Si vede come anche queste affermazioni non toccano se non in parte le diverse ipotesi esegetiche proposte per interpretare le cristofanie evangeliche. Non si tratta dunque di respingere a priori l'una o l'altra delle ipotesi interpretative proposte: occorre valutarle attentamente sulla base dei testi. Infatti la non-esistenza di una definizione della chiesa riguardo all'interpretazione di un passo biblico non significa che ogni interpretazione che ne venga data sia legittima o ammissibile. L'attività dell'esegeta è a servizio del testo. Essa deve proporre quell'interpretazione che meglio risponde a tutti i dati del testo e criticare le proposte interpretative che non sembrano far giustizia al testo stesso.
2. I racconti evangelici della risurrezione non sono frutto di una fede ingenua. Una seconda premessa riguarda il modo con il quale dobbiamo valutare le narrazioni evangeliche. Esse non sono il frutto di un realismo ingenuo, che sì contenta dì concretare con scene visive delle verità interiori. Abbiamo notato sopra l'estrema discrezione e prudenza degli evangelisti nel raccontare le apparizioni di Gesù. Essi sanno di trovarsi davanti a una materia che misteriosamente li trascende e per la quale occorre scegliere adeguatamente i mezzi espressivi. Sanno anche che le persone a cui è rivolto il messaggio non sono senz'altro credule. La chiesa si è trovata fin dall'inizio ad affrontare le negazioni razionaliste della risurrezione. Ciò avveniva non soltanto nel mondo greco (cfr. il discorso di Paolo ad Atene, At 17,22-31, e le negazioni di Corìnto, 1 Cor 15,12-52), ma anche nello stesso mondo giudaico, dove i sadducei negavano la risurrezione (cfr. Mc 12,18-27 e i passi paralleli di Mt e Le, nonché At 4,2; 23,
.
Non v'era quindi una predisposizione a priori per accettare gli aspetti “corporei” della risurrezione. Una trasposizione in senso spiritualistico o doceta avrebbe trovato molto più facile accettazione. Ciò fa ritenere che i racconti evangelici, nati e promulgati in questa situazione culturale, ne dovessero tener conto anche nel modo di espressione, senza indulgere a facili volgarizzazioni. Gli evangelisti che, come Luca nel capitolo 24, hanno descritto la presenza di Gesù tra i suoi con particolari realistici avevano a loro disposizione molti altri modi più « spirituali » per descrivere la presenza di un essere divino tra gli uomini. Se, di fronte a queste possibilità, hanno scelto un tipo di racconto concreto, vuol dire che avevano motivi gravi per farlo. L'esegeta, nella sua interpretazione, deve cercare di individuare questi motivi per valorizzarli adeguatamente.
Sulla base di queste premesse cerchiamo dunque di vedere che cosa vogliono sottolineare i racconti evangelici con il loro modo di descrivere la presenza del Risorto tra i suoi. Mi sembra che risaltino con chiarezza almeno gli elementi seguenti:
-L'assoluta irrefragabilità dell'esperienza che gli apostoli hanno avuto del Cristo. Essi si sono incontrati con lui in una maniera che li ha resi, anche attraverso il superamento delle prime titubanze e diffidenze, assolutamente certi della sua presenza e della sua vita di Risorto. Non hanno potuto dubitare di questi incontri, così come non possiamo dubitare di quelle realtà che formano il tessuto della nostra vita quotidiana.
-L'autenticità di testimonianza che ne deriva. Gli apostoli sono stati costituiti testimoni autentici della risurrezione attraverso un'esperienza che ha dato loro la possibilità e il mandato di presentarsi come tali.
