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Domanda-Aramaico..

Ultimo Aggiornamento: 23/02/2008 15:20
26/07/2005 11:14
 
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Caro Tamburino,

In effetti Roth non è una grande autorità, ma siccome lo avevi citato tu non volevo demolirlo con attacchi ad personam [SM=g27988] per questo che avevo inteso quel "chi è?" come una piccola dimenticanza.

D'altronde a me non interessa chi parla ma piuttosto cosa dice, ci sono anche fior di biblisti che dicono delle emerite stupidaggini!

Mi pare però che sorvoli un po' troppo grossolanamente sulle testimonianze rabbiniche


Non sto sorvolando, ma devo dirti che le trovo poco probanti, per diverse ragioni. La prima è che come d'altronde riconosce lo stesso Dodd si tratta di testimonianze troppo tarde per stabilire un rapporto tra il rabbismo giudaico e il vangelo di Giovanni, per esempio chiude il paragrafo sul nome di Dio con questa osservazione: "molto di quanto ho detto sembrerà un pò una speculativo, manca inoltre qualche anello della catena dimostrativa"

Dodd infatti usa spesso materiale di epoca più tarda all'epoca che lui considera importante per la formazione del Vangelo di Giovanni (cioè dal 70 al 135) e quando lo fa si accontenta di considerare il giudaismo nel suo insieme benchè quello di Gesù è di na generazione anteriore al 70 e quello di Giovanni di una generazione posteriore, ed in mezzo abbiamo l'evento più catastrofico nella storia del giudaismo che ne cambiò radicalmente il volto.

Non voglio certo sminuire il lavoro di Dodd ma credo che si debbano anche valutarne i limiti.

Per entrare nel particolare mi pare che in Giuda ben Ilai (130-160 dC) l'espressione ‘ani wehu, Io e Lui (che indicava l’unione intima o quasi identificazione di Dio con Israele) non indichi che 'ani hu era considerato un nome divino, al massimo qui YHWH era identificato con "Lui". Che si possa pensare ad una intima relazione tra Israele e Lui può essere accettabile nella logica ebraica, ma parlare di "identificazione" mi pare francamente un pò una forzatura di Dodd.

Le altre due testimonianze mi sembrano francamente ininfluenti (per altro quella di Abbahu è troppo tarda, del III secolo) in quanto anche qui non vedo un uso particolare di 'ani hu usato semplicemente nel suo senso grammaticale di "io stesso".

Più credibile potrebbe sembrare la citazione di Pinkas ben Jair (130-160 d.C.) di cui però dobbiamo chiederci che peso potesse avere la sua opinione sulle parole di Cristo e su Giovanni vissuti diverse generazioni prima (e tra Cristo e ben Jair c'è il 70).

La sua traduzione è chiaramente una interpretazione (infatti traduce anche in modo errato ki) di quel versetto particolare non risulta infatti, a quanto dice Dodd, che egli mantenga 'ani hu negli altri versetti di Isaia in cui compare questa espressione, per cui non mi pare che possa essere usato come argomento per sostenere che 'ani hu era considerato di per sè un nome divino visto che in altri casi è reso normalmente secondo la grammatica. Mi pare davvero un pò poco per stabilire con una certa sicurezza che per il tutto il giudaismo del 1° secolo fosse comune identificare YHWH con 'ani hu. A mio parere non ci sono gli estremi per farlo. E ancora si dovrebbe stabilire un rapporto diretto tra il rabbinismo giudsismo e il vangelo di Giovanni, operazione ancora tutta da fare.

E' vero che 'Ani hu è tradotto dalla LXX con ego eimi che ci ricorda l'espressione Giovanni ma come altro doveva essere tradotto? Grammaticalmente 'ani indica il pronome personale io mentre hu non è certo interpretato dalla LXX come un nome divino ma semplicemente come copula. Mi pare che la LXX non possa indurre ad alcuna speculazione teologica di 'ani hu che è tradotto semplicemente secondo la grammatica "io sono". E' difficile vedere 'ani hu come qualcosa di più di una autoidentificazione (vedi anche 1 Cronache 21:17 dove 'ani hu è ugualmente tradotto con ego eimi dalla LXX). Il problema è: leggendo l'espressione greca "ego eimi" chi l'avrebbero collegata con il nome divino? Non i padri della chiesa che pur conoscevano bene il greco e le tradizioni apostoliche, alcuni conobbero anche Giovanni.

