Augias - Pesce : Inchiesta su Gesù

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Polymetis
00venerdì 24 novembre 2006 00:45
“L'articolo che lessi tempo addietro si rifaceva ai testi di Nah Hammadi ed Ossirinco.”

Sì ma quali, sono moltissimi.

“Siccome siamo in tema vorrei riportare un intervsta ad uno die più stimati biblisti italiani, il Professor Barbaglio.”

Mi sembra del tutto condivisibile tranne che in due punti dove ho un’opinione diversa.

“Anzitutto il dato storico altamente probabile, se non certo, che Gesù è nato effettivamente a Nazaret; non per nulla è stato chiamato il nazareno e il profeta di Galilea.”

Questo non lo condivido. L’idea adesso è di moda tra gli studiosi cattolici, e Barbaglio ne è un esempio, grazie al Meier, e si basa sul fatto che giacché secondo le profezie il messia sarebbe venuto da Betlemme gli agiografi avrebbero inventato il viaggio da Nazareth alla Giudea per fra quadrare la vita del messia con le predizioni dell’AT. Qui abbiamo un movente, ma come insegna il diritto penale un movente non è ancora una prova. A mio avviso qui per dimostrarsi “aggiornati” davanti ai colleghi si tende a diventare ipercritici e ad agire in base al paradigma “colpevole fino a prova contraria”. Qui basta un movente per lanciare l’accusa, e ci si aspetta che sia la scienza storica a discolpare i Vangeli, dimenticando che prima di discolparsi di qualcosa bisogna fondare l’accusa.
Siccome Gesù è il Dio degli occidentali, e gli occidentali si caratterizzano per il fatto che bersagliare la religione è un diritto costituzionale, su quest’argomento salta fuori una panzana al giorno e ormai nelle università ci si è fatti il callo. Oggi ero in biblioteca e m’è scappato l’occhio su una rivista dell’anno scorso, un numero di Archaeology del novembre 2005, con in copertina un’inquietante “Where was Jesus Born?”. Mi aspettavo di trovare il solito: non è nato a Beltlemme ma a Nazareth, invece la tesi era questa: non è nato a Betlemme di Giudea ma nell’omonima Beltlemme di Galilea, molto più vicina a Nazareth e dunque più plausibile. Dunque sarebbe davvero nato in una Beltlemme e gli agiografi colsero l’occasione per accordare ciò alle profezie dell’Antico Testamento con un’aggiustatina di assai minor calibro: è bastato loro cambiare regione. Secondo voi l’articolo portava delle argomentazioni serie? Ovviamente no, perché l’importante non è dimostrare qualcosa ma sparare a zero sui Vangeli per dimostrare a tutto il mondo accademico quanto si è evoluti, quando si è “liberi”. Quella rivista a mio avviso ultimamente si sta dando troppo alla cosiddetta “archeologia dei misteri”, e fa uscire solo articoli la cui prima parola è “Secrets”, dai segreti dei Maya a quelli delle piramidi egizie, in realtà l’unico mistero è perché al dipartimento di archeologia non abbiano ancora disdetto l’abbonamento da una rivista simile.

“Ora la tradizione cristiana, che parte da Girolamo, ha trovato l'escamotage di ritenerli dei cugini e, strano a dirsi, non si parla delle sue sorelle come cugine, per salvare la verginità perpetua di Maria. Ma si tratta di una spiegazione che ha pochissime possibilità di essere buona.”

Anche qui dobbiamo ringraziare Meier di questo “aggiornamento” perché molti studiosi cattolici sono su questa scia grazie a lui, meditando che se il più grande biblista americano pensa una cosa simile allora l’ipotesi non è poi così balzana, specie se i suoi libri escono regolarmente con l’imprimatur. Questa opinione per un cattolico è possibile perché pochi sanno che mentre la verginità ante partum è dogma, quella in e post partum invece è solo verità cattolica e dunque non si è eretici a negarla. Questo è stato portato il Luce soprattutto da Rahner nei suoi saggi sul dogma.
Comunque c’è un errore nella frase di Barbaglio, l’idea che i fratelli di Gesù siano suoi cugini è attestata per la prima volta non con Girolamo ma in Egesippo, nel Vangelo di Pietro (ce lo dice Origene nel comm.in Mt 10,17), nel protovangelo di Giacomo(8,3; 9,2; 17,1s; 18,1), dunque già dal II secolo. Al contrario non è stato possibile rintracciare nessuno che prima del 200 d.C. (cioè inizio III secolo), ci dica che i fratelli di Gesù sono figli di Maria.

Ad maiora

[Modificato da Polymetis 24/11/2006 0.47]

spirito!libero
00venerdì 24 novembre 2006 09:54
“Mi sembra del tutto condivisibile tranne che in due punti dove ho un’opinione diversa”

Ma scusa Polymetis, a volte davvero non capisco. Non capisco perché parli di moda, se vogliamo dare una parvenza di rigorosità a queste ricerche non possiamo buttarla sulla “moda” altrimenti è davvero finita e diamo ragione a Feyerabend e alle sue estremizzazioni in merito alla scienza al pari degli stregoni e dunque al più radicale relativismo cognitivo. Non ho letto i passaggi logici che portano Barbaglio, Meier e molti altri a ritenere che Gesù non potesse in alcun modo essere nato a Betlemme, ma sono certo che non possono essere solo quelle da te esposte altrimenti, ai miei occhi, tutta la ricerca sul Gesù storico e l’autorevolezza di tutti questi “esimi” studiosi perderebbe ogni credibilità. Ne posso credere che Meier & c. si basino sul principio “colpevole fino a prova contraria” senza altri dati a suffragio delle loro tesi. Sai, fosse un singolo pazzo, ci può stare, ma siamo di fronte a nomi di rilievo anche in ambito cattolico. Studiando i vangeli tutti si sono resi conto che non sono una cronaca bensì una rielaborazione teologica dovuta tra l’altro ad un lungo lavoro redazionale, è dunque più che lecito vagliare criticamente ogni singolo versetto cercandone conferme storiche piuttosto che smentite.

“Questa opinione per un cattolico è possibile perché pochi sanno che mentre la verginità ante partum è dogma, quella in e post partum invece è solo verità cattolica e dunque non si è eretici a negarla. Questo è stato portato il Luce soprattutto da Rahner nei suoi saggi sul dogma"

Anche questa teoria della differenza tra verità cattolica e dogma mi lascia davvero perplesso. Che la CCR sia relativista in merito alle proprie verità cattoliche ? mah… io da quando esisto ho sempre sentito tutti i cattolici papi in testa, affermare senza alcun ombra di dubbio la perpetua verginità di Maria, prima dopo durante e per sempre. Come si faccia ora a ritenere “non contraddittoria” una affermazione del genere non riesco davvero a concepirlo. L'unica spiegazione razionale è che si cerchi sempre e comunque di salvare capra e cavoli.

“Comunque c’è un errore nella frase di Barbaglio, l’idea che i fratelli di Gesù siano suoi cugini è attestata per la prima volta non con Girolamo ma in Egesippo, nel Vangelo di Pietro (ce lo dice Origene nel comm.in Mt 10,17), nel protovangelo di Giacomo(8,3; 9,2; 17,1s; 18,1), dunque già dal II secolo. Al contrario non è stato possibile rintracciare nessuno che prima del 200 d.C. (cioè inizio III secolo), ci dica che i fratelli di Gesù sono figli di Maria.”

Anche qui non voglio entrare nel merito perché dovrei prima analizzare tutti i testi, tuttavia prima di dire che Barbaglio ha fatto un errore forse occorrerebbe analizzare il suo lavoro piuttosto che una sua intervista nella quale, si sa, non si è mai rigorosi e forse la sua frase lasciava intendere qualcos’altro. Sono più che convinto che Barbaglio come Pesce Cacitti Lupieri Filoramo conoscano perfettamente tutte le fonti di quel periodo, se dovessi scoprire che cadono in banali errori e che sono così superficiali da poter essere presi in castagna in un post di poche righe scritto da un non addetto ai lavori, be mi dovrebbero spiegare gli altri accademici in base a quali criteri annoverano questi ricercatori tra “i più stimati biblisti italiani”. Se partiamo da questo presupposto, allora fa bene Donnini a scrivere quel che gli pare, tanto il livello è il medesimo.


Saluti
Andrea

[Modificato da spirito!libero 24/11/2006 9.59]

Polymetis
00venerdì 24 novembre 2006 13:02
“n capisco perché parli di moda, se vogliamo dare una parvenza di rigorosità a queste ricerche non possiamo buttarla sulla “moda” altrimenti è davvero finita”

nelle ricerche accademiche su Gesù purtroppo le mode e le correnti esistono davvero, questo perché tutto consiste nello scegliere che cosa tenere e che cosa no dei Vangeli, e ognuno lo fa con criteri più o meno condivisibili.

“diamo ragione a Feyerabend e alle sue estremizzazioni in merito alla scienza al pari degli stregoni”

Feyerabend ha solo per una categoria di scienziati: gli psicanalisti. Con un paradigma strutturalista è indubitabile che lo psicanalista nella Vienna dell’epoca di Freud abbia la stessa funzione degli stregoni delle comunità primitive.

“Meier e molti altri a ritenere che Gesù non potesse in alcun modo essere nato a Betlemme, ma sono certo che non possono essere solo quelle da te esposte altrimenti, ai miei occhi, tutta la ricerca sul Gesù storico e l’autorevolezza di tutti questi “esimi” studiosi perderebbe ogni credibilità”

Le argomentazioni sono solo 2:
-Gesù nel resto dei Vangeli è detto nazareno o comunque chiamato “Gesù di Nazareth”
-A Beltlemme doveva nascere il messia e dunque c’è un movente per una leggenda postuma.

“Barbaglio, Meier e molti altri a ritenere che Gesù non potesse in alcun modo essere nato a Betlemme”

Veramente nessuno mi pare sia stato così categorico.

“Ne posso credere che Meier & c. si basino sul principio “colpevole fino a prova contraria” senza altri dati a suffragio delle loro tesi.”

T’assicuro che in questo caso basta a loro il movente. Esattamente come la strage degli innocenti viene rifiutata perché assomiglia troppo alla strage dei primogeniti fatta dal faraone, e dunque si sospetta che l’agiografo volesse equiparare Gesù a Mosè.

“. Studiando i vangeli tutti si sono resi conto che non sono una cronaca bensì una rielaborazione teologica dovuta tra l’altro ad un lungo lavoro redazionale, è dunque più che lecito vagliare criticamente ogni singolo versetto cercandone conferme storiche piuttosto che smentite.”

Non facciamo due passi anziché uno. Quello che s’è capito è che i Vangeli non sono né vogliono essere cronache in quanto gli agiografi illuminano retrospettivamente la vita di Cristo alla luce del cosiddetto “evento Pasqua”, da qui la dicitura “catechesi postpasquale” per alcuni discorsi dei Vangeli come le frasi dei discepoli di Emmaus. Ma da qui ad inventare episodi, anziché reintepretarli, ne passa di acqua sotto i ponti. Si passa dalla rilettura di fede alla frode consapevole, e nessuno è mai riuscito a provare questo secondo passaggio.

“Anche questa teoria della differenza tra verità cattolica e dogma mi lascia davvero perplesso. Che la CCR sia relativista in merito alle proprie verità cattoliche ?”

Semplicemente ci sono verità credute dalla Chiesa sulle quali perché non c’è la certezza del dogma. Questo non vuol dire che i cattolici in generale non vi credano, si dice solo però che non è eresia negarle, cioè non basta a fare uscire dalla comunione ecclesiale, altrimenti i libri di Meier non uscirebbero con l’imprimatur.

“tuttavia prima di dire che Barbaglio ha fatto un errore forse occorrerebbe analizzare il suo lavoro piuttosto che una sua intervista nella quale, si sa, non si è mai rigorosi e forse la sua frase lasciava intendere qualcos’altro.”

Sono d’accordo, sicuramente intendeva dire che il primo sistematizzatore della teoria dei cugini è Girolamo, cioè il primo che l’ha esposto in maniera sistematica nel Contro Elvidio.

Ad maiora
spirito!libero
00venerdì 24 novembre 2006 14:34
“T’assicuro che in questo caso basta a loro il movente”

A questa stregua allora dovrebbero spiegarmi perché reputano altri studiosi meno “rigorosi” quando utilizzano esattamente il loro stesso metodo, anzi in molti casi sono più cauti !

“Ma da qui ad inventare episodi, anziché reintepretarli, ne passa di acqua sotto i ponti”

A me risulta che essendoci delle contraddizioni nei vangeli proprio sul racconto di fatti precisi uno dei 4 evangelisti qualcosa s’è inventato per forza ! (esempio i viaggi a Gerusalemme in Gv e nei sinottici). Partendo dunque da questo presupposto non vedo perché non si debba introdurre un altro elemento “inventato” per far quadrare le profezie, del resto le stesse cronologie una delle quali fa risalire la genealogia di Gesù addirittura fino ad Adamo non mi sembrano certo credibili non credi ?

Saluti
Andrea
Polymetis
00venerdì 24 novembre 2006 20:17
“A questa stregua allora dovrebbero spiegarmi perché reputano altri studiosi meno “rigorosi” quando utilizzano esattamente il loro stesso metodo, anzi in molti casi sono più cauti !”

perché loro ipotizzano a partire da dati e contesti veri, i fantabiblisti a partire da dati falsi. Gli scritti ad esempio di David Donnini sono una lista di informazioni false, delle citazioni moderne e quelle antiche. Quell’uomo non è uno studioso e come tale non è al corrente dei dati in possesso del mondo accademico. Ad esempio quando sostiene che Nazareth non è mai esistita ignora che gli scavi archeologici hanno dimostrato che quell’insediamento al tempo di Gesù esisteva non da un secolo ma da millenni, e non occorre consultare il dizionario di archeologia biblica delle Paoline per saperlo, basterebbe leggere l’Enciclopedia Giudaica scritta da ebrei per ebrei alla voce Nazareth:
“NAZARETH, town in Galilee, mentioned several times in the New Testament as the place to which Joseph returned from Egypt and where Jesus was brought up (Matt. 2:23; Luke 2:39, 51). Archaeological evidence has shown that the area was settled as early as the Middle Bronze Age, and tombs have been found dating from the Iron Age to Hasmonean times.” (Lemma a cura di Michael Avi Yonah, professore di archeologia alla Hebrew University of Jerusalem)

“A me risulta che essendoci delle contraddizioni nei vangeli proprio sul racconto di fatti precisi uno dei 4 evangelisti qualcosa s’è inventato per forza !”