-La reale inserzione del Cristo risorto nelle realtà quotidiane della nostra storia. Gli evangelisti hanno voluto indicare, con le allusioni discrete e pur teologicamente profonde del loro modo di parlare, che il Cristo risorto non è al di là o al di fuori della nostra realtà, ma è parte di essa; la vivifica ma dall'interno. Egli è agente di trasformazione del nostro mondo, e può incontrarsi con noi in maniera reale. L'importanza di questa affermazione è grandissima. II Cristo risorto non viene predicato come un'idea o un'astrazione (« l'opera di Cristo non muore »), ma come l’inizio della glorificazione del nostro mondo, l'apertura escatologica della storia che in lui ha già raggiunto il suo termine e che da lui riceve la speranza della sua destinazione alla rivelazione della gloria dei figli di Dio (cfr. Rm 8,18-21).
-La corporeità del Risorto. Se Cristo risorto può agire nel nostro cosmo a cui non è estraneo, ma di cui è parte, essendo di esso la primizia glorificata, egli ha un corpo. La percezione che gli apostoli hanno avuto di lui è percezione reale, non immaginaria.
V'è un altro elemento che probabilmente sottostà ad alcune sottolineature dei racconti, specialmente di Luca (24,39-43): la polemica antidoceta. Alla dottrina, già chiaramente affiorante nel I secolo cristiano, secondo cui Gesù non avrebbe sofferto né sarebbe risorto col suo vero corpo, ma solo con un corpo apparente, vengono contrapposti particolari realistici (probabilmente di origine tardìva) per sottolineare la realtà corporea di Gesù (cfr. anche Ignazio d'Antiochia, Lettera ai fedeli di Smirne 3,13; Evangelo secondo gli Ebrei citato da san Girolamo, De viris illustribus 16). Essi non vanno quindi probabilmente giudicati alla stessa stregua delle tradizioni anteriori, anche se sottolineano il senso fondamentale di esse, già sopra ricordato.
II corpo glorificato di Gesù può dunque, anche se in maniera misteriosa, agire sulla nostra realtà, sugli occhi e sui sensi. Si potrebbe forse dire - senza entrare nella complessità dei problemi filosofici connessi col concetto di corporeità - che del corpo Cristo risorto ha le qualità attive, in quanto può agire nel cosmo, ma non le passività, in quanto non è circoscrivibile, non può essere afferrato e chiuso dallo spazio e dal tempo. Un approfondimento dì questo tema dovrebbe procedere nella direzione tracciata da Paolo nella prima lettera ai Corinzi 15, basandosi cioè sul principio della continuità-diversità tra il corpo oggetto della nostra esperienza e il corpo dei risorti.
Riferendoci alle tre ipotesi proposte sopra, sembra si debba escludere un'ipotesi che legga i racconti come traduzione di un evento puramente interiore, e anche quella che li vedrebbe come una concretizzazione di un segno dal cielo che non sia l'incontro col Cristo stesso. Neppure però si deve insistere su una presentazione che mostri l'incontro dei discepoli col Cristo come quello
che sarebbe avvenuto per esempio con Lazzaro risuscitato. II Cristo risorto ha un corpo glorioso che si fa presente ai suoi in una maniera indubitabile, ma misteriosa, per la quale le categorie umane spazio-temporali non possono fornire né termini né immagini adeguate. Occorre anche ammettere un legame reale tra il corpo del Cristo morto e deposto nella tomba e il corpo glorificato. Non si tratta qui del problema teorico se sarebbe possibile concepire una glorificazione del Cristo che non riguardasse anche il corpo crocifisso e sepolto. A questa domanda alcuni rispondono dicendo che, come Dio opererà la risurrezìone finale di uomini i cui corpi saranno ormai da lungo tempo disciolti nei loro elementi costitutivi, entrati forse a far parte di altri organismi umani, così avrebbe