Per altro nella stragrande maggioranza dei casi ego eimi traduce semplicemente il pronome 'ani, per cui diventa difficile stabilire dal testo greco se Gesù (ammesso che parlasse ebraico) pronunciasse la frase nominale 'ani hu o semplicemente 'ani (oppure anokhi).

Insomma, senza essere tassativi, mi pare solo che tutto questo sia troppo speculativo caro Tamburino, la mia impressione è che in una frase leggibilissima senza troppe complicazioni si voglia a tutti i costi far entrare la stretta calzamaglia del trinitarismo.

E' vero invece che le testimonianze patristiche sono deboli


Potresti postare quelle che ti sembrano più interessanti? Forse ne ricaviamo qualcosa di interesante. Per altro l'epistola di Ignazio ai Tarsiani non è ritenuta autentica.

Spero che dopo questo non mi trovi in pieno Tzunami... non ti rivelerò mai la data della mia partenza! [SM=g27988]

Ti saluto!



26/07/2005 11:54
 
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Non sto sorvolando, ma devo dirti che le trovo poco probanti, per diverse ragioni. La prima è che come d'altronde riconosce lo stesso Dodd si tratta di testimonianze troppo tarde per stabilire un rapporto tra il rabbismo giudaico e il vangelo di Giovanni, per esempio chiude il paragrafo sul nome di Dio con questa osservazione: "molto di quanto ho detto sembrerà un pò una speculativo, manca inoltre qualche anello della catena dimostrativa"

Dodd infatti usa spesso materiale di epoca più tarda all'epoca che lui considera importante per la formazione del Vangelo di Giovanni (cioè dal 70 al 135) e quando lo fa si accontenta di considerare il giudaismo nel suo insieme benchè quello di Gesù è di na generazione anteriore al 70 e quello di Giovanni di una generazione posteriore, ed in mezzo abbiamo l'evento più catastrofico nella storia del giudaismo che ne cambiò radicalmente il volto.

Non voglio certo sminuire il lavoro di Dodd ma credo che si debbano anche valutarne i limiti.



Ecco, mi hai indisposto, soprattutto perchè provocandomi mi fai trasgredire al mio fioretto.

Limiti che nessuno nasconde ...

Per la verità Dodd chiude il capitolo dicendo (TU HAI LE VERSIONE IN INGLESE!!!!)

Qualcuno potrebbe avere l'impressione che quanto abbiamo si qui detto sia, almeno in parte, frutto di congetture arbitrarie e che nella nostra argomentazione manchi qualche elemento.
Tuttavia, penso che si debba almeno ammettere la possibilità che una delle idee più tipiche del quarto Vangelo - e supposta comunemente come estranea al giudaismo entro il quale sorse il cristianesimo -, si trovi invece radicata nel pensiero giudaico. In particolare penso che i rabbini ebrei furono indotti dalle calamità nazionali, che colpirono Israele dal 70 al 135 dopo Cristo, a riflettere sull'insegnamento profetico riguardate i rapporti tra Dio e il suo popolo.

Almeno ammettere la possibilità ... cosa che tu non fai. Chi era qui quello dogmatico? [SM=g27988]

Inoltre mi piacerebbe che lo stesso rigore sulla validità di prove "tardive" fosse allora applicata anche quando si parla di canone alessandrino o canone palestinese ... [SM=g27989]

Quest'ultima cosa l'ho detta solo per provocarti! Tu mi stuzzichi! Comunque non è necessario che mi sposti fisicamente: è sufficiente che fissi intensamente un mappamondo. E prova ad immaginare ove si è in quest'ora posato il mio gentil sguardo???[SM=g27993]



26/07/2005 13:54
 
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Caro Tamburino,


Almeno ammettere la possibilità ... cosa che tu non fai. Chi era qui quello dogmatico?


Non è che non ammetto questa possibilità, il fatto è che comunque, anche ammettendo una possibile influenza del rabbinismo giudaico nel vangelo di Giovanni, ipotesi di Dodd appunto ma non condivisa dalla maggioranza di studiosi, non vedo davvero le prove che il giudaismo del 1° secolo indentificasse 'ani hu con il nome divino e tanto meno che con il greco ego eimi si intendesse un ipotetico "io sono Lui" come autoindentificazine divina. Tutto, se devo essere sincero, mi pare davvero troppo speculativo.