Su questo avevo scritto qualche tempo fa:
“Contraddizioni? Tu chiedi alla storiografia antica di qualunque genere un livello di trasparenza che non ha: ci sono molteplici versioni spesso discordanti per molti fatti della storiografia antica, anche la morte di Cesare a seconda degli scrittori ha dei punti diversi. Se si insiste sull’argomento contraddizioni è utile rilevare che sono paradossalmente una prova a favore dei Vangeli. Queste contraddizioni infatti sono assai ridotte, e altrettanto facilmente spiegabili. I Vangeli furono compositi a partire dal 60-70 d.C., cioè trenta- quarant’anni dopo la morte del maestro (mentre Paolo scrive 20 anni dopo). Non so voi, ma io non ricordo con esattezza quello che ho fatto ieri, figurarsi dieci o vent’anni fa (la sostanza del fatto sì, i particolari sfumano). Se dunque i vangeli differiscono in particolari insignificanti, ad esempio uno racconta che un miracolo è avvenuto all’uscita della città mentre un altro quando si entrava in città,la discrepanza non è da addebitare a manipolazione alcuna ma alla semplice difficoltà di ricordare dettagli tanto insignificanti. Inoltre solo due degli evangelisti sono testimoni oculari: Matteo e Giovanni. Luca è discepolo di Paolo, il quale a sua volta non è testimone oculare, mentre Marco è discepolo di Pietro. Visto che questi due ultimi Vangeli dipendono da tradizione orale, sebbene di primissima mano, è ovvio che si siano delle micro-discrepanze coi Vangeli invece scritti dai testimoni oculari. Se invece conosci grosse contraddizioni che non siano spiegabili con quanto ho detto fammi sapere.
Ma veniamo al punto. Perché ritengo che queste micro-contraddizioni siano una prova a favore dell’autenticità di trasmissione del NT? Perché se davvero come ritengono i mitologi del cristianesimo all’inizio della storia cristiana c’è un testo manipolabile a piacimento per inserirvi favole, allora cosa constava fare anche dei piccoli aggiustamenti per eliminare queste contraddizioni che tanta ilarità suscitavano tra i pagani? Celso stesso, il più accanito polemista anticristiano, li derideva per questo fatto. Se dunque i Vangeli ci sono stati tramandati con queste contraddizioni è perché i cristiani, ritenendoli sacri, non si ritenevano in potere di modificare alcunché.”

“(esempio i viaggi a Gerusalemme in Gv e nei sinottici)”

Questa non è una contraddizione, semplicemente c’è chi dà una cronologia più dettagliata (Giovanni), e chi invece sceglie di raccontarci solo un viaggio. Non era il loro obiettivo fare una telecronaca. Un Vangelo dice ciò che l’altro tace, non a caso ne abbiamo quattro.

“le stesse cronologie una delle quali fa risalire la genealogia di Gesù addirittura fino ad Adamo non mi sembrano certo credibili non credi ?”

Per me non sono credibili, ma il punto non è che io ci creda ma se vi credesse l’agiografo mentre le stendeva, e lui non aveva mai letto Darwin. Non c’è ragione per sospettare che l’agiografo fosse in malafede, credeva davvero che quella genealogia fosse vera, anche perché ci sono delle prostitute nell’albero genealogico che gli era stato tramandato, una cosa non certo edificante né da inventare.

Ad maiora

[Modificato da Polymetis 24/11/2006 20.20]

spirito!libero
00domenica 26 novembre 2006 21:43
“perché loro ipotizzano a partire da dati e contesti veri, i fantabiblisti a partire da dati falsi. Gli scritti ad esempio di David Donnini”

Non mi riferivo a Donnini ma a Donini piuttosto che a Deschner che non partono certo da dati falsi. Quindi se la tua teoria delle multi-opinioni e della metodologia di studio è vera, allora non vedo perché ritenere le teorie di questi due non rigorose.

“Contraddizioni? Tu chiedi alla storiografia antica di qualunque genere un livello di trasparenza che non ha: ci sono molteplici versioni spesso discordanti per molti fatti della storiografia antica, anche la morte di Cesare a seconda degli scrittori ha dei punti diversi”

Ed è proprio per questo che si vagliano le citazioni delle fonti, sei tu che sostieni che se una fonte attesta un evento questo debba essere creduto fin tanto che un’altra fonte non dica qualcosa di diverso. Io invece ritengo che attestato non equivale a plausibile o provato.

“Se si insiste sull’argomento contraddizioni è utile rilevare che sono paradossalmente una prova a favore dei Vangeli”

Questo è il classico gioco del teologo che utilizza una obiezione a suo favore.

“Queste contraddizioni infatti sono assai ridotte e altrettanto facilmente spiegabili.”

Non sono affatto d’accordo.

“I Vangeli furono compositi a partire dal 60-70 d.C., cioè trenta- quarant’anni dopo la morte del maestro (mentre Paolo scrive 20 anni dopo). Non so voi, ma io non ricordo con esattezza quello che ho fatto ieri, figurarsi dieci o vent’anni fa “

Ma come, prima sostieni che i giudei conoscevano a memoria l’intera Scrittura (lo dicesti per dare credito agli scritti di Giovanni perché meno antichi)dimostrando una memoria incredibile e adesso gli stessi sono diventati improvvisamente smemorati su fatti cruciali per la loro esistenza ? Insomma se le ricordano le cose o no ?

“Se dunque i vangeli differiscono in particolari insignificanti”

Non sono affatto insignificanti.

“Inoltre solo due degli evangelisti sono testimoni oculari: Matteo e Giovanni”

Anche qui c’è molto da dire sugli autori, quasi nessuno ormai crede che siano i reali autori dei vangeli.

“Questa non è una contraddizione, semplicemente c’è chi dà una cronologia più dettagliata (Giovanni), e chi invece sceglie di raccontarci solo un viaggio”

Direi che la differenza è sostanziale invece dal punto di vista storico. Io non sto parlando di teologia, ma di storia. Quanta affidabilità hanno dei testi che omettono e si contraddicono su fatti così importanti ?

“Non era il loro obiettivo fare una telecronaca”

Infatti io sto sostenendo che dal punto di vista storico sono molto poco precisi.

Saluti
Andrea
Polymetis
00lunedì 27 novembre 2006 02:11
“Non mi riferivo a Donnini ma a Donini piuttosto che a Deschner che non partono certo da dati falsi”

Sì lo fanno. Il primo è un marxista che stravolge le citazioni e vede movimenti marxisti ovunque, il secondo è un bugiardo fatto e finito che cita fonti d’antiquariato.

“Ed è proprio per questo che si vagliano le citazioni delle fonti, sei tu che sostieni che se una fonte attesta un evento questo debba essere creduto fin tanto che un’altra fonte non dica qualcosa di diverso. Io invece ritengo che attestato non equivale a plausibile o provato.”

Non ho detto questo. Dire che se una fonte afferma qualcosa va creduta finché qualcuno non sostenga il contrario dipenda da diversi fattori tra cui la vicinanza temporale ai fatti che racconta, la possibilità di mentire a seconda del pubblico cui si rivolge, la conoscenza diretta o indiretta dei fatti, ecc. Tutti criteri esposti da tempo.

“Questo è il classico gioco del teologo che utilizza una obiezione a suo favore.”

Non ha nulla di teologico, mi devi spiegare perché se potevano manipolare la storia a piacimento non hanno accordato i Vangeli.

“Non sono affatto d’accordo.”

Mostrami qualcosa di grosso allora, qualcosa che non si possa spiegare con quanto ho affermati. Ma prima assicurati che non sia qualcosa che è già stato risolto: www.carm.org/bible_difficulties.htm

“Ma come, prima sostieni che i giudei conoscevano a memoria l’intera Scrittura (lo dicesti per dare credito agli scritti di Giovanni perché meno antichi)dimostrando una memoria incredibile e adesso gli stessi sono diventati improvvisamente smemorati su fatti cruciali per la loro esistenza ?”

In primis non ricordo in che contesto ho affermato che i Giudei avevano una grande memoria per dare credito agli scritti giovannei, non vedo neppure il nesso. Giovanni è il Vangelo dei discorsi kerygmatici, cioè il Vangelo in cui si mette in bocca a Gesù ciò che la comunità ha capito su di lui. Ci sono ovviamente anche dei logia che sono riconducibili a parole di Gesù, ed in questo senso avevo citato la scuola scandinava (così come i lavori di Jeremias) sui giochi fonetici nelle retrotraduzioni del NT al fine di facilitare la memorizzazione dei detti del maestro, una prassi seguita anche nelle altre scuole rabbiniche.
Inoltre non vedo come tutto ciò c’entri con ricordare se si era su una sponda del lago piuttosto che su un’altra quando è avvenuto un miracolo: la memoria auditiva è particolarmente sviluppata in tutte le società orali perché è il luogo di trasmissione del sapere, non c’entra nulla con la memoria visiva.

“Direi che la differenza è sostanziale invece dal punto di vista storico. Io non sto parlando di teologia, ma di storia. Quanta affidabilità hanno dei testi che omettono e si contraddicono su fatti così importanti ?”

Perché sarebbe una contraddizione? Raccontare un viaggio a Gerusalemme anziché tre non vuol dire escludere che gli altri due siano esistiti, significa semplicemente non ritenerli significativi nel piano della propria opera. Molte cose stanno in Giovanni proprio perché l’autore vuole volutamente colmare le lacune lasciate dagli altri due, e dunque è molto più vicino al Gesù storico quanto a cronologia degli spostamenti (ormai i biblisti sono unanimi), sulla data delle celebrazioni (specie per il calendario pasquale), mentre è meno vicino al Gesù della storia nei discorsi che sono volutamente teologici. I Vangeli non sono scritti con lo scopo di essere ordinati, perché non appartengono al genere biografico. Ad esempio una testimonianza di Papia del 130 d.C. sui criteri con cui è stato costruito il Vangelo di Marco penso sia illuminante: “Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente, ma non certo in ordine quanto si ricordava di ciò che il Signore aveva detto o fatto. Infatti non aveva ascoltato direttamente il Signore né era stato suo discepolo, ma in seguito, come ho detto, era stato discepolo di Pietro. Questi svolgeva i suoi insegnamenti in rapporto con le esigenze del momento, senza dare una sistemazione ordinata ai detti del Signore. Sicché Marco non sbagliò affatto trascrivendone alcuni così come ricordava. Di una cosa sola infatti si preoccupava: di non tralasciare nulla di quanto aveva udito e di non dire nulla di falso in questo” (In Eusebio, Historia Ecclesiastica III,39,15)
Capiamo dunque che in questo caso la preoccupazione dell’evangelista none r ala cronologia, e lo stesso si nota anche per Matteo. Si nota cioè che parabole o detti che in altri Vangeli sono separati cronologicamente in Matteo sono messi insieme perché sullo stesso argomento. Spero d’essermi spiegato.

“nfatti io sto sostenendo che dal punto di vista storico sono molto poco precisi”

C’è una differenza tra l’essere poco precisi perché né la precisione né il genere storiografico sono il tuo obiettivo e la frode. È la differenza che incorre tra la buona e la cattiva fede.

Ad maiora
Teodoro Studita
00lunedì 27 novembre 2006 10:34
Ragazzi miei, già con quella pappardella copia-incollata avete messo a dura prova la mia ben nota scarsa pazienza, vediamo almeno di stare in topic, please.


EDITO : mi riferivo al titanico taglia-incolla di poly nel thread sul primato.

[Modificato da Teodoro Studita 27/11/2006 22.35]

Teodoro Studita
00venerdì 8 dicembre 2006 01:18

Ecco un altro articolo, stavolta del gesuita Giuseppe De Rosa - pubblicato su "La civiltà cattolica", anno 157 (2006), IV, pp. 456-466, quaderno 3755, 2 dicembre 2006 (http://www.laciviltacattolica.it) - a proposito dell'Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce.



Un attacco alla fede cristiana
Giuseppe De Rosa S. I.

È stato pubblicato nel settembre scorso e se n’è stampata una seconda edizione nell’ottobre il volume Inchiesta su Gesù (C. Augias - M. Pesce, Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo, Milano, Mondadori, 2006, pagine 257, euro 17), nel quale il giornalista Corrado Augias e il prof. Mauro Pesce, docente di Storia del cristianesimo all’Università di Bologna, discutono il primo ponendo domande e il secondo dando risposte su Gesù, «l’uomo che ha cambiato il mondo». Augias si professa «non cattolico» e non ritiene Gesù «figlio di Dio» (p. 239), ma è interessato a «conoscere meglio Gesù detto il Cristo, che ha così profondamente influenzato la storia del mondo»: cioè a conoscere Gesù qual è stato veramente, prima che «la liturgia, la dottrina, il mito trasformassero la sua memoria in un culto, il culto in una fede, la fede in una delle grandi religioni dell’umanità» (p. 3).
Il prof. Pesce si è mantenuto sul piano della ricerca storica, esprimendo «convinzioni a cui è arrivato dopo una lunga ricerca che gli sembra onesta». Perciò egli afferma «nel dialogo condensato in questo libro ho sempre cercato di mantenermi sul piano storico, evitando di presentare le mie convinzioni personali sulla fede» (p. 236). Egli è «convinto che la ricerca storica rigorosa non allontani dalla fede, ma non spinga neppure verso di essa». In sostanza, il Gesù che la fede cristiana professa dev’essere distinto dal Gesù quale risulta dalla ricerca storica su di lui.
In sintesi il pensiero di Pesce è così riassunto da lui stesso: «Gesù era un ebreo che non voleva fondare una nuova religione. [...] Era convinto che il Dio delle Sacre Scritture ebraiche stesse cominciando a trasformare il mondo per instaurare finalmente il suo regno sulla terra. Era del tutto concentrato su Dio e pregava per capire la sua volontà e ottenere le sue rivelazioni, ma era anche del tutto concentrato sui bisogni degli uomini, in particolare i malati, i più poveri e coloro che erano trattati in modo ingiusto. Il suo messaggio era inscindibilmente mistico e sociale. Il regno di Dio non venne e, anzi, egli fu messo a morte dai romani per motivi politici. I suoi discepoli, che provenivano da ambienti i più vari, ne diedero fin dagli inizi interpretazioni differenti. Si interrogarono sulla sua morte fornendo spiegazioni diverse e molti di loro si convinsero che egli fosse risuscitato. Un certo numero dei suoi seguaci rimase dentro le comunità ebraiche, mentre altri diedero vita a una nuova religione percorsa da diverse correnti, il cristianesimo» (p. 237).