potuto operare nel Cristo, dandogli un corpo glorioso, il quale sarebbe in continuità reale, ma non necessariamente fisica, col corpo sepolto. A questo proposito si sottolinea anche che la risurrezione gloriosa non va confusa con la semplice rianimazione di un cadavere. Tuttavia per il corpo di Cristo vi sono due cose da considerare. La prima è l'insistenza della tradizione antica sulla connessione sepoltura-risurrezione (cfr. 1 Cor 15,4) e sul ritrovamento della tomba vuota. A prescindere dal valore storico di queste tradizioni, siamo qui di fronte alla persuasione della chiesa primitiva di un legame reale tra la risurrezione e il corpo crocifisso del Signore: « Non è qui, ma è risorto » (Lc 24,6). La seconda è la speciale importanza storico-salvifica della risurrezione del Cristo crocifisso, primo della risurrezione tra i morti, che non può essere assimilata semplicemente e in tutto alla risurrezione finale dei credenti. Il corpo del Signore crocifisso posto nella tomba è quello in cui si è compiuta la redenzione del mondo. La risurrezione avviene poco dopo la morte, in stretto legame con l'evento della croce. Appare chiara la convenienza che questo corpo sepolto partecipi alla risurrezione, anche se in maniera misteriosa, perché siamo di fronte non a una rianimazione miracolosa (come nel caso di Lazzaro) ma alla risurrezione gloriosa. Come la chiesa rende presente il Cristo risorto? Si tratta infatti non solo di « predicare » Cristo risorto, ma di renderlo presente. E per questo occorre riportarsi al modo con cui la chiesa fin dall'inizio ha reso presente il Risorto: con la testimonianza. Per dare a questa parola il suo pieno significato, la specificheremo così: testimonianza apostolica, testimonianza delle Scritture, testimonianza dello Spirito. Sono tre elementi inscindibili secondo i quali il Cristo risorto si è fatto presente alla chiesa primitiva ed essa lo ha proclamato.
a) Testimonianza degli apostoli. La nostra fede riposa sulla fede apostolica. Essa è il punto di riferimento fondamentale di tutta la nostra predicazione. Non si può quindi accettare l'affermazione di Louis Evely, il quale, parlando della conoscenza che il cristiano ha della risurrezione, dice: « La questione fondamentale per noi è la seguente: credete voi che gli apostoli abbiano avuto altre prove diverse dalle nostre della risurrezione? » Egli suppone che noi possiamo avere un'esperienza nella chiesa che sia praticamente identica all'esperienza apostolica. Ma ciò è in contrasto con quanto afferma il Nuovo Testamento. Noi siamo in continuità con l'esperienza degli apostoli, la quale è l'esperienza primordiale e fondante. Nessuno nella chiesa può avere esperienza della risurrezione se non fondandosi in qualche modo sull'esperienza apostolica, giunta a noi attraverso la tradizione viva. V'è quindi una dimensione « magisteriale » nella proclamazione del mistero che va sempre rispettata, anche se, come vedremo, essa va completata con altre dimensioni, perché non si riduca a una pura rievocazione storica del passato.
b) Testimonianza delle Scritture. Insieme alla testimonianza apostolica ha molta importanza nel cristianesimo primitivo anche l'appello alle Scritture. Ad esse si fa richiamo esplicito nel dialogo tra Gesù e i discepoli di Emmaus (« O stolti e tardi di cuore a credere a tutto ciò che dissero i profeti! », Lc 24,2527) e nella nota del quarto evangelista alla costatazione della tomba vuota (« Non conoscevano infatti ancora la Scrittura, che egli doveva risorgere dai morti », Gv 20,9).
Si suppone che una conoscenza delle Scritture avrebbe permesso di intuire fin dai primi segni (come dall'annuncio delle donne, cfr. Lc 24,11) la gloria del Cristo risorto.