Con questo non penso di essere dogmatico, non voglio difendere alcun dogma, anzi proprio al contrario vorrei tornare al testo. Io sono il primo a sostenere che ci sono forti influenze giudaiche nel vamgelo di Giovanni, ma lo vedo più come un ricorso alle scritture che alle interpretazioni rabbiniche delle stesse. Comunque un certo modo di procedere nelle discussioni di Gesù rispecchi il metodo rabbinico, questo si deve ammetterlo, ma non mi pare che Gesù ne condividesse i contenuti, questa almeno è la mia impressione.

Ecco, mi hai indisposto, soprattutto perchè provocandomi mi fai trasgredire al mio fioretto.


E tu al mio... avevo fatto giurin giuretto che su ego eimi me ne sarei stato calmo per un pò [SM=g27988] almeno fin dopo le meritate vacanze!

Per la verità Dodd chiude il capitolo dicendo


Non è che la versione italiana è on-line???? dimmi di si! [SM=g27990]

Inoltre mi piacerebbe che lo stesso rigore sulla validità di prove "tardive" fosse allora applicata anche quando si parla di canone alessandrino o canone palestinese ...


Ahi... ahi... qui rischiamo di infognarci per almeno altri due o tre mesi, per ora faccio finta di non aver letto niente! [SM=g27989]


Ciao [SM=x511460]




26/07/2005 14:02
 
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Re:

Non è che la versione italiana è on-line???? dimmi di si! [SM=g27990]



No, io viaggio con il TOMO nella mia cartella ... e lo faccio solo per TE! [SM=g27998] Che romantico ...
26/07/2005 14:11
 
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più come un ricorso alle scritture



Quindi ... hai anche quello di Dodd sulle "formule di citazione"? [SM=g27991]

Lo vuoi????
30/07/2005 17:32
 
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Per esempio scannerizzarli tutti e due? [SM=g27990] Magari averli... io vado avanti a prestiti, ma gli amici ormai mi evitano quando mi vedono da lontano!
23/08/2005 11:32
 
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Re:

Inoltre, per pensare alla validità di questa ipotesi, ci sarebbe anche da presupporre che Cristo parlasse aramaico e citasse dalla versione in aramaico di Esodo ovvero che il vangelo di Giovanni fosse stato originariamente redatto in aramaico, ma entrambe queste tesi sono poco attendibili, per esempio Flusser ritiene che al tempo di Gesù in Giudea fosse parlato non l'aramaico ma l'ebraico e ancora più dubbia e la tesi che il vangelo di Giovanni fosse stato scritto originariamente in aramaico e poi tradotto in greco.



Visto che sei tornato e dato che fra due giorni parto io (tiè!) allora posso postare quello che ho tenuto in caldo in tuo onore. Aspetta, aspetta ... uh ... eccolo qui il "piccolino". Che bello!

Ovviamente le premesse di questo mio ultimo intervento estivo (anche se data la temperatura, a Milano l'estate è già finita almeno da dieci giorni) sono sparse qua e là (ma tanto SO che a quest'ora le avrai già intercettate).

In sostanza il punto della questione è: possono le testimonianze rabbiniche gettare luce sul vangelo di Giovanni?
23/08/2005 11:38
 
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I metodi dell'esegesi rabbinica, in genere sconcertanti per il profano ...
... sono spesso lo strumento che consente l’espressione di una vera teologia. È ciò che illustrano due esempi tratti dai midrashim sull’Esodo.

Il primo è tratto dai commenti sull’incontro di Ietro con Mosè nel deserto del Sinai (Es 18:1-12).

[1] Ietro, sacerdote di Madian, suocero di Mosè, venne a sapere quanto Dio aveva operato per Mosè e per Israele, suo popolo, come il Signore aveva fatto uscire Israele dall'Egitto.
[2] Allora Ietro prese con sé Zippora, moglie di Mosè, che prima egli aveva rimandata,
[3] e insieme i due figli di lei, uno dei quali si chiamava Gherson, perché egli aveva detto: "Sono un emigrato in terra straniera",
[4] e l'altro si chiamava Eliezer, perché "Il Dio di mio padre è venuto in mio aiuto e mi ha liberato dalla spada del faraone".
[5] Ietro dunque, suocero di Mosè, con i figli e la moglie di lui venne da Mosè nel deserto, dove era accampato, presso la montagna di Dio.
[6] Egli fece dire a Mosè: "Sono io, Ietro, tuo suocero, che vengo da te con tua moglie e i suoi due figli!".
[7] Mosè andò incontro al suocero, si prostrò davanti a lui e lo baciò; poi si informarono l'uno della salute dell'altro ed entrarono sotto la tenda.
[8] Mosè raccontò al suocero quanto il Signore aveva fatto al faraone e agli Egiziani per Israele, tutte le difficoltà loro capitate durante il viaggio, dalle quali il Signore li aveva liberati.
[9] Ietro gioì di tutti i benefici che il Signore aveva fatti a Israele, quando lo aveva liberato dalla mano degli Egiziani.
[10] Disse Ietro: "Benedetto sia il Signore, che vi ha liberati dalla mano degli Egiziani e dalla mano del faraone: egli ha strappato questo popolo dalla mano dell'Egitto!
[11] Ora io so che il Signore è più grande di tutti gli dei, poiché egli ha operato contro gli Egiziani con quelle stesse cose di cui essi si vantavano".
[12] Poi Ietro, suocero di Mosè, offrì un olocausto e sacrifici a Dio. Vennero Aronne e tutti gli anziani d'Israele e fecero un banchetto con il suocero di Mosè davanti a Dio.