«Gesù è ebreo, non cristiano»

Così l’idea centrale del volume che stiamo esaminando è che Gesù non ha nulla a che vedere col cristianesimo, che egli non l’ha fondato né ha voluto fondarlo: idea che è espressa nella formula «Gesù è ebreo, non cristiano».
Il dialogo tra Augias e Pesce inizia con la domanda: «Che cosa possiamo conoscere di Gesù?». Risponde Pesce: «Una ricostruzione storica è possibile per Gesù come per qualunque altro personaggio del passato. Le fonti sono però particolari, e la ricerca si basa su testi lacunosi, contraddittori, manipolati» (p. [SM=g27989]. Tali fonti sono i Vangeli, canonici e non canonici. Tra questi Vangeli la Chiesa ne scelse quattro, rigettando gli altri come «apocrifi» e perciò condannandoli all’oblio. Le ragioni di questa scelta «sono complesse, incerte nelle motivazioni, hanno a che fare con il tumulto pratico e dottrinale che sempre accompagna la nascita e l’ascesa di un movimento, in particolare quando si proclama ispirato direttamente da Dio» (p. 10). Ad ogni modo «non sono chiare. Si può dire che siano stati esclusi quelli che contenevano un’immagine troppo giudaica di Gesù o che sembravano darne una visione gnostica o spiritualistica, come il Vangelo di Tommaso» (p. 21). In ogni caso, «il credente che frequenta una Chiesa [...] non ha come interesse primario conoscere storicamente Gesù» (p. 22). Né ha interesse storico la Chiesa, perché «la ricerca storica scava e mette in luce le diversità dei Vangeli, le varianti introdotte dopo la morte di Gesù, e questo non è facile da accettare per i fedeli» (p. 23). Del resto «i Vangeli, normalmente considerati fonti primarie per conoscere Gesù, sono in realtà una delle prime forme di cristianizzazione della sua figura».
In realtà Gesù sarebbe stato soltanto ebreo e lo sarebbe stato totalmente: «La novità, un’importante novità, verificatasi nell’ultimo mezzo secolo di studi biblici, è stata proprio il recupero, la riscoperta dell’ebraicità di Gesù, laddove in precedenza l’antiebraismo cristiano tendeva a farne addirittura un critico della religione ebraica» (p. 24). A dire il vero «non c’è una sola idea o consuetudine, una sola delle principali iniziative di Gesù che non siano integralmente ebraiche [...]. Tutti i concetti fondamentali espressi da Gesù sono ebraici: il regno di Dio e la redenzione, il giudizio finale, l’amore per il prossimo. Egli crede come un ebreo fariseo alla risurrezione dei corpi e non come un greco solo all’immortalità dell’anima [...]. Ritiene di essere stato inviato da Dio a predicare solo agli ebrei e non ad altri» (p. 26 s). Gesù rispettava alla lettera le prescrizioni della Torah, comprese quelle riguardanti gli alimenti. «Sono i cristiani dopo di lui che le hanno trascurate» (p. 2[SM=g27989]. Come ogni «ebreo religioso» Gesù pregava. Perciò, «Gesù è un uomo ebreo che non si sente identico a Dio. Non si prega Dio se si pensa di essere Dio» (p. 2[SM=g27989].
Gesù ha insegnato il Padre nostro: ma questa preghiera «non ha nulla di cristiano. Qualsiasi ebreo religioso la potrebbe recitare senza doversi per questo convertire al cristianesimo. In questa preghiera Gesù non è mai nominato. Egli non ha alcuna funzione nella salvezza dell’umanità» (p. 30). Invece i cristiani hanno visto in Gesù un essere soprannaturale, col quale ci si deve mettere in rapporto per ricevere la salvezza. «Gli storici contemporanei al contrario vedono in Gesù un uomo e sono quindi in grado di riscoprire anche la sua ebraicità» (p. 30).
In conclusione, c’è una radicale «differenza fra il Gesù ebreo e il Gesù cristiano: il Gesù cristiano è quello di cui san Paolo dice: “Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture”. Il Gesù ebreo dice: è Dio che rimette i peccati [...]. Quando ha insegnato il Padre nostro, Gesù non pensava di dover morire per i peccati degli uomini» (p. 29). Così «il suo messaggio è sostanzialmente diverso da quello del cristianesimo successivo» (p. 55). «Gesù è insieme un mistico e un grande sognatore religioso, che cerca di collocare la giustizia al centro del mondo» (p. 62). C’è dunque «una differenza fondamentale, direi una discontinuità: se vogliamo un tradimento del cristianesimo rispetto a Gesù» (p. 6[SM=g27989].

«Gesù non è il Figlio di Dio»

Ma chi è stato l’«ebreo» Gesù storicamente, cioè liberato dalle incrostazioni dogmatiche con cui il cristianesimo lo avrebbe rivestito? Pesce ritiene che Gesù sia nato, non a Betlemme, ma «in Galilea, verosimilmente a Nazareth» (p. 10) e che «il padre è Giuseppe e la madre Maria» (p. 11). I Vangeli di Matteo e di Luca affermano la concezione verginale di Gesù, cioè che Maria avrebbe concepito Gesù miracolosamente, quindi per opera di Dio, senza l’intervento di Giuseppe. Luca aggiunge che colui che è concepito in Maria «per opera dello Spirito Santo» sarà chiamato «figlio di Dio». Matteo vede nella concezione verginale di Gesù il compimento di una profezia di Isaia, secondo la quale «la vergine (almâh) concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emanuele», che significa «Dio con noi».Il prof. Pesce rileva in questa insistenza sulla nascita verginale di Gesù «la necessità di mostrare che la vita di Gesù portava a compimento alcune profezie della Bibbia ebraica» e l’«influenza della cultura ellenistica sulle giovani comunità greco-cristiane», poiché «la storia della classicità è piena di figure divine o semidivine la cui nascita veniva detta di carattere soprannaturale», a motivo di dèi (in particolare Zeus) che si univano con donne (cfr. p. 90).
Quanto al termine «Figlio di Dio» osserva ancora Pesce ai tempi di Gesù era piuttosto corrente. Figlio di Dio era un titolo che si poteva dare agli imperatori romani, come Augusto, ai re d’Israele, ai filosofi come Platone e Pitagora. «Insomma il termine in quanto tale non esprime la natura divina di Gesù» (p. 91). Né tale espressione è «connessa in modo privilegiato né esclusivo al messia né indica di per sé un ruolo messianico» (p. 91). È il Vangelo di Marco il più insistente nell’applicare a Gesù questo appellativo. Dio stesso lo proclama tale per ben due volte. «Attenzione, però: per Marco, Gesù era un uomo. Il termine “figlio di Dio” è stato interpretato come se egli volesse davvero alludere a “Dio”, solo dopo che il suo vangelo, inserito nel Nuovo Testamento, venne letto alla luce del Vangelo di Giovanni, per il quale Gesù era la parola di Dio fatta carne» (p. 92).

«Rapporti “omosessuali” tra i discepoli di Gesù»

Segue un capitolo in cui Augias, con un’insistenza un po’ morbosa, riporta le insinuazioni e le ipotesi fatte da taluni che i discepoli di Gesù coltivassero tra loro «rapporti omosessuali» (p. 123); che tra Gesù e il discepolo che Gesù «amava» ci fosse «una vera e propria amitié amoureuse [...] anche se non sempre completata in una relazione esplicitamente erotica» (p. 120); che Gesù avesse un particolare rapporto con Maria Maddalena fino a baciarla sulla bocca, come è detto nell’apocrifo Vangelo di Filippo (cfr. p. 121) e, infine, che, prima dell’arresto avesse passato la notte col ragazzo che sfuggì all’arresto, lasciando in mano a quelli che volevano prenderlo il lenzuolo da cui era ricoperto (cfr. p. 124): ipotesi e insinuazioni che Pesce ritiene «senza fondamento» (p. 123), «assurdità» (p. 124) o «interpretazioni errate del testo» (p. 129), ma sulle quali Augias insiste ancora alla fine del volume.
Su Gesù taumaturgo che viene qualificato come «Gesù mago» (titolo che «l’illustre studioso Morton Smith» ha dato al suo libro su Gesù) Pesce è piuttosto reticente: egli riconosce che «alcuni fenomeni di guarigione o addirittura di risurrezione da lui operati restano inspiegabili alla luce della scienza» (p. 131), ma rileva che «Gesù aveva bisogno per i suoi miracoli di una grande fede in chi lo ascoltava» (ivi). Inoltre, quando Gesù si rende conto di queste sue facoltà, cerca di capire da dove gli vengono e fino a che punto sia in grado di controllarle: ciò che negli altri suscitava ammirazione crea in lui un turbamento profondo; lo vediamo ricorrere alla preghiera nel tentativo di averne un’illuminazione. «Si potrebbe dire che Gesù è stato un mistero non solo per gli altri, ma anche per se stesso [...]. Egli stesso ha probabilmente cercato di chiarire il mistero dell’intervento divino nella sua vita. Lo faceva ricorrendo spesso alla preghiera, chiedendo a Dio di illuminarlo. È una mia ipotesi», suggerita dal fatto che nell’episodio della Trasfigurazione «abbia invocato Elia e Mosè perché gli chiarissero il suo destino futuro» (p. 134 s). Ad ogni modo, Pesce si dice «convinto» che gli episodi miracolosi, come la risurrezione di Lazzaro o la moltiplicazione dei pani, «non siano stati inventati, ma che i suoi seguaci furono realmente convinti di aver assistito a quei fatti straordinari» (p. 134).

«Gesù non è realmente risorto»

I giorni cruciali della vita di Gesù sono gli ultimi: è arrestato la notte del giovedì, è processato, è crocifisso e muore il venerdì. Pesce ritiene che la causa dell’arresto di Gesù sia il pericolo che egli rappresenta per la sorte della nazione giudaica. Nota poi che non è stato Gesù a istituire l’Eucaristia, di cui non parlano né il Vangelo di Giovanni né il Vangelo di Tommaso. Da ciò «alcuni biblisti hanno dedotto che, dopo la morte di Gesù, alcuni gruppi cristiani hanno creato il rituale dell’Ultima Cena». Non si tratta «comunque di un evento storico né di un’istituzione formale stabilita da Gesù» (p. 141). Poi però afferma: «Credo sia impossibile negare che Gesù abbia consumato una cena particolare prima del suo arresto, celebrandovi un rito intorno al pane e al vino» (p. 146). Ad ogni modo, il fatto che il Vangelo di Giovanni non parli dell’Eucaristia, ma della lavanda dei piedi, mentre i sinottici concentrano la propria attenzione sull’istituzione dell’Eucaristia «non autorizza a pensare che la versione dei sinottici sia più attendibile di quella di Giovanni» (p. 147).
Parlando dei racconti della Passione, Pesce osserva che essi non riportano fatti realmente avvenuti, ma «sono solo interpretazioni della fede sulla base di un nucleo storico» (p. 157). In realtà «i redattori dei vangeli hanno trasformato o creato una serie di episodi che, di fatto, non si verificarono. Fra i fatti storicamente inventati c’è l’episodio di Barabba» (p. 15[SM=g27989].
Circa la risurrezione di Gesù, Pesce rileva che «le sue “prove” consistono nelle apparizioni avvenute dopo la morte in croce» (p. 175), che come nel caso dell’apparizione di Gesù a Maria di Magdala potrebbero essere definite come «visioni isteriche» o allucinazioni: in altre parole, «un portato del desiderio, una potente proiezione dell’inconscio» (p. 177). Del resto, «oggi alcuni studiosi cattolici interpretano le apparizioni di Gesù risorto come stati alterati di coscienza» (p. 182). In conclusione «le apparizioni del risorto sono solo delle visioni» (p. 184). Gesù perciò non sarebbe risorto «realmente», ma sarebbero stati i suoi discepoli a credere di averlo «visto»: in realtà si è trattato di allucinazioni.
Chi è allora Gesù, per il prof. Pesce? Non è certamente il Figlio di Dio fatto uomo, quale la Chiesa professa sulla scorta della testimonianza dei discepoli che hanno vissuto con lui: testimonianza che è contenuta nei quattro Vangeli canonici, i quali perciò sono la fonte essenziale della nostra conoscenza di Gesù. Per Pesce «Gesù è ossessionato dal male che domina il mondo [...]. Per lui Dio è il Padre che può salvare e che gli ha dato il potere straordinario di risanare e di guarire. Dio però gli appare anche incomprensibile. Per tutta la vita Gesù cerca di sapere che cosa Dio voglia; alla fine si sente abbandonato e non capisce perché Dio lo destini a una fine ingiusta, a una sconfitta umiliante oltre che a patimenti atroci. A lui attribuisce la sua sconfitta e per questo l’accetta, pur non comprendendola» (p. 213). Così, secondo il prof. Pesce, Gesù è un pover’uomo che sente incombere su di sé un tragico destino, che egli accetta, pur senza comprenderlo: «Egli continua a credere che Dio sia forte, potente e benefico, anche se permette che venga ucciso» (p. 213) e abbandonato alle forze del male.
Così, secondo Pesce, Gesù non è il Salvatore degli uomini che consapevolmente va incontro alla sofferenza e alla morte «per dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,2 . Egli si sottomette a una morte atroce, perché così vuole Dio ma non sa perché. Gesù è un «uomo solo», che prega Dio affinché gli riveli che cosa deve fare.

Rilievi critici

Il primo rilievo generale da fare è che nel volume Inchiesta su Gesù viene negato il cristianesimo nella sua totalità. Sono negate, infatti, tutte le verità cristiane essenziali, quali la divinità di Gesù, la sua incarnazione, la sua concezione verginale, il carattere redentivo della sua morte, la sua risurrezione dalla morte. Queste realtà di fede dice in sostanza Pesce sarebbero incrostazioni con cui la Chiesa ha ricoperto la figura storica di Gesù, facendone un essere divino, il Logos fatto carne di cui parla il Vangelo di Giovanni. Compito dell’esegesi è quella di liberare da tali incrostazioni, che la falsano, la figura storica di Gesù. Di qui l’insistenza di Pesce sull’assoluta ebraicità di Gesù e la sua convinzione che Gesù è stato «cristianizzato», e quindi falsato, fino a farlo diventare il fondatore del cristianesimo.
Quello che a noi sembra assolutamente inaccettabile proprio sul piano della storia è la frattura che il prof. Pesce pone tra il «Gesù della storia» (il «Gesù ebreo») e il «Gesù della fede» (il «Gesù cristiano») scomparso «sotto la coltre fitta della teologia». In realtà, questa frattura non esiste.
Indubbiamente Gesù è stato ebreo: è stato circonciso l’ottavo giorno dopo la nascita secondo la Legge; gli è stato posto un nome ebraico (Jehoshua, che significa «Dio salva»); da bambino ha frequentato ogni sabato la sinagoga del suo paese (Nazaret), dove ha imparato la Sacra Scrittura; compiuti i 12 anni è andato in pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme; come tutti gli ebrei adulti (fossero anche scribi famosi) ha esercitato un mestiere manuale. L’unico aspetto che lo ha distinto è stato il fatto che non si è sposato. Quando poi ha lasciato il suo paese per iniziare il ministero di predicatore itinerante, la prima cosa che ha fatto è stata andare da Giovanni il Battezzatore e, come altri ebrei, si è fatto battezzare da lui. Ha voluto restringere la sua predicazione al popolo d’Israele.
Gesù dunque è stato «ebreo», ma dobbiamo contraddire il prof. Pesce quando afferma che Gesù non ha criticato la religione ebraica; che non c’è nessuna sua idea o consuetudine, nessuna sua iniziativa che non sia integralmente ebraica; che tutti i concetti da lui espressi siano ebraici; che Gesù rispettava alla lettera tutte le prescrizioni della Torah, comprese quelle riguardanti gli alimenti.Quanto alla religione ebraica, o meglio, quanto alla Torah, certamente Gesù l’ha ritenuta espressione della volontà di Dio, ma da una parte ne ha corretto talune interpretazioni che ne davano gli scribi, come nel caso del korban: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7, ; dall’altra, ha ricondotto il divorzio, permesso dal Deuteronomio (24,4), al genuino progetto originario di matrimonio, affermando che l’uomo non deve separare quello che Dio ha congiunto nell’atto creativo dell’uomo e della donna (cfr. Gn 1,27; 2,24). Ma quello che è più importante e significativo è che Gesù non intende «abolire la Legge» ma «darle compimento» e quindi metterne in luce le esigenze profonde, che vanno assai al di là di quanto «fu detto agli antichi» (Mt 5,17-31). Circa gli alimenti, che il Levitico divideva in puri e impuri, Gesù, dice Marco, «dichiarava mondi tutti gli alimenti» (Mc 7,19), rilevando che «non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» (Mc 7,15).
In conclusione Gesù, sulla scia dell’antica Legge, proclama una Legge nuova, che non contraddice la prima, ma la compie, chiedendo, ad esempio, di «non opporsi al malvagio», di «amare i nemici» e di «pregare per i persecutori» (Mt 5,39.44): cose certo che la Torah non prescriveva. Quanto all’osservanza del sabato, Gesù si discosta profondamente dagli scribi e dai farisei, proclamando che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27). Perciò è lecito compiere guarigioni e strappare le spighe per nutrirsi in giorno di sabato. Ugualmente scandalosa è la condotta che Gesù tiene con i pubblicani, i peccatori, le donne di malaffare. Tutte cose che mostrano che Gesù è, sì, un «ebreo», ma che esce fuori dai quadri dell’ebraismo del suo tempo. Non si comprende perciò, come si possa affermare che non c’è nulla in Gesù che non sia «integralmente ebraico».