Di fatto vediamo che nelle proclamazioni kerygmatiche degli Atti degli Apostoli la risurrezione non è mai annunciata come un fatto isolato, ma in un contesto nel quale viene evocata la storia di salvezza (cfr. At 2,24.32; 3,15 e specialmente 13,33). La chiesa primitiva è conscia del fatto che è difficile accettare la testimonianza apostolica sul Risorto. Essa è di per sé incredibile per l'uomo che vive solo in un orizzonte terreno. Perché vi sia una qualche apertura per la sua accettazione, è necessario inquadrarla nell'iniziativa divina di salvezza. Chi conosce le Scritture, chi è educato a capire nella storia lo svolgimento del piano di Dio che salva l'uomo, trasformandolo e attraendolo a sé, e a vedere in Gesù il centro di questa storia, intenderà allora la risurrezione come il momento culminante di questo progetto divino. Se essa è presentata invece come un fatto isolato, strano, prodigioso, apparirà come qualcosa di estraneo e di incomprensibile. Per questo la risurrezione, anche nell'odierna predicazione e catechesi, va presentata nella sua relazione con gli altri momenti del disegno di salvezza. Anche là dove non si presuppone la conoscenza o la fede nella Scrittura, come nel discorso di Atene (At 17,22-31), noi vediamo che la risurrezione è presentata al termine di uno svolgimento che fa leva sulla concezione religiosa e provvidenziale della storia che potevano avere gli uditori di Paolo. È dunque importante che in ogni caso il messaggio della risurrezione sia proclamato come parte di un contesto che dia modo di coglierne il senso.
c) Il contesto dello Spirito. Esaminando le situazioni e i modi con cui la chiesa primitiva proclamava il messaggio del Risorto, vediamo che ciò non avviene soltanto con il riferimento alla testimonianza apostolica e nel contesto delle Scritture, ma con l'ostensione dei segni dello Spirito. Negli Atti degli Apostoli, « lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui », è chiamato testimone con gli apostoli della risurrezione (5,32). Ciò vuol dire che i diversi doni dello Spirito, i cui effetti erano visibili nella primitiva comunità, danno un appoggio concreto alla proclamazione orale dei testimoni, mostrando che quel Gesù che essi predicano vivo e glorioso presso Dio è veramente tale perché col battesimo nel suo nome si riceve dall'alto il dono dello Spirito. Questo dono produce effetti visibili e udibili, cioè crea un contesto tangibile e sperimentabile, che apre la mente a intendere le realtà del messaggio. Pietro, dopo aver parlato della risurrezione e dell'ascensione, dice: « Innalzato pertanto [Gesù] dalla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire » (At 2,33).
La chiesa primitiva sentiva chiaramente l'idea che non è sufficiente un riferimento teorico alla testimonianza apostolica e alla Scrittura: ci vogliono fatti. Questi fatti sono la manifestazione dello Spirito nella comunità. In altre parole, bisogna rendere presente il Cristo risorto in un contesto che lo faccia sentire presente: questo contesto è quello dello Spirito. Che cosa significa concretamente questo contesto? Dobbiamo limitarlo ad alcune tipiche esperienze carismatiche descritte negli Atti (2,5), come le lingue e le guarigioni? Occorre tener conto del fatto che nel capitolo 2 degli Atti (42-47), e poi nel capitolo 4 (32-37), viene descritta la vitalità spirituale di una comunità rinnovata dal dono dello Spirito (menzionato in immediata prossimità, cioè in At 2,38-39 e 4,31), che consiste in letizia, in unione dei cuori, prontezza a dividere con gli altri ciò che si ha ecc. Simili a queste disposizioni sono quelle evocate dalla lettera ai Galati sotto il nome di « frutto dello Spirito »: carità, gioia, pace ecc. (5,22ss). Lo Spirito crea una comunità che, vincendo le forze disgregatrici della morte, opera per la vita. In essa si tocca con mano che il Cristo vive e manda lo Spirito. Per la comunità primitiva, affermare che il Cristo è risorto voleva dire affermare che il Cristo vive adesso nella gloria e opera con potenza, trasformando la nostra storia con il dono dello Spirito. Al di fuori di un contesto di vitalità cristiana, l'annuncio della risurrezione viene relegato nel campo delle ideologie che non toccano la vita.
Chiediamoci quali fosse l’originaria predicazione apostolica e soprattutto quali le sue caratteristiche, si mostrerà così che non è da temere alcun effetto “telefono senza fili”.
«Il Vangelo fu prima predicato, poi per volontà di Dio ci fu tramandato per iscritto. » Con queste parole sant'Ireneo di Lione, il primo grande teologo dell'Occidente, ci ha trasmesso la persuasione della chiesa del II secolo sull'origine dei Vangeli. Prima di scrivere, gli apostoli hanno predicato, ed è stato soltanto in un secondo tempo e sotto la spinta di circostanze a prima vista occasionali, di cui l'antichità cristiana ha conservato un ricordo, che essi si sono decisi a mettere per iscritto il contenuto della loro predicazione.