Riassumiamo brevemente il racconto biblico.

Ietro, madianita, suocero di Mosè, accompagnato dalla figlia Zippora e dai suoi due nipoti, si reca a trovare il genero nel deserto del Sinai, dove è accampato il popolo di Israele.
Riprendendo gli elementi del racconto, la tradizione rabbinica vi ha visto le tappe dell’accesso del pagano alla fede e della sua aggregazione al popolo di Dio: Ietro, descritto come sacerdote pagano all’inizio del capitolo (v. 1) lascia Madian per raggiungere Israele nel deserto, vicino alla montagna di Dio (v. 5); dopo aver ascoltato dalla bocca di Mosè il racconto delle grandi opere di Dio (v. 9), benedice Dio (v. 10), fa una professione di fede (v. 11), offre un olocausto e sacrifici e partecipa a un banchetto di comunione (v. 12), diventando così il tipo del prosèlito, secondo MRI Ietro ritorna al suo paese per farvi a sua volta dei prosèliti.

Ci soffermeremo in particolare sui commenti al v. 6. Dal punto di vista grammaticale, il testo non presenta alcuna particolare difficoltà, ma contiene un’incoerenza che ha attirato l’attenzione dei commentatori antichi. Il testo recita:
«Egli disse a Mosè: io, Ietro, tuo suocero, vengo da te, con tua moglie e i suoi due figli con lei». La difficoltà sta nel fatto che Ietro si rivolge a Mosè per annunciargli che viene; d’altra parte, può parlargli solo se si trova alla sua presenza; e in questo caso non ha bisogno di annunciargli la sua venuta, che peraltro è già stata segnalata nel versetto precedente.
[Gli esegeti moderni, che si scontrano con la stessa difficoltà, la risolvono parafrasando il testo e traducendo: «Egli fece dire a Mosè» o «Si disse a Mosè». Certe traduzioni (per esempio la TOB), fanno dire al testo che Ietro si è messo in viaggio al v. 5 e che si fa annunciare a Mosè al v. 6. È interessante notare, al riguardo, che gli esegeti moderni incontrano gli stessi problemi di quelli antichi e che le cosiddette traduzioni scientifiche non sono sempre prive di tendenze e procedimenti più o meno targumici].
Del resto solo al v. 7 Mosè esce a incontrare il suocero. Per risolvere questa difficoltà, la Mekilta de-Rabbi Ishmael propone tre commenti successivi. I pirmi due sono molto simili alle parafrasi moderne:

Rabbi Yehoshua dice: «Glielo scrisse in una lettera». Rabbi Eleazar di Modim dice: «Glielo annunciò attraverso un messaggero e gli disse: “Fallo per riguardo a me; e se non lo fai per riguardo a me, fallo per riguardo a tua moglie; e se no, fallo per riguardo ai tuoi figli”»

Il primo commento interpreta molto liberamente il verbo dire, perché Ietro, in realtà, annuncia la sua venuta per iscritto. Il secondo che fa intervenire un messaggero, rende conto del carattere orale del messaggio, spiegando al tempo stesso la ripetizione della menzione della moglie e dei figli, già enunciata ai vv. 2 e 3: quest’elencazione viene interpretata come una captatio benevolentiae nel caso in cui Mosè si rifiutasse di ricevere il suocere; essa conferisce, inoltre, un contenuto al dialogo che si instaura fra il messaggero e Mosè.