Gesù e il Padre

Meraviglia anche l’affermazione che Gesù pregava perché non si sentiva identico a Dio: «Non si prega Dio afferma Pesce se si pensa di essere Dio» (p. 2 . La preghiera di Gesù, fatta spesso nella notte, è un colloquio «filiale» col Padre, a cui Gesù si rivolge col termine affettuoso di abbà (un termine che non si trova salvo che ci sia sfuggito nel volume che stiamo presentando). Eppure è un termine di grandissima importanza, che ci fa penetrare nella vita interiore di Gesù, o meglio, nel «mistero» della sua coscienza «filiale». In realtà, Dio è il «Padre suo», in maniera diversa da quella di essere Padre di tutti gli uomini, per cui parlando ai discepoli egli dice «Padre mio» (Mt 7,21) e «Padre vostro» (Mt 6,26), e non dice mai «Padre nostro», ponendo cioè, sullo stesso piano se stesso e i suoi discepoli.
Meraviglia anche l’affermazione che la preghiera insegnata ai discepoli da Gesù il Padre Nostro non abbia nulla di cristiano, ma sia totalmente ebraica. Si sa che il termine Padre è assai poco usato nell’Antico Testamento, dove compare soltanto una quindicina di volte, ed è applicato a tutto il popolo, non ai singoli individui, a eccezione del re, il quale soltanto può dire a JHWH: «Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza» (Sal 88 [89],27). Per Gesù il termine «Padre» è il nome proprio di Dio, e tutti gli uomini non solo gli ebrei sono suoi figli. Circa il carattere totalmente ebraico del Padre nostro scrive H. Schürmann: «Hanno ragione tutti coloro che dicono che nel Padre nostro Gesù prega come ebreo e ogni ebreo può unirsi a questa preghiera; ogni frase può essere documentata con testi ebrei uguali o simili [...]. Ma il “peculiare aspetto gesuanico” della preghiera di Gesù fece “saltare” l’ebraismo. Solo chi nella complessità del Padre nostro ha scorto il “peculiare aspetto gesuanico” [...] come cristologia incoativa implicita, ha compreso la preghiera di Gesù nella sua profondità» (H. Schürmann, Padre nostro, la preghiera del Signore, Milano, Jaca Book, 1982, pp. 194 s.). Cioè, soltanto chi crede che Gesù è il Figlio di Dio può recitare il Padre nostro nella sua profondità e verità.

Gesù e il cristianesimo

Strana ci sembra anche l’affermazione che Gesù non sia cristiano e che egli non abbia fondato né abbia voluto fondare una nuova religione, il cristianesimo. In realtà, egli ha rivolto la sua predicazione «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 10,6): a tale scopo ha chiamato a seguirlo dodici discepoli, perché «stessero con lui e anche per mandarli a predicare» (Mc 3,14-15). Ma il suo messaggio non è accolto dal popolo d’Israele e dai suoi capi. Ecco che allora egli si consacra all’istruzione dei suoi discepoli e delle persone uomini e donne che credono in lui: insegna loro a pregare, a vedere in Dio il Padre che li ama, che ha cura di loro; insegna loro il retto uso delle ricchezze, il perdono delle offese; nella sua ultima cena, alla vigilia della morte, istituisce un nuovo rito pasquale e chiede ai Dodici di ripeterlo in sua memoria. Dopo la sua morte e la sua risurrezione, i suoi discepoli, pur restando all’interno dell’ebraismo, formano un gruppo a parte, che ha i suoi capi (i Dodici), un suo rito particolare la ripetizione dei gesti compiuti da Gesù nella sua Ultima Cena , gli insegnamenti di Gesù. Proprio questo piccolo gruppo di seguaci di Gesù forma la «sua» Chiesa che, ingrandendosi con l’adesione di nuove persone, sia ebree sia pagane che credono in Cristo, forma il primo cristianesimo. Non c’è dunque nessuna frattura tra Gesù «ebreo» e il cristianesimo, che vive degli insegnamenti di Gesù e lo professa suo Dio e Signore. In realtà, il cristianesimo è nato e si è sviluppato all’interno del giudaismo, e soltanto progressivamente le comunità cristiane si sono staccate dalla comunità giudaica di cui originariamente facevano parte, salvo il caso delle comunità cristiane fondate da san Paolo, fin dall’inizio al di fuori della comunità giudaica (cfr. J. Gnilka, I primi cristiani. Origini e inizio della Chiesa, Brescia, Paideia, 2000, cap. IV, 2, d, «Gesù e la Chiesa», pp. 210-241, e cap. V, «La prima Chiesa», pp. 273-429; G. Jossa, «La separazione dei cristiani dai giudei», in M. B. Durante Mangoni - G. Jossa [edd.], Giudei e cristiani nel primo secolo, Trapani, Il pozzo di Giacobbe, 2006, pp. 105-126).

Valore storico dei Vangeli

Questo è quanto appare con estrema chiarezza dai quattro Vangeli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni. Ma quale valore storico hanno questi Vangeli? Per il prof. Pesce si tratta di testi «lacunosi, contraddittori, manipolati», che la Chiesa ha scelto tra molti Vangeli per ragioni «non chiare», rigettando altri Vangeli come «apocrifi» e in tal modo condannandoli all’oblio. In realtà, la «scelta» dei quattro Vangeli è avvenuta per ragioni chiare. La prima è che soltanto nei quattro Vangeli «canonici» la primitiva comunità cristiana ha riconosciuto la «tradizione apostolica», cioè quello che hanno insegnato i Dodici, i discepoli che sono stati con Gesù durante tutto il tempo della sua predicazione, dal Battesimo alla Risurrezione, che hanno ascoltato la sua predicazione e hanno assistito ai suoi miracoli e alla sua attività di esorcista, nonché alle sue dispute con gli scribi. La seconda è che, mentre i quattro Vangeli canonici sono stati scritti tutti nel primo secolo (approssimativamente Marco tra il 65 e il 70 d. C., Matteo e Luca tra l’80 e il 90, Giovanni tra il 90 e il 100), i Vangeli «apocrifi» sono posteriori e in buona parte dipendono dai Vangeli canonici, cioè non apportano elementi nuovi per la conoscenza di Gesù, se si eccettua il Vangelo di Tommaso. Il terzo motivo è che molti Vangeli cosiddetti «apocrifi» esprimono tendenze gnostiche, come appare da alcuni detti del Vangelo di Tommaso. Per esempio, nel n. 114 è detto: «Simon Pietro disse a lui [Gesù]: “Maria deve andare via da noi! Perché le femmine non sono degne della vita”. Gesù disse: “Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Poiché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli”». Il sapore «gnostico» di questo detto è evidente. Ciò che si può dire di molti altri «detti» di questo Vangelo. Infatti, anche quando concorda letteralmente con i Vangeli canonici, lo spirito è generalmente gnostico.
Indubbiamente i Vangeli canonici pongono molti problemi, in quanto sono scritti da autori diversi ognuno dei quali ha la propria maniera di presentare Gesù e scrive tenendo presente i bisogni della comunità per la quale redige il Vangelo; ma non si può dire che i quattro Vangeli nelle cose essenziali siano «lacunosi, contraddittori, manipolati». Essi danno di Gesù quattro ritratti che si completano a vicenda. In particolare, il Vangelo di Giovanni è molto diverso dagli altri e talvolta si discosta da essi, ma non è in contraddizione sostanziale con gli altri tre, e non c’è nessuna ragione obiettiva per preferirlo agli altri.
In conclusione, non è giustificato lo scetticismo con cui nell’Inchiesta su Gesù sono trattati i quattro Vangeli. Soprattutto dispiace il fatto storicamente ed esegeticamente ingiustificato che in tale volume sia contenuto obiettivamente, quali che siano state le intenzioni dei due autori, un attacco frontale alla fede cristiana
spirito!libero
00venerdì 8 dicembre 2006 18:06
Non entro nel merito perchè è assolutametne inutile, vorrei solo commentare la frase conclusiva:

"Soprattutto dispiace il fatto storicamente ed esegeticamente ingiustificato che in tale volume sia contenuto obiettivamente, quali che siano state le intenzioni dei due autori, un attacco frontale alla fede cristiana"

No, al massimo vengono meno le basi della fede cattolica e dei suoi ingiustificati dogmi.

Saluti
Andrea
Teodoro Studita
00venerdì 8 dicembre 2006 21:14
Un pamphlet di questo spessore secondo me non è in grado di "far venir meno" alcun dogma, giustificato o no che sia (e permettimi, Andrea, di dire che non sei tu l'arbitro della "giustificazione" dei dogmi).
Si tratta in ultima analisi di un libretto modesto, la cui unica utilità è quella di attestare la fame di notizie su Gesù che tuttora la gente ha.
Di questo dobbiamo prendere atto. Per studiare ci sono opere ben più serie.
Cordialità,

[Modificato da Teodoro Studita 08/12/2006 21.14]

barnabino
00domenica 10 dicembre 2006 14:30

Per studiare ci sono opere ben più serie



A parte questo saggio divulgativo quali altre opere di Pesce ritieni che rispecchino un punto di vista più scientifico?

Shalom

[Modificato da barnabino 10/12/2006 14.33]

Teodoro Studita
00domenica 10 dicembre 2006 16:27
Devo dire che Pesce è stato colui che per primo mi ha fatto dire "ma che schifo" davanti ad un libro della fondazione Valla, di cui sono sempre stato un accanito lettore. Mi riferisco alle "parole dimenticate" di Gesù, un'accozzaglia di pezzetti frullati senza alcuna linea logica.
Altri suoi scritti non ne ho, per cui non mi spingo oltre. Di certo non mi ritengo un suo ammiratore, mi riferivo bensì ad opere di altro tenore (sempre sul Gesù storico), come la third quest o i tre tomi di Meier.
Cordialità,
spirito!libero
00domenica 10 dicembre 2006 19:55
Re:
"Un pamphlet di questo spessore secondo me non è in grado di "far venir meno" alcun dogma"

Carissimo Teodoro,

io mi riferivo piuttosto a Pesce in quanto ordinario di Storia del Cristianesimo, non tanto al libello di Augias.

"giustificato o no che sia (e permettimi, Andrea, di dire che non sei tu l'arbitro della "giustificazione" dei dogmi)"

Hai ragione, non sono io il giudice in assoluto, ma ti domando chi lo è ? non certo chi li ha formulati non credi ?
Comunque credo di aver il diritto di essere giudice di me stesso e poter giudicare in cosa credere ed in cosa no.

"Si tratta in ultima analisi di un libretto modesto, la cui unica utilità è quella di attestare la fame di notizie su Gesù che tuttora la gente ha"

Concordo.

"Di questo dobbiamo prendere atto. Per studiare ci sono opere ben più serie"

Riconcordo, ma sostengo altresì che Pesce sia un ottimo studioso e concordo con molti dei suoi asserti.


Saluti
Andrea

[Modificato da spirito!libero 10/12/2006 19.58]

Thommi
00domenica 10 dicembre 2006 22:06

io mi riferivo piuttosto a Pesce in quanto ordinario di Storia del Cristianesimo, non tanto al libello di Augias.


cos'altro avresti letto di Pesce per essere così certo che i suoi argomenti facciano venir meno la veridicità dei dogmi cattolici?
non mi pare che Pesce abbia portato qualcosa di nuovo da studiare, si limita a fare deduzioni su dati già ben noti ai teologi di fede cattolica. La recensione sopra da già una controargomentazione alle affermazioni di Pesce.


Hai ragione, non sono io il giudice in assoluto, ma ti domando chi lo è ? non certo chi li ha formulati non credi ?
Comunque credo di aver il diritto di essere giudice di me stesso e poter giudicare in cosa credere ed in cosa no.


E cosa dovrebbe fare la chiesa cattolica per giustificare i suoi dogmi a te? non sono cose dimostrabili scientificamente.
Miliardi di fedeli e migliaia di studiosi sono stati giudici di sè stessi e hanno scelto di credervi.
barnabino
00lunedì 11 dicembre 2006 00:51
Caro Teodoro,

Dunque non mi pare che conosci le tesi accademiche di Pesce al di là di questo libro. Io ho letto Antropologia delle origini cristiane e benchè non condivida affatto molte sue tesi mi pare comunque un'opera molto originale e sicuramente scientifica.


mi riferivo bensì ad opere di altro tenore (sempre sul Gesù storico), come la third quest o i tre tomi di Meier



Certo l'opus magnum dello storico cattolico John Meier rimane un'opera di rifermemento certa seppure non la sola degna di essere segnalata.

Certo Enzo Bianchi parla del libro di Pesce e Augias con elogio:

"Ne esce un testo di scorrevole lettura che offre anche al lettore non specialista, e in modo certamente incompleto e parziale, ma sostanzialmente equilibrato, una buona panoramica circa i problemi dibattuti dalla più recente ricerca storica su Gesù di Nazareth, i risultati che ha conseguito e le ipotesi che continua a formulare" (La Stampa, domenica 15 ottobre)

Come vedi le opinioni variano anche all'interno del mondo cattolico.

Shalom

[Modificato da barnabino 11/12/2006 1.15]

Teodoro Studita
00lunedì 11 dicembre 2006 09:36
Perché, Enzo Bianchi è cattolico?
Se fossi cattolico, su questo avrei qualcosa da ridire, quantomeno non citerei Bianchi come fulgido esempio di equilibrio dottrinale cattolico.
In ogni modo non posso criticare Pesce se non per le due cose che ho letto. Chiaro è che quando un umanista si pone al servizio del mercato, non sta facendo né ricerca né scienza, ma meretricio.
E' questo anche che, in ultima analisi, suscita un certo disgusto.
Cordialità,
barnabino
00lunedì 11 dicembre 2006 13:35

Chiaro è che quando un umanista si pone al servizio del mercato, non sta facendo né ricerca né scienza, ma meretricio



Finalmente un critica a Ravasi!