Questo fatto appare chiaro dallo stesso Nuovo Testamento. San Luca nota nel prologo del suo Vangelo che i fatti di Gesù sono stati trasmessi (il termine greco indica tradizione orale) da coloro che « furono fin dall'inizio testimoni oculari e servitori della parola » (Lc 1,2). Tutto il vocabolario di san Paolo riferentesi alle funzioni apostoliche («proclamare, annunciare, evangelizzare, parlare, testimoniare » ecc.) e all'atteggiamento corrispondente da parte dei fedeli (« ascoltare, ricevere » ecc.) suppone una comunicazione orale del messaggio. Lo stesso termine « vangelo » (in greco letteralmente “buona notizia”) ha indicato fino alla metà del II secolo un annuncio espresso a viva voce, e solo in un secondo tempo è passato a designare i libri contenenti questo annuncio. Anche un esame interno del contenuto dei Vangeli mostra che essi, non soltanto nel riferire i detti di Gesù, ma anche nel raccontarne le vicende, usano uno stile che è stato chiamato « stile orale », perché corrisponde in alcune sue caratteristiche alla struttura della comunicazione fatta a viva voce.
Non si ha traccia nell'antichità del fatto che il sorgere dei Vangeli scritti soltanto in un secondo tempo potesse costituire una difficoltà per la loro attendibilità storica. È solo in tempi più recenti, soprattutto a cominciare dal secolo scorso, che l'esistenza di un periodo di vangelo predicato anteriore ai vangeli scritti ha dato occasione al sorgere di difficoltà molteplici. Non è il caso qui di descriverle particolarmente. Ciò che è importante notare è che esse sembrano partire da un fondo unico, dalla persuasione cioè che il periodo di predicazione orale si debba intendere come un periodo fluido, nel quale, mancando la fissità dello scritto, sia lasciata la porta aperta a infiltrazioni estranee o a possibili deformazioni del messaggio.
È possibile ricostruire, con i dati a nostra disposizione, l'atmosfera e le caratteristiche della predicazione primitiva, così da valutare il peso di una simile concezione? Ecco lo scopo di questo messaggio: mostrare che la considerazione attenta dei dati riguardanti la primitiva predicazione cristiana prova rigorosamente che la struttura di essa non solo non la rendeva aperta a infiltrazioni e deformazioni, ma costituiva una garanzia del tutto valida per una trasmissione autentica dei fatti e detti di Gesù. Ora gli elementi strutturali della predicazione primitiva, quali risultano dall'analisi delle fonti, si possono compendiare sotto tre concetti chiave: « apostolicità », « tradizione », « testimonianza ». Analizziamo brevemente ciascuno di essi.
Sentendo parlare della rapida diffusione del cristianesimo nei suoi inizi, alcuni sono indotti a immaginarsi questo fatto come un fenomeno d'entusiasmo popolare. L'annuncio del Cristo risorto, appena percepito nella mattina di Pasqua, sarebbe stato diffuso con rapidità e crescente entusiasmo, così come si diffonde una grande notizia di attualità. Esso avrebbe presto superato i limiti della Palestina, trovando dappertutto simpatizzanti e aderenti, e dando origine al sorgere di gruppi di devoti ardenti di Cristo. È evidente che in un simile quadro trova posto con difficoltà una seria trasmissione storica dei fatti di Gesù. II contagio dell'entusiasmo popolare è poco propizio al vaglio accurato dei fatti. I fanatici accettano qualsiasi cosa venga detta a esaltazione del loro eroe. La storia delle religioni conosce simili fenomeni di diffusione entusiastica di notizie poco controllate sotto l'impulso di un fervore religioso, e lo storico sa quanto sia difficile in questi casi discernere gli elementi di verità dalle amplificazioni fatte in buona fede.