La terza interpretazione è assolutamente originale rispetto alle altre due: essa viene valorizzata attraverso la sua collocazione al terzo posto sia mediante gli sviluppi di cui è oggetto. Per renderla comprensibile, dobbiamo anzitutto tradurre il più letteralmente possibile il versetto biblico:

«Disse [wayyomer, il verbo può avere un soggetto esplicitamente indicato o può contenere implicitamente il soggetto come ad esempio il latino dixit, che può significare ‘egli disse’ se la frase non comporta altro soggetto] a Mosè io [‘ani] Ietro tuo suocere venente a te come la tua moglie e i suoi due figli con lei.

Il midrash fa del pronome “io” [‘ani] il soggetto del verbo ‘disse’, come se questo io fosse un nome proprio, e interpreta la frase in questo modo: “IO disse a Mosè: tuo suocero Ietro viene da te ...”.

Il seguito del testo precisa che questo IO altri non è che il Creatore:

“IO, colui che disse e il mondo fu (= formula rabbinica per indicare Dio senza nominarlo, Tg N Es 3:14), io sono colui che avvicina e non colui che allontana, come è detto: “Non sono forse IO, un Dio che avvicina, oracolo del Signore, e non un Dio che allontana?” (Ger 23:23). Sono IO che ho fatto avvicinare Ietro, non l’ho allontanato. E tu, quando qualcuno verrà da te per convertirsi – e se viene solo per i Cieli (= cioè se le motivazioni sono pure) – anche tu rendilo vicino e non allontanarlo”.

Perciò è Dio che ha ispirato l’iniziativa di Ietro e che annuncia personalmente a Mosè la sua venuta.

L’utilizzazione della citazione di Geremia richiede una spiegazione. Il senso ovvio del testo biblico è il seguente: “Non sono io [‘ani] Dio che da vicino [miqqarov], oracolo del Signore, e non sono io Dio da lontano [merahoq]?”. Il midrash gioca sull’ortografia dei termini miqqarov e merahoq i quali, non essendo vocalizzati nel testo biblico, possono essere letti meqarev e meraheq. L’espressione di Geremia viene quindi interpretata in questo modo: “Non sono forse io un Dio avvicinante [meqarev] e non un Dio allontanante [meraheq]?” o più esattamente “ IO [‘ani] non è forse un Dio che avvicina e non un Dio che allontana?”.

La lezione che deriva da questa terza intepretazione è chiara: è Dio stesso all’origine dell’iniziativa del pagano e del suo desiderio di associarsi con il popolo di Dio; Mosè non ha l’autorità di opporvisi. In questo commento il pronome IO viene interpretato, con l’ausilio di un versetto di Geremia, come designazione del Dio che avvicina.

Il secondo esempio è tratto da un midrash sulla scena del roveto ardente (Es R 3,4 su Es 3:11). Quando Dio gli ordina di recarsi dal faraone, Mosè chiede “Chi sono io?”. In ebraico, la domanda è alla lettera: “Chi io?”. Anche in questo caso il midrash intepreta questo “io” come un nome proprio e sviluppa la domanda di Mosè con una parabola:

“Mosè disse ...: chi io?”. Rabbi Yehoshua ben Levi dice: “Avviene come di un re che diede la propria figlia in matrimonio e decise di donarle una provincia e una dama di compagnia di nobili natali, ma le diede di fatto una schiava nera. Il genero gli disse; “Non avevi deciso di darmi una dama di compagnia di nobili natali?”. Allo stesso modo, Mosè disse al Santo, benedetto egli sia: “Signore dei mondi, quando Giacobbe scese in Egitto, non gli dicesti: “IO [‘anokhi] scenderò insieme a te ... e IO [‘anokhi] ti farò risalire” (Gn 46:4)? E ora tu mi dici “Va’, io ti mando dal faraone!”.

Mosè rimproverava quindi a Dio di far mantenere i suoi impegni da altri: aveva promesso a Giacobbe di scendere insieme a lui in Egitto e di farlo risalire. Egli è sceso fin nel roveto ardente, ma ora vuole far fare a Mosè, al suo posto, l’ultima tappa della discesa, dal Sinai al faraone. È ciò che illustra la parabola: se è Mosè a “scendere” in Egitto e non Dio stesso, Giacobbe potrà rimproverare a Dio di non mantenere le sue promesse, come il genero del re può lamentarsi di aver ricevuto una schiava al posto della donna libera che era stata promessa alla sua sposa. In quest’argomentazione, il pronome “io” – qui nella sua forma enfatica “’anokhi” – viene considerato un nome proprio. Secondo il midrash, ponendo a Dio la domanda “chi io?”, Mosè non chiede “chi sono io?” ma “chi, di noi due, è IO?, chi di noi due si chiama IO?”.