Shalom
spirito!libero
00lunedì 11 dicembre 2006 22:08
"Chiaro è che quando un umanista si pone al servizio del mercato, non sta facendo né ricerca né scienza, ma meretricio."

Be non mi sembra ne il primo ne l'ultimo che si mette a scrivere un libro divulgativo, che poi si sia messo "al servizio" del mercato, bisogna vedere cosa vuoi dire. Se intendi con tale espressione il fatto che abbia collaborato ad un libro non professionale, allora dichiaro aperte le case chiuse.

Saluti
Andrea

[Modificato da spirito!libero 11/12/2006 22.10]

spirito!libero
00lunedì 8 gennaio 2007 16:27
Risposta al Padre R. Cantalamessa
Diffondere la conoscenza del dibattito esegetico su Gesù è oggi necessario

Mauro Pesce


Il Padre Raniero Cantalamessa ha dedicato un lunghissimo articolo al libro "Inchiesta su Gesù" di Mondadori scritto da Corrado Augias (intervistatore) e da Mauro Pesce (intervistato). Lo scopo principale delle mie risposte ad Augias in questo libro è di esporre ad un pubblico vasto alcune delle questioni dibattute da decenni nell'esegesi di tutte le parti del mondo sulla base della competenza che mi sono fatto in quasi quaranta anni di studio. Leggo nell'articolo di Cantalamessa la forte preoccupazione che questa diffusione di opinioni esegetiche possa nuocere alla fede dei lettori. Da qui il bisogno che un ecclesiastico noto critichi questo libro in modo che i lettori siano vaccinati. Ma io mi domando: quale tipo di fede è quella che vacilla di fronte all'esposizione di opinioni esegetiche? La ricerca storica - almeno la mia e di molti, molti esegeti oggi - non è né per la fede, né per la non-fede. Non nasce da una ragione corrosiva ed "incredula". Rivendico l'autonomia della ricerca dalle fedi e dalle non fedi.

Il Padre Cantalamessa nell'intento di proteggere i lettori di Avvenire dal supposto pericolo rappresentato dal libro, mi attribuisce delle affermazioni che io non ho mai scritto, anzi, che ho esplicitamente criticato. Non credo che questo dipenda da una volontà di screditarmi ingiustamente, ma forse da una non perfetta conoscenza di una parte della ricerca esegetica e storica attuale, più che giustificata da parte di chi da tempo si occupa di altro. Siccome l'articolo mi attribuisce - non solo una o due volte, ma in continuazione - dei pareri che io non ho mai sostenuto, sono costretto a ribadire quello che ho effettivamente scritto.

1. Cantalamessa scrive che io sarei «sulla scia» del Il Codice da Vinci di Dan Brown. Mi stupisce l'affermazione del recensore. Ad una critica severa del libro di Dan Brown sono infatti dedicate le pagine 231-232 del libro. A mio parere, anzi, Cantalamessa non mette a fuoco il vero veleno di Dan Brown che è la falsificazione di tutti i documenti che fa finta di utilizzare e l'invenzione totale di un Gesù che considera un rito sessuale il centro dell'unione con Dio e concepisce tutta la storia in chiave occultista. La verità sarebbe per definizione occulta e solo una setta perseguitata la trasmetterebbe. Nessun esegeta professionista ha mai sostenuto questo e certamente non io e neppure Augias. La distinzione tra Gesù storico e Cristo della fede (che del resto mi appartiene poco) è cosa ben diversa dalle fantasie di Dan Brown.

2. Cantalamessa scrive: « Il filone scelto è quello che va da Reimarus, a Voltaire, a Renan, a Brandon, a Hengel, e oggi a critici letterari e «professori di umanità», quali Harold Bloom e Elaine Pagels. Del tutto assente l’apporto della grande esegesi biblica, protestante e cattolica, sviluppatasi nel dopo guerra, in reazione alle tesi di Bultmann, molto più positiva circa possibilità di attingere, attraverso i Vangeli, il Gesù della storia». Questa affermazione deforma completamente quello che ho scritto. Io ho criticato Voltaire (pagine 47-4[SM=g27989]. Il libro di Renan su Gesù non mi è mai piaciuto. Di Brandon ho scritto decine di pagine di critica aspra per dimostrare che la sua idea di un Gesù rivoluzionario politico-militare è esegeticamente infondata. Del libro di Bloom, non ho avuto il tempo che di sfogliare qualche pagina. Martin Hengel è uno studioso di fama mondiale che appartiene invece alla grande esegesi. Dire che la grande esegesi è «del tutto assente» dalle mie risposte è una vera e propria offesa. Sono stupefatto. Ho avuto come maestri Heinrich Schlier, Jacques Dupont e Rudolf Schnackenburg. Mi sono sempre ispirato a W.G.Kümmel e Ph. Vielhauer. Nei miei libri e articoli sul Vangelo di Giovanni e anche nel libro scritto con Augias tengo conto costantemente dell'esegesi che Raymond Brown e Schnackenburg hanno fatto del Vangelo di Giovanni, per non parlare di Theissen, Sanders, Dunn, Meeks, Milgron, Levine e infiniti altri. Ed è francamente assurdo rimproverare a me di ignorare Brown o Schnackenburg, visto che sono stato uno di quelli in Italia che li ha sempre utilizzati quando il defunto Padre de la Potterie al Pontificio Istituto biblico cercava di limitarne l'influsso, perché li riteneva troppo audaci, per non parlare del sospetto con cui investiva il Padre Boismard. Da più di vent'anni dirigo una rivista specialistica tra le più importanti di studi esegetici. Non riesco a capire perché il padre Cantalamessa voglia dare di me un'immagine così deformata.

3. Il padre Cantalamessa scrive: «All’uso selettivo degli studi corrisponde un uso altrettanto selettivo delle fonti. I racconti evangelici sono adattamenti posteriori quando smentiscono la propria tesi, sono storici quando si accordano con essa». Se questo fosse vero io sarei un esegeta poco serio e senza metodo. Al contrario, in quaranta anni di lavoro esegetico, ho elaborato una precisa e articolata criteriologia per la ricerca degli elementi più antichi e più vicini alla figura storica di Gesù. Era ovvio che nelle poche frasi di un'intervista non potevo ogni volta procedere alla dettagliata dimostrazione esegetica che esige decine e decine di pagine. Il padre Cantalamessa ha tutto il diritto di non essere d'accordo con la mia esegesi: non lo chiedo neppure ai dottorandi in scienze bibliche da me diretti. Ma non può dire ai suoi lettori che infrango le regole elementari dell'onestà metodologica.

Ad esempio, io sostengo che la concezione del perdono dei peccati di Gesù è diversa da quella della chiesa primitiva. Il testo che mi permette di attingere la visione di Gesù è una delle invocazioni del Padrenostro che ritengo assolutamente certo essere gesuano. La versione di Matteo delle parole dell'ultima cena mi sembra invece influenzata da una cristologia successiva, ma lo ritengo sulla base di un confronto dei racconti del battesimo da cui risulta che la frase "in remissione dei peccati" fu probabilmente tolta da Matteo al battesimo del Battista per attribuirla a Gesù. Ma è una ipotesi scientifica, fatta con metodo, e quindi verificabile (o falsificabile).

4. Il padre Cantalamessa scrive che secondo me le «scoperte di nuovi testi … avrebbero modificato il quadro storico sulle origini cristiane. Esse sono essenzialmente alcuni Vangeli apocrifi scoperti in Egitto a metà del secolo scorso, soprattutto i codici di Nag Hammadi». Anche questo non corrisponde a verità. Per me i testi gnostici di Nag Hammadi hanno ben poca importanza per il Gesù storico. Il lettore vedrà che i cosiddetti apocrifi che a volte cito sono il Protoevangelo di Giacomo che sostiene la verginità di Maria, l'Ascensione di Isaia e la Didaché che non sono vangeli e non sono gnostici perché contengono tradizioni più antiche del Vangelo di Matteo, secondo la grande esegesi degli ultimi trent'anni. Cito poi il Vangelo di Pietro che, secondo storici molto cauti (e non solo secondo J.D. Crossan) contiene un racconto della passione che nella sua fase di redazione più antica potrebbe essere addirittura premarciano. Cito anche il Vangelo del Salvatore che non è gnostico da nessun punto di vista, ma non credo affatto che sia più antico del Vangelo di Giovanni. Lo cito semplicemente per informare il pubblico italiano di una scoperta molto importante della fine degli anni Novanta che non ha avuto alcuna ripercussione in Italia. Sul Vangelo di Tommaso la ricerca esegetica è molto più complessa di come la presenta il padre Cantalamessa e io mi sono limitato ad esporre un parere esegetico molto cauto, quello di J.D. Kaestli, che gode di fama inossidabile, il quale ritiene che alcune parti di Tommaso siano indipendenti dai Sinottici e altre no e che bisogna valutare caso per caso. D'altra parte i monaci cristiani antichi sembra che abbiano utilizzato per secoli il Vangelo di Tommaso come nutrimento spirituale, come emerge dagli scritti spirituali dello Pseudo-Macario.

Soprattutto io non credo affatto che il Gesù storico si trovi nei vangeli gnostici. Quando Augias mi ha interrogato sull'essenza del messaggio di Gesù ho risposto: «Luca è a mio parere colui che ha meglio compreso l'essenza del suo messaggio» (p.221).

Inoltre ho scritto: «altri danno credito a certi scritti apocrifi, negando quasi per principio ogni attendibilità ai testi canonici o alle affermazioni delle chiese» (p. 235). Perché dire al lettore che io ho scritto cose che non ho mai affermato e pensato?

Il mio interesse per scritti non canonici del primo cristianesimo nasce negli anni Settanta quando volevo integrare la mia preparazione di specialista delle lettere di Paolo. Questo interesse si è incanalato nella Association pour l'Etude de la Littérature apocryphe chrétienne divenuta in trent'anni una delle organizzazioni scientifiche più serie in tutto il mondo. Questa associazione che raccoglie i migliori esegeti francesi, svizzeri, italiani, europei (e ora anche americani) ha letteralmente rinnovato lo studio del cristianesimo antico proprio grazie all'edizione critica e commento storico di un numero cospicuo di fonti trascurate come «apocrife», ma i testi gnostici sono stati del tutto marginali in questa associazione. Basti vedere le edizioni critiche e la raccolta in due grandi volumi presso la Pléiade.

5. Il padre Cantalamessa scrive: «i vangeli apocrifi professano tutti, chi più chi meno, una rottura violenta con l’Antico Testamento, facendo di Gesù il rivelatore di un Dio diverso e superiore». Mi dispiace doverlo contraddire, ma non è vero che «tutti» i vangeli apocrifi presentino una rottura violenta con le sacre scritture ebraiche. Molti vangeli apocrifi non sono gnostici e non presentano la contrapposizione tra messaggio cristiano e sacre scritture ebraiche che molti testi gnostici invece sostengono.

Ma poi, sia detto una volta per tutte, nel libro io utilizzo pochissimo gli scritti apocrifi. Li cito solo qua e là. Non capisco perché concentrare tanta attenzione su questo elemento marginale.

6. Il padre Cantalamessa passa immediatamente dopo a parlare della « rivalutazione della figura di Giuda nel vangelo omonimo» e si domanda: «Si è disposti a seguire i vangeli apocrifi su questo loro terreno?». Il lettore di Avvenire ha così l'impressione che io sostenga le teorie del Vangelo di Giuda. Nel libro invece io ho scritto: «Questo testo non ci offre alcuna notizia storica attendibile né sulla figura di Gesù né su quella di Giuda. E' una specie di controvangelo, scritto per contestare i vangeli di Giovanni e di Matteo per condannare le idee e le pratiche religiose della Chiesa maggioritaria, che si rifaceva ai dodici apostoli» (p.229). In agosto 2006, ho pubblicato su una rivista francese un articolo in cui dimostro filologicamente che il Vangelo di Giuda dipende dai vangeli di Giovanni e di Matteo e forse anche da Marco e Luca, oltre che dagli Atti degli Apostoli e un mio articolo più argomentato è imminente presso la rivista Humanitas. Come posso essere sospettato di attribuire attendibilità ad uno scritto del genere?

7. Il padre Cantalamessa mi accusa di non utilizzare Paolo per ricostruire la figura storica di Gesù. Scrive: «La sua testimonianza viene solo discussa a proposito della risurrezione, ma per essere naturalmente screditata». Mi domando: perché io screditerei «naturalmente» la testimonianza di Paolo? Io, come storico, nutrito di qualche conoscenza antropologica prendo molto sul serio quando un testo mi dice che si sono verificate delle apparizioni del risorto. Io credo che realmente Paolo e i primi discepoli ebbero delle apparizioni. E mi sono anche domandato in qual luogo, in quale zona di un grande edificio avesse potuto verificarsi un'apparizione a cinquecento persone. Il padre Cantalamessa sembra irridere al tentativo di alcuni esegeti di interpretare le apparizioni come «stati alterati di coscienza». Questa espressione tecnica non significa affatto che una persona è «alterata». Significa solo che esistono stati di coscienza diversi dal normale. Questi esegeti, di cui io riporto solo l'opinione, ritengono che le neuroscienze permettano di capire come le apparizioni possano verificarsi e come entità «soprannaturali» possano entrare in contatto con la coscienza degli uomini e si rifanno anche alla teoria dei cosiddetti stati alterati di coscienza. Ma questa spiegazione può poi essere interpretata in due modi. Alcuni, come John Pilch della Georgetown University, che ne ha scritto più volte presso case editrici cattoliche americane, ritengono che le realtà soprannaturali entrino realmente in contatto con l'uomo. Altri ritengono che si tratti di un fenomeno psichico interamente autogenerato dal cervello umano e influenzato da logiche collettive. Io non ho preso posizione, perché non mi intendo di neuroscienze. Da storico che si interessa anche ad aspetti antropologici del cristianesimo primitivo mi è sembrato doveroso/importante informare i lettori di questo settore di ricerca, che offre materiale interessante al dibattito scientifico.

8. Il padre Cantalamessa scrive: Secondo Pesce «il cristianesimo "nasce addirittura nella seconda metà del II secolo". Come conciliare quest’ultima affermazione con la notizia degli Atti degli apostoli (11, 26) secondo cui, non più di sette anni dopo la morte di Cristo, circa l’anno 37, "ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani"»? Qui sono costretto a rimandare ai molti libri e decine di articoli che da venti anni discutono la questione. L'interpretazione che dà il padre Cantalamessa di questo testo è oggi variamente contestata. Rimando ai diversi contributi del volume di Annali di Storia dell'Esegesi dal titolo "Come nasce il cristianesimo" (Edizioni Dehoniane, Bologna, 2004), agli studi di Judith Lieu, ecc. Gran parte del problema sta nel precisare cosa si intende per cristianesimo da un punto di vista storico. L'apparire della parola cristianesimo del resto non è anteriore - allo stato attuale delle conoscenze - al primo decennio del II secolo.