Ora bisogna affermare con risolutezza che se un tale quadro di diffusione di un messaggio religioso si è talora verificato nella storia, esso non ha nulla a che vedere con il modo in cui si è diffuso il messaggio cristiano. Intendere la proclamazione e diffusione del vangelo come un'attività lasciata alla libera iniziativa di fanatici, come un'impresa in cui ciascuno potesse impegnarsi a piacere secondo il proprio zelo, è costruire un quadro della predicazione primitiva che è tutto fuorché storico. Le fonti autentiche ci obbligano a rappresentarci la cosa in modo affatto diverso. La predicazione primitiva non è un fenomeno di libero entusiasmo; essa è stata un'attività rigorosamente organizzata sotto la guida e il controllo degli apostoli, responsabili e garanti del messaggio.
Ciò vale prima di tutto per la chiesa di Gerusalemme, centro del primo irradiamento del vangelo. In questa città è Pietro che annuncia ripetutamente il messaggio evangelico, secondo uno schema che si ripeterà in maniera costante anche negli altri discorsi missionari della chiesa primitiva (cfr. At 2,14-40; 3,12-26; 4,8-12; 5,29-32). E Pietro agisce come capo e interprete del gruppo apostolico, il quale considera il ministero della parola come il proprio dovere specifico, di cui esso ha la responsabilità. Quando si tratta di ammettere nel gruppo degli apostoli un sostituto per il traditore Giuda, si esige che il nuovo eletto sia stato testimone oculare dei fatti di Gesù dall'inizio della vita pubblica fino alla morte e risurrezione, per poterli così annunciare con esattezza e fedeltà (At 1,15-26). Se ad altri all'infuori del gruppo apostolico viene trasmesso il mandato di predicare (è il caso, per esempio, di Stefano), si richiede però l'imposizione delle mani da parte del gruppo apostolico, che designa la persona come mandatario ufficiale di coloro che detengono l'autorità della predicazione (At 6,6).
Ben presto la buona novella evangelica si diffonde nelle regioni attorno a Gerusalemme. Anche se la prima notizia dei fatti di Gesù può essere stata diffusa dallo zelo dei primi convertiti, le fonti ci mostrano il gruppo apostolico preoccupato di seguire il movimento di conversioni. Pietro e Giovanni si recano personalmente a ispezionare l'apostolato in Samaria (At 8,14-17), anche se esso è stato opera di uno che ha ricevuto l'« imposizione delle mani » dagli apostoli, cioè l' “evangelista” Filippo, e Pietro visiterà sistematicamente le comunità dei nuovi credenti nella pianura palestinese (At 9,32-43), mentre sarà egli stesso l'iniziatore del movimento di conversione dei pagani nella capitale della Giudea, la città di Cesarea (At 10,1-4
.
È anche istruttiva la storia della fondazione di una delle più importanti comunità cristiane e missionarie del primo secolo, quella di Antiochia. La prima notizia del cristianesimo vi giunge per opera dello zelo di alcuni cristiani (At 11,19-21). Tuttavia, appena a Gerusalemme si viene a sapere del fermento di conversioni nella grande città della Siria, viene inviato là Barnaba (At 11,22-55), che è stato fin dai primi giorni un fiduciario del gruppo apostolico (At 4, 36-37), per visitare la comunità e assicurarsi del suo stato. È chiaro, dunque, come lo sviluppo del cristianesimo nascente non è lasciato alla buona volontà o all'entusiasmo di ciascuno, ma è saldamente controllato dai responsabili della dottrina e della vita cristiana.