È ciò che afferma esplicitamente una variante attestata in vari manoscritti:

Io non sono questo IO a proposito del quale tu gli hai detto “IO ti farò risalire”.

Mosè sarebbe IO? Aronne sarebbe IO?

Il seguito del midrash sviluppa quest’interpretazione: IO è il nome di Dio che salva; è in forza del suo IO che Dio reca salvezza. Questo commento viene collegato all’espressione “Ecco il segno che IO ti ho mandato” (Es 3:12).

Cosa significa il fatto che gli disse: “... che IO ti ho mandato?” I nostri maestri hanno detto: “Era il segno della prima redenzione: essi sono scesi in Egitto grazie a IO, che è detto “IO scenderò con te in Egitto e IO ti farò risalire” (Gn 46:4); e [sarà] il segno della redenzione finale: grazie a IO [saranno] guariti e saranno riscattati, come è detto “Ecco che IO vi invio Elia il profeta” (Ml 3:33).

Ricorrendo al gezera shava (ragionamento per analogia), il midrash accosta gli uni agli altri testi biblici nei quali compare il pronome io. In ciascuno di questi testi, questo pronome viene associato alla redenzione. Perciò si conclude che l’IO è legato all’intervento redentore di Dio o che Dio riscatta mediante il suo ‘anokhi, il suo IO.

Leggendo questa nota, il lettore si chiederà inevitabilmente a quando risalgono queste tradizioni e se siano pertinenti per la lettura del Nuovo Testamento. E qui dobbiamo fare un taglia e cuci di vari 3D sparsi ora qua ed ora là [SM=g27988] Devo fare tutto io???
23/08/2005 11:46
 
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Dimenticavo: ovviamente tutto 'sto papirozzo non è farina del mio sacco ma è tratto da
Michel Remaud, Vangelo e tradizione rabbinica, EDB, 2005.
23/08/2005 16:24
 
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Lo conoscevo giàa, lo conoscevo giàa [SM=g27988]

Non l'ho citato perchè cita un testo rabbinico medievale che non saprei quanto possa essere considerato valido per capire l'interpretazione che di quel testo era data nel primo secolo, e comunque mi pare che faccia ulteriore confusione e giochi sempre un pò sull'ambiguità dei pronomi personali.

Non si capisce infatti se Dio sarebbe stato chiamato con hu (lui) ani (io/io sono) o ani hu (io sono lui). L'impressione è che i pronomi, in definitiva, vengano usato solo per quello che sono, Dio quando parla indica se stesso con "io" e quando altri lo additano lo indicano con "lui" ma sinceramente non vi vedo un qualche significato mistico o diretto esclusivamente della divinità. Mi pare che il significato dipenda solo da soggetto che indica e non dal pronome in se stesso.

Alla fine sembra che tutte queste spiegazioni siano frutto di una esegesi tarda, spesso ambigua, e poco probante per sostenere con la certezza la tesi che ego eimi rappresenti una autoidentificazione di divinità da parte di Gesù.

Ma con questo non fraitendermi, non voglio escluderlo tassativamente o dire che sia una ipotesi priva di ogni fondamento (specialmente per la frequenza con cui Giovanni usa questa espressione in paragone ad altri) dico solo che traduttori e commentatori dovrebbero essere più cauti nel presentare "ego eimi" con certezza come affermazione di divinità. Per altro la maggior parte di loro non fa nessun accenno ad un possibile origine rabbinica che per ora invece è a mio parere la sola spiegazione che potrebbe avere un senso visto il silenzio su tale espressione tra i Padri.

Purtroppo l'impressione è che sia considerato un dato di fatto senza alcun problema esegetico o filologico, non viene presentato come una "possibilità" teologica ma come una "certezza critica", citando a sostegno la LXX in Esodo 3:14. E' questo quello che mi impressiona, la totale assenza di una lettura critica, mi pare impossibile che fior di biblisti non vedano nelle loro affermazioni perentorie una palese esagerazione e che molti grecisti non si accorgano del palese errore esegetico nel confrontare Esodo 3:14 e i passi di Giovanni. Non voglio far sobbalzare Polymetis, ma se questo è il tipo consenso generale del mondo accademico mi si permetta di starne fuori.

Va bene... dopo questo sfogo contro i critici cattivoni ti lascio partire per le vacanze, divertiti e mandaci una cartolina virtuale! Io riprendo l'attività didattica tra qualche giorno.

A presto [SM=x511460]
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