9. L'idea che il cristianesimo fin dall'inizio presenti una pluralità di posizioni e che solo ad un certo punto si affermi un cristianesimo normativo è tesi storica che è ampiamente diffusa almeno dalla metà degli anni Trenta del XX secolo e che oggi mi appare largamente prevalente. Credo che proprio un patrologo cattolico, Alain Le Boulluec, abbia tempo fa mostrato come il concetto di eresia faccia la sua apparizione nel cristianesimo antico alla metà del secondo secolo e che il termine airesis assuma allora il significato negativo che ha poi assunto.

10. Un ultimo punto. Il padre Cantalamessa mi accusa di sottolineare «sempre» le divergenze, e «mai» le convergenze tra i Vangeli canonici. In realtà, io sottolineo a volte differenze tra alcuni testi e a volte somiglianze tra altri testi. Somiglianze e dissimiglianze si aggregano e si disaggregano. Io non sono preoccupato di difendere l'unità del Nuovo Testamento, perché questa collezione di scritti è ben posteriore a Gesù, a Paolo e alla redazione dei primi vangeli, che è l'epoca che mi interessava nel libro.

Il padre Cantalamessa dice concludendo che ci divide la fede. Non sono d'accordo. La fede non mi divide da nessuno. La ricerca storica non divide, se non da altre opinioni storiche. Ricondurre tutto a fede e non fede o addirittura fede-incredulità, significa compromettere un sereno e libero dibattito. La notizia dell'articolo polemico di Cantalamessa mi è giunta quando ero negli Stati Uniti per partecipare a quella che è forse la riunione principale di tutti i biblisti del mondo. In essa circa cinquemila docenti di Facoltà laiche o teologiche discutono con acribia, ma anche con estrema libertà, di ogni questione esegetica, senza nessuna censura o condanna. Questa appassionata ricerca, solida, documentata, arriva ormai anche al grande pubblico e continuerà sempre più ampia e inarrestabile anche nei prossimi decenni. Bisogna conoscerla, farla conoscere e - ovviamente - scegliere criticamente ciò che ciascun competente ritiene valido.

fonte: www.mauropesce.net/
Teodoro Studita
00lunedì 8 gennaio 2007 23:58
Pesce è un furbone. Chi ha letto il libro avrà notato come pesa le parole in maniera volutamente ambigua. Da una parte deve "vendere", dicendo quello che la gente vuole sentirsi dire: chiesa antisemita, complotti, vangeli segreti, idiozie di ogni sorta. Dall'altra parte non può compromettersi nei confronti del lavoro serio che di norma svolge.
Il vero problema di quest'uomo è il rapporto con il denaro. La sua risposta è il manifesto della prostituzione, un colpo al cerchio, e uno alla botte.

barnabino
00martedì 9 gennaio 2007 10:26

L'apparire della parola cristianesimo del resto non è anteriore - allo stato attuale delle conoscenze - al primo decennio del II secolo



Sarà pure la posizione accademica più attestata ma mi pare esagerata, di fatto ignora il libro degli Atti che per quanto possa essere tardo risale alla seconda metà del I secolo e riporta tradizioni precedenti.

Shalom
spirito!libero
00martedì 9 gennaio 2007 12:30
Re:

Scritto da: barnabino 09/01/2007 10.26

L'apparire della parola cristianesimo del resto non è anteriore - allo stato attuale delle conoscenze - al primo decennio del II secolo



Sarà pure la posizione accademica più attestata ma mi pare esagerata, di fatto ignora il libro degli Atti che per quanto possa essere tardo risale alla seconda metà del I secolo e riporta tradizioni precedenti.

Shalom



Perchè in atti vi sarebbe la parola "cristianesimo" ?
barnabino
00martedì 9 gennaio 2007 12:50
In Atti si dice che ad Antiochia, per la prima volta, i seguaci di Gesù furono chiamati cristiani, questo indica che fin da quell'epoca essi erano percepiti ormai come un gruppo separato del giudaismo, il cristianesimo.

Che non venisse usata la parola cristianesimo" mi pare indifferente, vi era un gruppo con caratteristiche tali da essere da essere ben distinto e riconoscibile.

Ciao
spirito!libero
00martedì 9 gennaio 2007 14:00
Re:

Scritto da: Teodoro Studita 08/01/2007 23.58
Pesce è un furbone. Chi ha letto il libro avrà notato come pesa le parole in maniera volutamente ambigua. Da una parte deve "vendere", dicendo quello che la gente vuole sentirsi dire: chiesa antisemita, complotti, vangeli segreti, idiozie di ogni sorta. Dall'altra parte non può compromettersi nei confronti del lavoro serio che di norma svolge.
Il vero problema di quest'uomo è il rapporto con il denaro. La sua risposta è il manifesto della prostituzione, un colpo al cerchio, e uno alla botte.




Norelli non è d'accordo con te, sentiamo il suo punto di vista:

Enrico Norelli

Professore di Storia del cristianesimo delle origini all’università di Ginevra



Intervento sul libro Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce

[vedi anche La Repubblica, 2 gennaio 2007, che riporta questo testo in forma abbreviata]




L’Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce è una risposta seria alla necessità urgente di proporre i risultati delle complesse ricerche degli specialisti a un pubblico più largo, il quale dispone per lo più di trattazioni orientate da un’opzione di fede o di libri che promettono, più o meno esplicitamente, di aiutare lo sviluppo del senso critico rivelando “tutto quel che la chiesa ha sempre voluto nascondere” mentre s’ispirano al più avvilente dogmatismo.

Ho trovato questo libro, nel suo complesso, corretto, misurato, intelligente: un aiuto reale per chi, non essendo uno studioso delle origini cristiane, s’interroghi sulla figura storica di Gesù. Certo, contiene affermazioni che si possono discutere. Ma credo che le dure critiche che mi è avvenuto di leggere a suo riguardo non solo siano largamente ingiustificate nel merito, ma soprattutto contengano errori di metodo, che danneggiano, essi sì, il lettore non specialista.

Che cosa si può conoscere storicamente di Gesù? La conoscenza storica, qual è praticata oggi, ha le sue regole. Una di esse, che ci riguarda qui, è che non è lecito allo storico pronunziarsi sulla realtà di Dio e sulla sua azione nella storia. Chi fa storia metterà in luce le maniere in cui donne e uomini hanno sviluppato credenze religiose, caratterizzerà tali credenze, i loro presupposti, le loro trasformazioni e le conseguenze che hanno prodotto; spiegherà in che modo determinati gruppi hanno creduto che la divinità agisse nel mondo, e in quali maniere hanno creduto di mettersi in rapporto con essa. Ma non assumerà Dio come attore dei processi storici, perché l’esistenza di un Dio non lo riguarda, diversamente da quella di Alessandro il Grande o di Lenin. Da poeta cristiano, Alessandro Manzoni ha potuto chiedersi se e come Dio avesse agito in Napoleone; ma uno storico che volesse spiegare l’attività di Napoleone affermando che Dio si è servito di lui susciterebbe, a ragione, l’ilarità generale.

Il caso di Gesù di Nazaret non è diverso. Lo storico non si pronunzia sulla sua divinità, per la semplice ragione che si tratta di una questione estranea al suo campo e ai suoi mezzi d’indagine. E’ dunque letteralmente priva di senso l’obiezione, mossa al libro Inchiesta su Gesù dal P. Giuseppe De Rosa nel numero 3755 della Civiltà cattolica, di aver negato la divinità di Gesù. Se Pesce e Augias avessero negato la divinità di Gesù, avrebbe avuto ragione di protestare, ma non per la negazione, bensì perché se ne sarebbero occupati; avrebbe dovuto biasimarli allo stesso modo se l’avessero affermata. In realtà, a me pare che la questione della divinità resti completamente, e doverosamente, fuori dell’orizzonte del libro. Altra cosa è affermare che i credenti in Gesù hanno ammesso la sua divinità: ciò è di competenza dello storico, il quale peraltro può mostrare che non tutti i documenti cristiani più antichi lo hanno fatto.

Per la medesima ragione non condivido le considerazioni del P. Raniero Cantalamessa nell’Avvenire del 18 novembre, là dove, verso la fine del suo articolo consacrato al libro, afferma che fede e incredulità condizionano la ricerca storica allo stesso modo, anzi la seconda “enormemente di più”. Infatti, se per “fede” intende la disponibilità a spiegare mediante l’intervento di Dio dei fenomeni per i quali i nostri attuali paradigmi culturali non ci consentono spiegazioni, si tratta di un atteggiamento incompatibile con il metodo storico quale oggi è universalmente accettato. Se per “incredulità” intende la ricerca, per i medesimi fenomeni, di spiegazioni accettabili dai paradigmi delle “scienze umane” (nella consapevolezza che tali spiegazioni saranno superate un giorno dall’affermarsi di altri paradigmi), questo è un atteggiamento compatibile con il metodo storico. Tutto qui. Le due posizioni non possono essere rifiutate allo stesso modo.

Del resto, la foga polemica conduce talora Cantalamessa a presentare in maniera distorta il pensiero di Pesce. Nel contesto ora citato, afferma che, se ci si accosta a Cristo da non credente, “i miracoli [non potranno che essere] frutto di suggestione”. Ora Pesce afferma esattamente il contrario, basta leggere a p. 134: “io stesso mi sono convinto che è necessario ammettere l’esistenza di persone in grado di compiere autentiche guarigioni considerate ‘miracolose’, per le quali non esiste una spiegazione scientificamente verificabile. (...) La sua effettiva capacità taumaturgica (...) La sua capacità di fare miracoli (...)”. Anzi, Pesce cita anche episodi come le resurrezioni, il controllo delle forze della natura, la moltiplicazione del cibo, commentando: “sono convinto che questi episodi non siano stati inventati, ma che i suoi seguaci furono realmente convinti di avere assistito a quei fatti straordinari”. Senza ombra di dubbio, Pesce si rende conto che con affermazioni del genere si situa su di un terreno sul quale molti esegeti, tra cui anche dei cattolici, farebbero fatica a seguirlo. In generale, le persone competenti avrebbero il dovere, e il pubblico più ampio avrebbe il diritto, di sapere che – diversamente da quanto insinuano gli articoli che lo criticano – Pesce ha una fiducia nell’attendibilità dei racconti evangelici assai ampia rispetto alla media degli esegeti.

La foga polemica mi sembra anche trascinare il P. Cantalamessa a errori evidenti, come quando se la prende con “la tesi della totale estraneità delle autorità ebraiche alla morte di Cristo”, evidentemente dimenticando quanto Pesce afferma alle p. 160-161 sull’appoggio di una parte delle autorità di Gerusalemme alla condanna di Gesù. Non posso evitare di credere tale foga responsabile anche della furibonda tirata di Cantalamessa contro gli apocrifi, che si stenta a ricondurre a uno studioso competente come lui nel campo della letteratura cristiana antica. Come si può affermare che i critici più arditi “arrivano, con congetture, a datarli (= gli apocrifi) all’inizio del III o a metà del II secolo”, quando citazioni da parte di autori ben datati, o papiri databili paleograficamente, consentono di assegnare praticamente con certezza al II secolo una quantità di apocrifi, tra cui il Vangelo di Pietro, il cosiddetto Protovangelo di Giacomo, i vangeli degli Ebrei e degli Egiziani, il Vangelo di Tommaso (abbiamo frammenti di due copie degli inizi del III secolo), la Predicazione di Pietro, l’Apocalisse di Pietro, e altri, senza menzionare quelli che si possono attribuire con enorme probabilità al II secolo sulla base del loro contenuto, come l’Ascensione di Isaia? E come si può affermare che “i vangeli apocrifi professano tutti [sic!], chi più chi meno, una rottura violenta con l’Antico Testamento”, quando, per esempio, tra quelli ora menzionati, questo si può proporre tutt’al più, con molta incertezza, per il solo Vangelo di Tommaso, dove comunque tale tema non è minimamente esplicito? Non si dovrebbe accusare altri di distorcere i fatti storici e la valutazione delle fonti mentre si fa lo stesso, contribuendo a mantenere nei lettori un’immagine distorta degli apocrifi, dei quali negli ultimi decenni si è scoperta l’importanza fondamentale per conoscere la storia e il pensiero delle più antiche comunità cristiane.

Pesce, del resto, non privilegia gli apocrifi rispetto ai vangeli divenuti canonici; basta scorrere il libro per rendersi conto che si fonda incomparabilmente più sui secondi che sui primi, e inoltre afferma (p. 221) che il vangelo che ha meglio compreso Gesù è quello di Luca. Ciò che se mai desidera a giusto titolo mettere in evidenza è che bisogna prendere in considerazione tutti i vangeli anticamente in circolazione per poter comprendere come sono state trasmesse le parole di Gesù e i racconti su di lui, il che è necessario anche per capire come sono nati i vangeli poi canonizzati.

Credo che un punto cruciale, cui non a caso dedicano ampio spazio sia Cantalamessa che De Rosa, sia la questione dell’ebraicità di Gesù. Nessuno dei due la nega, né lo potrebbe, ma entrambi tengono a sottolineare la continuità tra Gesù ebreo e il cristianesimo; ora però, siccome “ebreo” non è “cristiano”, sono obbligati a mettere l’accento sulle novità dell’insegnamento di Gesù. Questo finisce con il condurre a delle acrobazie, soprattutto nel caso del P. De Rosa: “Gesù, sulla scia dell’antica Legge, proclama una Legge nuova, che non contraddice la prima, ma la compie”, per esempio con il comandamento dell’amore del nemico: ma se non c’è contraddizione, come si può dire che tali cose escono da ciò che è “integralmente ebraico”? “Compimento” equivale a “uscita”? (Muovendo lo stesso tipo di critica, De Rosa collega il “compimento” con la discontinuità, Cantalamessa con la continuità.) Il punto è che simili posizioni sono accettabili solo a partire dal presupposto che il giudaismo è inevitabilmente una religione formalista ed egoista, incapace di amare il nemico e di pregare per il persecutore, nonché di credere che l’amore di Dio è più forte dell’impurità; che interpretare i comandamenti in maniera radicale, estendendo per esempio all’insulto il divieto di uccidere, come avviene nelle “antitesi” citate al riguardo da Cantalamessa, è impossibile per un “ebreo”. Che Gesù interpreti spesso la Legge in maniera diversa da altri, tra cui possono esservi talora dei farisei, è chiaro; che questo significhi uscire dal giudaismo, lo è molto meno, e dietro un’idea del genere, malgrado ogni intenzione contraria, l’antigiudaismo è sempre in agguato. E se Cantalamessa, ironicamente, invita a chiedere agli ebrei cosa pensino di un Paolo “ebreo e non cristiano” (credo del resto che attualmente avrebbe delle sorprese), perché non invita a fare lo stesso anche per Gesù? Forse perché troppi, ormai, sono gli studiosi ebrei autorevoli che difendono l’ebraicità integrale di Gesù?