La stessa struttura gerarchica si nota anche nell'apostolato di san Paolo. Egli stesso, dopo il soggiorno in Arabia, si è recato a Gerusalemme ed è rimasto quindici giorni con Pietro (Gal 1,1
, certamente per confrontare con lui il proprio messaggio su Cristo. Terminata la prima missione nelle regioni dell'Asia Minore, Paolo riferisce a Gerusalemme sulla sua predicazione, « per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano » (Gal 2,2) e riceve l'approvazione dell'assemblea di Gerusalemme (Gal 2,9; cfr. At 15). Nelle comunità da lui fondate egli stabilisce parimenti un'organizzazione della predicazione. Le funzioni del servizio della parola sono determinate secondo una gerarchia che mette al primo posto gli « apostoli », quindi i « profeti », gli « evangelisti » ecc. (Ef 4,11; cfr. 1 Cor 12,8; Rm 12,7). Le lettere pastorali ci forniscono indicazioni precise sull'autorità magisteriale degli incaricati ufficiali della predicazione (cfr. 2 Tm 1,11-14; 2,1s; 4,5 ecc.).Se dobbiamo dunque giudicare della predicazione del Nuovo Testamento secondo un criterio storico, cioè sulla base delle fonti autentiche, vediamo che esse ci presentano concordemente non una predicazione lasciata in mano di fanatici, ma una predicazione che è una prerogativa degli apostoli, deputati a ciò da Gesù stesso, e che viene da questi comunicata a persone di fiducia che rimangono sotto la loro sorveglianza. Non è quindi un fenomeno di trasmissione contagiosa ed euforica di notizie vaghe e imprecise, ma un fenomeno di rigorosa trasmissione tradizionale. Ciò sarà chiarito maggiormente dall'analisi del fenomeno della « tradizione ».
La caratteristica che ho ora illustrato riguarda l'aspetto attivo della predicazione, cioè la sua origine apostolica e la sua dipendenza costante dall'autorità gerarchica. Occorre ora considerare la predicazione apostolica dal punto di vista dell'uditore. Con quale mentalità veniva essa ricevuta? Quali erano gli atteggiamenti delle comunità di fronte al messaggio? Essi si riassumono in un atteggiamento tipico per il mondo antico, quello dell'accettazione di una « tradizione ».
Un uomo del nostro tempo, che mediante i vari mezzi di diffusione del pensiero riceve costantemente nuovi impulsi e impressioni praticamente da tutto il resto del mondo, prova difficoltà nell'apprezzare adeguatamente il posto tenuto dalla « tradizione » (nel suo significato più ampio) in un ambiente culturale chiuso come quello antico, dove i nuovi impulsi culturali provenienti dal di fuori sono relativamente pochi, e dove l'eredità culturale provvede a tutte le necessità della formazione religiosa, umana e sociale dell'individuo. Nella società antica il singolo veniva introdotto gradualmente a partecipare alla vita del gruppo attraverso una serie di iniziazioni che consistevano sostanzialmente nella trasmissione delle cognizioni, delle credenze, delle leggi e consuetudini proprie del gruppo stesso. Benché tale trasmissione potesse anche giovarsi dell'aiuto di scritti, la sensibilità comune dell'uomo antico (sia orientale sia greco) portava a valutare l'insegnamento ricevuto dalle labbra di un maestro autorizzato (il padre di famiglia, il sacerdote, il filosofo) assai più che non quel lo che si potesse ricavare dalla lettura di un testo. Di qui l'importanza assai grande data alla memoria. Talora poteva operare in questa diffidenza verso lo scritto un certo timore superstizioso verso il carattere magico attribuito alla parola scritta. Più spesso si trattava della percezione acuta di una radicale incapacità della parola scritta a rendere la pienezza di vita, la potenza di espressione, le sfumature di accento proprie di un discorso parlato. «Chi s'immagina di poter tramandare un'arte affidandola ai segni dell'alfabeto », dice Socrate a Fedro, « e chi la riceve nella convinzione di poter da quei segni trarre qualcosa di preciso e di saldo, ha da essere pieno di una grande ingenuità. » Per questo, parlando di « tradizione », presso gli antichi si intende sempre una tradizione in cui abbia una parte importante la comunicazione orale di padre in figlio, o di maestro in discepolo, di un certo numero di cognizioni. Si veda a questo proposito Papia vescovo di Gerapoli, nato nel 70 e morto nel 150, il quale disse: “Se in qualche luogo m’imbattevo in qualcuno che avesse convissuto con i presbiteri(=gli anziani, gli apostoli), io cercavo di conoscere i discorsi dei presbiteri: che cosa disse Andrea o che cosa Pietro o che cosa Filippo o che cosa Tommaso o Giacomo o che cosa Giovanni o Matteo o alcun altro dei discepoli del Signore; e ciò che dicono Aristione ed il presbitero Giovanni , discepoli del Signore. Poiché io ero persuaso che ciò che potevo ricavare dai libri non mi avrebbe giovato tanto, quanto quello che udivo dalla viva voce ancora superstite.” (in Eus Historia Ecclesiastica, III, 39, 1 ss.)
