stabilire quanti musulmani sono praticanti. La preghiera quotidiana e il digiuno del Ramadan sono altrettanto, se non più importanti. Non è impossibile che nel mondo ci siano più musulmani che cattolici - anche se non più musulmani che cristiani in genere - «praticanti», ma la raccolta di statistiche sulla pratica musulmana è difficile e i criteri controversi.

Parlare di sorpasso appare dunque prematuro e propagandistico. Anche se in molte zone del mondo l'islam ha dalla sua la forza della demografia e delle nascite, e - con tutti i loro limiti - le statistiche sono le benvenute se sono occasione per cominciare a preoccuparsi.


Allora dalle notizie che si leggono qui sembra che l'islam abbia superato i fedeli della Chiesa Cattolica
(Upuaut)
00martedì 22 maggio 2007 20:37
Parliamoci chiaro: l'Italia purtroppo non è mai stato un paese completamente laico, e il concordato fra Stato e Chies Cattolica lo dimostra.
Se si fanno accordi col cattolicesimo, non vedo perchè non si dovrebbero fare con l'Islam.

Se non si vuol la Sharia in casa nostra, molto semplicemente, si deve ribadire una volta per tutte la totale e completa LACITA' (ovvero NEUTRALITA') dello Stato Italiano nei confronti delle ideologie religiose (tutte!).
Che poi è quanto desidero anch'io...

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