Molto altro sarebbe da dire, ma desidero terminare con una osservazione critica su di un punto della conclusione di Augias: la trovo in generale equilibrata, come ogni altro suo intervento nel libro, ma questo punto mi pare importante, e mi permette di riallacciarmi a quanto scrivevo all’inizio. Interrogandosi sull’enigma della grandezza di Gesù e della sua immensa influenza, Augias afferma (p. 241) che per un cristiano la spiegazione è semplice, viene dalla fede che Gesù è il Figlio di Dio, e “per qualunque cristiano il discorso può finire a questo punto”, mentre il non cristiano continuerà a porsi la domanda “è possibile parlare di Gesù e raccontarlo come un qualunque altro protagonista della storia, prescindendo cioè dalla sua ‘divinità’?”. Ebbene, io che cerco di essere cristiano non rinunzio affatto a quest’ultima domanda. Proprio quella che è divenuta l’ortodossia cristiana ha sempre affermato l’umanità di Gesù e, se è così, il credente non può rinunziare a cercar di capire Gesù come essere umano, sul piano storico. Al contrario: è vero che la ricerca storica non potrà mai “dimostrare” la divinità di Gesù (non lo potrebbe neanche se, per ipotesi che ritengo assurda, giungesse a concludere che tutto quanto gli attribuiscono i vangeli ha avuto luogo letteralmente, perché comunque non potrebbe logicamente dedurne la divinità, tale passaggio essendole per definizione estraneo); ma per lasciar afferrare la propria vita dalla forza di Gesù, per avere “fede” in lui, è necessario incontrare quest’uomo vissuto in terra d’Israele quasi duemila anni fa. Stranamente, e certo contro le intenzioni di Augias, questo suo enunciato lascerebbe pensare che l’approccio di questo libro è, secondo lui, tipico del non credente, mentre tipico del credente sarebbe quello della fede. Su tale opposizione non posso seguirlo, e sono convinto che i cristiani, non meno degli altri, hanno un gran bisogno di un libro come questo e dovrebbero esserne grati a lui e al professor Mauro Pesce.

Teodoro Studita
00martedì 9 gennaio 2007 15:12
Mi spiace ma sono abbastanza convinto da quanto ho affermato. Lo stesso intervento pocanzi proposto riporta una frase di Pesce che esprime benissimo l'ambiguità di "un colpo al cerchio e uno alla botte":

“sono convinto che questi episodi non siano stati inventati, ma che i suoi seguaci furono realmente convinti di avere assistito a quei fatti straordinari”

Questa frase può voler dire molte cose:
- che il miracolo c'è stato, ed è stato visto
- che c'è stato un evento strano, che è stato interpretato (bene o male che sia) come un miracolo
- che si è trattata di una palese suggestione di massa
e così via...

Tutta il libro è costruito così: Pesce non prende posizioni chiare sulle questioni "scomode" perché per la scienza ha un opinione, per il marketing un'altra. E quando deve esprimersi per forza è costretto a trovare queste formule... conciliative.
Non mi fa tenerezza solo perché ha fatto un sacco di soldi.

Cordialità,

Thommi
00martedì 9 gennaio 2007 16:03
“sono convinto che questi episodi non siano stati inventati, ma che i suoi seguaci furono realmente convinti di avere assistito a quei fatti straordinari”

A me questo passo mostra solo una volta di più la professionalità di Pesce nel fare le giuste distinzioni, con questo passo Pesce mette in luce che i miracoli possono esser stati veri miracoli oppure delle allucinazioni o esagerazioni collettive. Se si fosse sbilanciato di più sarebbe venuta meno la scientificità del suo pensiero.
Infatti dire a inizio frase "sono convinto" implica di tralasciare le idee di cui non è totalmente convinto.
In questo modo lascia liberi i lettori di appoggiare chi una chi l'altra opinione.
Pesce ha due o più opinioni differenti, ma non per questo non sono tutte scientifiche.
spirito!libero
00martedì 9 gennaio 2007 20:32
Re:
"A me questo passo mostra solo una volta di più la professionalità di Pesce nel fare le giuste distinzioni, con questo passo Pesce mette in luce che i miracoli possono esser stati veri miracoli oppure delle allucinazioni o esagerazioni collettive. Se si fosse sbilanciato di più sarebbe venuta meno la scientificità del suo pensiero."

Sono d'accrodo con Thommy. Difatti, Teodoro, come potrebbe uno scienziato disquisire di eventi di cui non abbiamo esperienza ?

Pesce non può pronunciarsi sui miracoli, ma può dire che storicamente c'era una tradizione orale, poi messa per iscritto, che raccontava di tali avvenimenti.

Saluti
Andrea
Teodoro Studita
00giovedì 11 gennaio 2007 00:23
Re: Re:

come potrebbe uno scienziato disquisire di eventi di cui non abbiamo esperienza ?



Perché abbiamo esperienza di qualcosa che riguardi il Gesù storico?
O ti pronunci o non ti pronunci, le frasi dette a mezza bocca tradiscono i veri intenti.

Polymetis
00giovedì 11 gennaio 2007 13:07
Un piccolo commento

“Ma non assumerà Dio come attore dei processi storici, perché l’esistenza di un Dio non lo riguarda, diversamente da quella di Alessandro il Grande o di Lenin. Da poeta cristiano, Alessandro Manzoni ha potuto chiedersi se e come Dio avesse agito in Napoleone; ma uno storico che volesse spiegare l’attività di Napoleone affermando che Dio si è servito di lui susciterebbe, a ragione, l’ilarità generale.”

Questa è storia o un metodo storiografico con una precisa base filosofica di base? Si ha cioè l’impressione che per ragionare di storia terrena occorra mettere Dio tra parentesi e cercare di spiegare tutto ciò che accade etsi deus non daretur, ma questa posizione che si spaccia per neutra in realtà appartiene ad un partito ben preciso come la tesi opposta. I Vangeli affermano l’opera di Dio nella storia, e cercare un’interpretazione alternativa che spieghi in modo del tutto immanente quanto avviene non è essere neutri ma postulare bellamente che Dio non esiste e che non agisce nella storia. Ovviamente qui non si vuole dimostrare che sia più giusto l’approccio di chi scorge la mano della provvidenza, bensì solo che anche la lente critica con cui si cerca di dare sempre una spiegazione puramente immanente ai fatti non è neutra ma un autentico partito preso. La storia così concepita non è la neutralità, è un metodo con dei precisi postulati filosofici sottostanti, esattamente come quello opposto del resto. Un esempio di questa forma mentis ci viene dato anche in seguito: “Per la medesima ragione non condivido le considerazioni del P. Raniero Cantalamessa nell’Avvenire del 18 novembre, là dove, verso la fine del suo articolo consacrato al libro, afferma che fede e incredulità condizionano la ricerca storica allo stesso modo, anzi la seconda “enormemente di più”. Infatti, se per “fede” intende la disponibilità a spiegare mediante l’intervento di Dio dei fenomeni per i quali i nostri attuali paradigmi culturali non ci consentono spiegazioni, si tratta di un atteggiamento incompatibile con il metodo storico quale oggi è universalmente accettato. Se per “incredulità” intende la ricerca, per i medesimi fenomeni, di spiegazioni accettabili dai paradigmi delle “scienze umane” (nella consapevolezza che tali spiegazioni saranno superate un giorno dall’affermarsi di altri paradigmi), questo è un atteggiamento compatibile con il metodo storico.”
Cioè vale a dire: è un postulato della ricerca storica seria che i miracoli non esistono. In realtà quando affermo che uno storico può dire qualcosa sulla divinità di Cristo non intendo dire che costui possa indagare l’ontologia e la metafisica, ma che possa fare una cosiddetta storia degli effetti. E’ da secoli che si cerca per all’appunto di spiegare questo fatto: se i miracoli non ci sono stati, perché una tradizione così vicina li riporta? La spiegazione uno è che gli evangelisti mentano, ma ciò richiedeva la postdatazione dei racconti perché non ci si possono inventare racconti di miracoli compiuti davanti a 5000 persone se il pubblico gerosolimitano che vi avrebbe assostito è ancora in vita. Si è allora passati alla seconda via, quella battuta da Pesce, ossia che i discepoli credevano davvero di vedere miracoli ma in realtà la cosa non era reale. Ora, visto il numero di miracoli riportati dai Vangeli, costoro erano allucinati dalla mattina alla sera. Anzi viene da chiedersi come si possa sostenere una cosa simile anche con miracoli come la moltiplicazione dei pani e dei pesci per 5000 persone, se lo sono sognati tutti contemporaneamente? Il punto scomodo per i laici è la vicinanza della tradizione orale e scritta hai fatti che racconta. Paolo già negli anni cinquanta ai Corinzi che non volevano credere alla risurrezione scrive che se non credono a lui possono recarsi a Gerusalemme a chiedere visto che Cristo apparve a cinquecento fratelli radunati assieme e la maggior parte di loro è ancora viva e pronta a testimoniarlo. Ora è questo il punto: come si spiega che a vent’anni di distanza dal presunto miracolo della resurrezione si sia formato un mito simile e con così tanti testimoni quando la storia delle religioni ci ha insegnato che i miti si formano in secoli e soprattutto hanno bisogno della scomparsa dei testimoni oculari per esplodere in fantasia? La risposta, ora che le datazioni delle lettere di Paolo sono universalmente accettate, è una sola: allucinazione collettiva. E’ questo ciò di cui tratto quando parlo di “storia degli effetti”, Abbiamo un esplosione chiamata cristianesimo, ma col “Gesù storico” che mai fece miracoli e mai risorse, ricostruito da certa storiografia, non abbiamo alcun fiammifero che possa aver innescato la miccia.- C’è un intero filone storiografico che ha il suo acme nel II volume di “Un ebreo marginale” di Meier che si impegna appunto a dimostrare come le spiegazioni naturali e allucinatorie dei miracoli, che fanno salva la buona fede degli evangelisti, sono insostenibili. A questo si riferiva Padre Cantalamessa quando affermava che la non fede condiziona ancora di più la ricerca, si deve ad un certo punto per far salvo il proprio ateismo far violenza alle fonti e darsi ad esibizioni da acrobata. Vorrei citare a questo proposito un testo di Ratzinger che è la trascrizione di una sua lezione tenuta quando insegnava ancora all’università di Tubinga sull’inseparabilità del Gesù storico da Cristo della fede:


Il dilemma della teologia moderna: Gesù o Cristo?

Dopo quanto abbiamo detto, può ancora meravigliarci che la teologia, in una maniera o nell'altra, cerchi di sfuggire al dilemma della contemporaneità di fede e storia, tanto più se fra le due si frappone la parete divisoria dello 'storico'? Così, oggi, c'imbattiamo, or qua or là, nel tentativo di sottoporre a verifica la cristologia sul piano storico, mostrandone l'evidenza malgrado tutto mediante il metodo dell' "esatto" e documentabile, oppure scegliendo molto più semplicemente di ridurla sbrigativamente a dato comprovabile. Il primo di questi tentativi non può riuscire, perché - come già abbiamo visto - il dato 'storico' in senso stretto implica una forma di pensiero che sottintende una limitazione al phainómenon (al documentabile), per cui non potrà mai far nascere la fede, allo stesso modo in cui la fisica non sarà mai in grado di far scaturire la professione di fede in Dio. Il secondo, poi, non potrà mai soddisfare pienamente, perché in tal modo non si riesce ad afferrare la totalità di quanto è allora accaduto e ciò che si propone come affermazione è in realtà espressione di una privata concezione del mondo e non il puro risultato di un'indagine storica. Ciò è stato messo in chiara evidenza da A. Schweitzer, nella sua Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia 1986, la quale mise così temporaneamente 'fine' agli sforzi fatti in tal senso. Ci limitiamo solo a riportare il seguente classico passo contenuto in tale opera: «Nulla è più negativo dei risultati offertici dalla ricerca sulla vita di Gesù. Il Gesù di Nazaret che si è presentato come Messia, che ha predicato la morale del regno di Dio, che ha fondato il regno dei cieli sulla terra ed è morto per dare il suggello consacratorio alla sua opera, non è mai esistito. Egli è una figura abbozzata dal razionalismo, vivificata dal liberalismo e rivestita di paludamenti storico-scientifici dalla teologia moderna. Questa immagine non è stata distrutta dall'esterno, ma è crollata invece dall'interno, dopo esser stata scardinata e disintegrata dai problemi concreti e storici...»: citato da W.G. Kummel, Il Nuovo Testamento. Storia dell'indagine scientifica sul problema neotestamentario, Il Mulino, Bologna 1976, 351.
Sicché a questi sforzi si accompagna sempre più il terzo tentativo, ossia di sfuggire completamente al dilemma storicistico lasciandoselo alle spalle come superfluo. È quanto avviene alla grande già in Hegel; e pure l'opera di R. Bultmann, sebbene si distingua da quella di Hegel, ha in comune la stessa direzione. Che ci si riduca all'idea o al kérygma non è senz'altro la medesima cosa; la distinzione, tuttavia, non è così totale come sembrano supporre gli stessi sostenitori della teologia-del-kérygma. Il dilemma in cui si dibattono ambedue le vie - da un lato quella di trasporre o ridurre la cristologia a storia (Historie), dall'altro quella di sfuggire completamente alla storia, lasciandosela alle spalle come superflua per la fede - si può benissimo riassumere nell'alternativa che tormenta la teologia moderna: Gesù o Cristo? La teologia inizia dapprima con il distaccarsi da Cristo per rifugiarsi in Gesù quale figura storicamente tangibile; razza dell'ortodossia farisaica, introducendo al posto dell'intollerante fede formale la fiducia semplice nel Padre, la fratellanza degli uomini e la vocazione a un unico amore. Ebbene, al posto di tutto questo, si sarebbe poi sostituita la dottrina dell'uomo-Dio, del 'Figlio', e così al posto della tolleranza e della fraternità, che sono la salvezza, una dottrina salvifica che può significare soltanto rovina e ha scatenato lotte su lotte, divisioni su divisioni. Donde la necessità di una nuova parola d'ordine: marcia indietro dal Cristo annunciato, oggetto di una fede che divide, e ritorno al Gesù che annuncia, all'appello alla potenza unificante dell'amore sotto l'unico Padre e con i molti fratelli.
Non si può certo negare che queste siano affermazioni incisive e stimolanti, alle quali non si può passare sopra tanto facilmente. Eppure, mentre Harnack stava ancora proclamando il suo ottimistico messaggio di Gesù, si sentivano già alla porta i passi di coloro che avrebbero portato la sua opera alla sepoltura. In quello stesso tempo, infatti, si fornivano già le prove che il Gesù di cui egli parlava era solo un romantico sogno, una fata morgana dello storico, il riflesso della sua sete e del suo desiderio che si dissolve a mano a mano ci si avvicina.
Bultmann imboccò così decisamente l'altra strada. Per quanto riguarda Gesù è assolutamente importante solo il 'che' (das Dass), il fatto che egli sia esistito; per il resto, la fede non si aggrappa a ipotesi così malsicure, sulle quali non c'è verso di raggiungere alcuna certezza storica, ma fa riferimento unicamente all'evento della parola nella predicazione, tramite il quale la chiusa esistenza umana viene aperta alla sua autenticità. Ma un vuoto 'che' (Dass) è forse più facile da sostenere di uno riempito di contenuto? Si è forse guadagnato qualcosa liquidando come insignificante la questione di chi, che cosa e come era questo Gesù e perciò legando così l'uomo a un semplice evento della parola? Quest'ultimo ha luogo senz'altro, giacché viene annunciato; ma la sua legittimazione e il suo contenuto di realtà continuano a rimanere, battendo questa via, quanto mai problematici.
Tenendo presenti questi problemi, è comprensibile che torni a crescere il numero di coloro che dal puro kérygma e dal Gesù storico, ridotto per così dire al fantasma del puro 'che', ritornano ora indietro al più umano fra gli uomini, la cui umanità appare loro, in un mondo sdivinizzato, come l'ultimo barlume del divino sopravvissuto alla 'morte di Dio'. Questo accade oggi nella cosiddetta 'teologia della morte di Dio', la quale ci dice che, sì, non abbiamo più Dio, ma ci è rimasto tuttavia Gesù come segno della fiducia che ci rincuora a proseguire il cammino. In un mondo svuotato di Dio la sua umanità deve diventare una specie di rappresentanza di quel Dio che non riusciamo più a trovare. Ma quanto poco critici sono, su questo punto, coloro che prima si atteggiavano a critici tanto da volere permettere unicamente una teologia senza Dio, semplicemente per non apparire alquanto superati agli occhi dei loro contemporanei progressisti! Del resto, bisognerebbe forse porre la questione già prima e riflettere se non si manifesti una pericolosa assenza di senso critico già nell'intenzione di praticare una teologia - discorso su Dio - prescindendo da Dio. Non c'è bisogno che ci occupiamo di questo; per quanto concerne la nostra questione, resta comunque assodato che non possiamo cancellare gli ultimi quarant'anni, e che il ritorno al solo Gesù ci è irrevocabilmente precluso. Il tentativo, eludendo il cristianesimo storico, di costruire un puro Gesù ricavato dagli alambicchi degli storici, del quale poi si dovrebbe poter vivere, è intrinsecamente assurdo. La semplice storia (Historie) non crea alcun presente, ma constata ciò che è stato. Pertanto, il romanticismo su Gesù è, in sostanza, altrettanto privo di avvenire e tagliato fuori dal presente quanto doveva esserlo la fuga nel puro evento della parola.
Tuttavia, l'oscillare dello spirito moderno tra Gesù e Cristo, le cui tappe più significative nel XX secolo ho cercato di enucleare, non è stato inutile. Penso che possa persino diventare un autentico segnavia, indicante che non esiste l'uno (Gesù) senza l'altro (Cristo), sicché si continua necessariamente a venir rimandati dall'uno all'altro, perché in verità Gesù sussiste soltanto come il Cristo e il Cristo non altrimenti che in Gesù. Noi dobbiamo fare un passo innanzi e, prima di ogni ricostruire, che può offrirci sempre e soltanto dei rifacimenti, ossia delle figure artificiose ricavate in un secondo tempo, cercare semplicemente di comprendere che cosa ci dica la fede, la quale non è ricostruzione, ma presenza, non è teoria, bensì realtà viva ed esistenziale. Forse dovremmo fidarci di più dell'attualità della fede che resiste ai secoli, fede che per sua stessa natura non ha voluto essere altro che un comprendere - comprendere, cioè, chi e che cosa sia veramente stato questo Gesù -; forse dovremmo contare più su di essa che sulla ricostruzione, la quale cerca la propria strada astraendo dalla realtà; perlomeno, però, dobbiamo cercare una buona volta di conoscere che cosa questa fede veramente dice.

L'immagine di Cristo nella professione di fede

Il Simbolo (apostolico), da noi seguito in questo libro come sintesi rappresentativa della fede, formula la sua professione di fede in Gesù con questa semplicissima frase: «... e (io credo) in Gesù Cristo». In essa, il fatto per noi più sorprendente è che, come nel linguaggio preferito dall'apostolo Paolo, il termine Cristo, il quale originariamente non era un nome, bensì un titolo ("Messia"), nel testo originale viene premesso al nome ('Cristo Gesù'). Ora, si può dimostrare che alla comunità cristiana di Roma, cui si deve la formulazione della nostra professione di fede, il termine Cristo era già ben noto in tutta la sua portata contenutistica. La sua trasformazione in un puro e semplice nome proprio, così come lo intendiamo oggi, si è verificata già nei primissimi tempi; tuttavia qui l'appellativo 'Cristo' viene ancora impiegato come designazione di ciò che in realtà questo Gesù è. La sua fusione col nome Gesù è, d'altronde, già molto avanzata, ci troviamo quasi all'ultima tappa nell'evoluzione del significato del termine Cristo.
Ferdinand Kattenbusch, il grande studioso del Simbolo apostolico, ha chiarito il dato di fatto con un azzeccatissimo esempio mutuato dalla realtà del suo tempo (1897). Egli lo paragona al nostro modo di dire quando si parla del 'Kaiser Guglielmo': qui il titolo di Kaiser è divenuto quasi parte integrante del nome, tanto indissolubilmente uniti vanno i termini Kaiser e "Guglielmo"; eppure tutti sanno che con questa parola non si esprime soltanto un nome, bensì una funzione. Qualcosa del genere troviamo anche qui, nell'abbinamento delle parole 'Cristo Gesù', che presenta la stessa formazione: Cristo è sì un titolo, ma è anche già una parte del nome proprio con cui si indica l'Uomo di Nazaret. In questo processo di fusione del nome col titolo, del titolo in nome, si riflette qualcosa di ben diverso da una delle tante sbadataggini della storia, di cui qui avremmo un esempio in più. In esso emerge piuttosto in piena luce il nucleo più profondo di quel lavoro di comprensione che è stato compiuto dalla fede nei confronti della figura di Gesù di Nazaret. La fede, infatti, ci viene appunto a dire che in quel Gesù non è possibile distinguere tra ufficio e persona: tale differenziazione è, nei suoi confronti, assolutamente priva di fondamento. La persona è l'ufficio, l'ufficio è la persona. Le due cose sono ormai inseparabili: qui non c'è alcuno spazio riservato al privato, all'Io, che in fin dei conti permane dietro le proprie azioni e attività, e perciò talvolta può essere anche 'fuori servizio'; qui invece non c'è alcun lo staccato dalla sua opera: L'Io è l'opera, e l'opera è l'Io.
Sempre stando all'autocomprensione della fede che si esprime nel Simbolo, Gesù non ha lasciato dietro di sé una dottrina che andrebbe distinta dal suo lo, come si possono raccogliere e apprezzare le idee dei grandi pensatori, senza interessarsi alla persona dell'autore. Il Simbolo non offre una dottrina di Gesù; è chiaro che non si è mai neppure pensato - cosa che a noi parrebbe tanto ovvia - di tentar qualcosa del genere, per la semplice ragione che la comprensione di fondo che lo ispirava portava in tutt'altra direzione. Allo stesso modo, sempre secondo l'autocomprensione della fede, Gesù non ha compiuto un'opera distinguibile dalla sua persona e quindi da presentare separata da essa. Comprenderlo come il Cristo vuol dire piuttosto essere convinti che egli ha messo se stesso nella sua parola: qui non c'è un Io che dice parole (come succede per noi), ma egli si è identificato con la sua parola a tal punto che lo e parola non si distinguono più uno dall'altra: egli è il Verbo, la Parola. E del pari, per la fede, la sua opera altro non è che un trasfondere-se-stesso senza riserve proprio in tale opera; egli si fa e si dà; la sua opera è il dono di se stesso.
Karl Barth ha espresso questa percezione della fede nel modo seguente: «Gesù coincide totalmente con il suo ufficio. Non è quindi prima uomo e poi, in aggiunta, detentore di tale ufficio... Non c'è un'umanità neutrale di Gesù... La memorabile affermazione di Paolo (2 Cor 5,16): "E anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così", potrebbe essere pronunciata anche a nome di tutti e quattro gli evangelisti. Essi erano completamente disinteressati a tutto ciò che quest'uomo poteva essere stato e avere fatto al di fuori del suo ufficio di Cristo, ossia prescindendo dall'esecuzione del suo incarico... Anche se ci dicono che egli ha avuto fame e sete, che ha mangiato e bevuto, che si è stancato, ha riposato e dormito, che ha amato, si è afflitto, si è adirato e ha persino pianto, con ciò essi sfiorano delle circostanze collaterali, in cui non viene mai alla luce qualcosa come una personalità autonoma rispetto alla sua opera, con determinate esigenze, inclinazioni e passioni a essa proprie... Il suo essere in quanto uomo è la sua opera». In altri termini: l'affermazione decisiva della fede a proposito di Gesù sta nell'inscindibile unità delle due parole 'Gesù Cristo', in cui si cela l'esperienza dell'identità di esistenza e missione. In questo senso si può effettivamente parlare di una «cristologia funzionale»: tutto l'essere di Gesù è funzione del 'per noi', ma anche la funzione è, appunto per questo, totalmente il suo essere.
Intendendo le cose in questo modo, si potrebbe alla fine davvero affermare che importanti non sono la dottrina e le azioni del Gesù storico in quanto tali, ma basta il semplice 'che'. Così infatti è se si comprende che questo 'che' intende l'intera realtà della persona, che in quanto tale è la sua dottrina, che in quanto tale coincide con la sua azione e in questo ha la sua irripetibile peculiarità e unicità. La persona di Gesù è la sua dottrina, e la sua dottrina è lui stesso. Pertanto, la fede cristiana, ossia la fede in Gesù in quanto il Cristo, è davvero 'fede personale'. Cosa ciò significhi, lo si può realmente comprendere solo a partire da quanto abbiamo detto. Una tale fede non è l'accettazione di un sistema, bensì l'accoglimento di questa persona che è la sua Parola, della Parola in quanto persona e della persona in quanto Parola.(…)

Uno stereotipo moderno del “Gesù storico”

Dobbiamo procedere con calma. Chi era propriamente Gesù di Nazaret? Quale comprensione ebbe di sé? Se dovessimo dar credito al cliché che oggi comincia a diffondersi largamente come forma di volgarizzazione della teologia moderna, le cose sarebbero andate più o meno così: bisognerebbe immaginarsi il Gesù storico come una specie di maestro profeta, il quale ha fatto la sua comparsa nell'atmosfera escatologicamente surriscaldata del tardo-giudaismo del suo tempo e qui, conformemente a tale situazione escatologicamente carica, annunciò l'avvento del regno di Dio. Questo sarebbe stato, all'inizio, un messaggio da comprendere in senso del tutto temporale: adesso viene il regno di Dio, la fine del mondo. D'altro canto però, l' "adesso" sarebbe in Gesù così accentuato che, a uno sguardo più profondo, il fattore tempo-futuro non potrebbe più essere considerato come l'elemento proprio del messaggio. Questo, piuttosto, lo si potrebbe cogliere - quantunque Gesù stesso pensasse a un futuro, a un regno di Dio - unicamente nell'appello alla decisione: l'uomo sarebbe totalmente vincolato all' "adesso" che di volta in volta irrompe.
Non soffermiamoci sul fatto che un messaggio talmente vuoto di contenuto, col quale si pretende di comprendere Gesù meglio di quanto non si comprese lui stesso, difficilmente avrebbe potuto dire qualcosa a qualcuno. Ascoltiamo piuttosto semplicemente come la vicenda sarebbe proseguita. Per motivi che non si potrebbero più ricostruire esattamente, Gesù sarebbe stato giustiziato, morendo come un fallito. Dopo di che, in maniera ancor sempre inspiegabile, sarebbe nata la fede nella sua risurrezione: l'idea, cioè, che egli sia di nuovo vivo, o comunque continui a contare qualcosa. A poco a poco, questa fede si sarebbe ulteriormente rafforzata, trasformandosi nell'idea, documentabile in maniera analoga anche attraverso altre fonti, che Gesù sarebbe ritornato in futuro come Figlio dell'uomo o come Messia. In un secondo tempo, si sarebbe infine retro-proiettata questa speranza sul Gesù storico, la si sarebbe posta in bocca a lui stesso, dando di lui, quindi, una nuova interpretazione. A questo punto, si sarebbe presentato il tutto come se lui stesso si fosse annunciato quale venturo Figlio dell'uomo o Messia. Ma subito dopo - così prevede il nostro cliché - il messaggio sarebbe passato dal mondo semitico a quello ellenistico. Ciò avrebbe avuto importanti conseguenze. Nel mondo giudaico si era data di Gesù un'interpretazione basata su categorie ebraiche (Figlio dell'uomo, Messia). Ora, nel mondo ellenistico, queste categorie risultavano incomprensibili; sicché qui si ricorse a modelli rappresentativi ellenistici. Al posto degli schemi semitici del Figlio dell'uomo e del Messia sarebbe subentrata la categoria ellenistica dell' "uomo divino" o dell' "uomo-Dio" (theós anér), mediante la quale si sarebbe ora resa comprensibíle la figura di Gesù.
L' "uomo-Dio" nel senso dell'ellenismo sarebbe, però, caratterizzato principalmente da due proprietà: sarebbe taumaturgo e di origine divina. Quest'ultima proprietà intende affermare che
egli discende in qualche modo da Dio in quanto Padre; ed è appunto la sua origine mezzo divina e mezzo umana che lo fa uomo-Dio, uomo divino. La trasposizione della categoria dell'uomo-divino su Gesù avrebbe avuto per conseguenza anche il trasferimento delle due tipiche note poc'anzi descritte. Così si sarebbe incominciato a descriverlo come taumaturgo, e dalla stessa radice sarebbe nato anche il 'mito' della sua nascita da una vergine. Questo avrebbe poi, a sua volta, condotto nuovamente a designare Gesù come Figlio di Dio, perché ora Dio appariva, nel mito, come suo Padre. In tal modo l'interpretazione ellenistica di Gesù come 'uomo divino', con le sue necessarie manifestazioni collaterali, avrebbe, infine, trasfigurato l'evento della vicinanza a Dio, che era stata caratteristica peculiare di Gesù, nell'idea 'ontologica' della sua origine divina. E su tale mitico tracciato sarebbe poi proseguita la fede dell'antica chiesa sino a fissare il tutto definitivamente nel dogma di Calcedonia, col suo concetto di Gesù ontologicamente figlio di Dio. Da questo concilio, con l'idea dell'origine ontologica di Gesù da Dio, tale mito sarebbe stato dogmatizzato e contornato di astrusa erudizione, sino al punto da elevare infine questo mitico asserto a parola d'ordine dell'ortodossia, capovolgendo così definitivamente il punto di partenza.
Tutto ciò, per chi pensa con mentalità di storico, è un quadro assurdo, anche se oggi trova schiere di gente che vi crede. Per parte mia, confesso candidamente, anche prescindendo dalla fede cristiana e basandomi solo sulla mia familiarità con la storia, di essere più facilmente disposto a credere che Dio si sia fatto uomo, anziché ad ammettere che un tale conglomerato di ipotesi colga nel segno. Non possiamo purtroppo permetterci, nel quadro qui tracciato, di addentrarci nei dettagli della problematica storica: ciò richiederebbe un'indagine assai vasta e minuziosa. Dobbiamo invece (e possiamo anche) limitarci al punto decisivo, attorno al quale tutto ruota: l'asserita figliolanza divina di Gesù. Quando ci si accinge all'opera con cautela di linguaggio, senza mescolare alla rinfusa tutto ciò che si vorrebbe volentieri veder collegato, in merito alla nostra questione si possono fare le constatazioni che seguono. (…) (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, Queriniana, psgg. 188-196; 203-206


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