Qui abbiamo un genuino esempio di quello che era l’atteggiamento del cristiano delle origini difronte alla Traditio, con buona pace delle astoriche convinzioni protestanti.
Anche la « tradizione » di libri sacri non andava disgiunta da un contesto di nozioni che ne perpetuavano la viva e autentica interpretazione.
Per gli ebrei in particolare il concetto di « tradizione » era essenziale per la conservazione delle loro strutture religiose e sociali. Già nel Deuteronomio si trova l'ammonizione fatta al padre di famiglia di tramandare ai figli le notizie storiche sull'origine del popolo (Dt 6,20-25; cfr. Sal 78,3). « II contenuto principale della cultura come dell'educazione giudaica era la tradizione, la memoria del passato », scrive lo studioso di pedagogia giudaica N. Morris, e continua: « Queste memorie venivano tenute vive da un sistema rituale e cerimoniale che nell'età talmudica aveva raggiunto una straordinaria ricchezza e varietà, quasi senza paralleli nella storia di ogni altro popolo. Per tutta la sua vita, dalla nascita alla morte, il giudeo era circondato da una successione senza fine di segni e di simboli, che lo invitavano incessantemente a ricordare ».
Nel tempo in cui viene annunciato il messaggio di Gesù, questa attitudine tradizionale, cioè la capacità di ricevere una dottrina e conservarla e trasmetterla fedelmente, era quanto mai viva nell'ambiente mediterraneo, giudaico e greco. La diffusione del messaggio cristiano si serve di queste categorie e opera anch'essa secondo uno schema « tradizionale »? Tutti i dati delle fonti sono per una risposta affermativa. II vocabolario del Nuovo Testamento possiede i termini caratteristici degli ambienti di trasmissione tradizionale. Già i rapporti tra Gesù e gli apostoli venivano considerati come rapporti tra « maestro » e « discepoli » (il nome di « discepoli » si trova nei Vangeli circa 250 volte). Nelle lettere paoline ritroviamo tutta la terminologia giudaica della « tradizione» (cfr. 2 Ts 2,15; 1 Cor 11,2; 11,23; 15,1-3; 1 Ts 2,13; 2 Ts 3,6; Rm 6,17; Gal 1, 9.12; Fil 4,9; Col 2,6.
, anche la traduzione letterale dei verbi tecnici in uso nelle scuole rabbiniche per indicare l'apprendimento di un contenuto comunicato dal maestro al discepolo: qibbel min (ricevere) e masar le (trasmettere) (cfr. 1 Cor 11,23; 15,3). Uno dei documenti più antichi del Nuovo Testamento, la seconda lettera ai Tessalonicesi (anno 52), porta questo ammonimento di san Paolo: « State saldi e conservate fortemente le tradizioni » (2 Ts 2,15). Ai Corinzi viene ricordato pochi anni più tardi (anno 55) che il dovere fondamentale degli « economi »(1'immagine indica coloro che hanno la responsabilità del messaggio evangelico) « è che ciascuno sia trovato fedele » (1 Cor 4,1-2). Nella stessa lettera, a proposito di due punti fondamentali della predicazione, cioè l'istituzione dell'eucaristia e la passione e risurrezione, san Paolo scrive: « Ho ricevuto, come anche vi ho trasmesso » (11,23); « Vi ho trasmesso quello che ho ricevuto »(15,3); « Così noi predichiamo e così avete creduto »(15,11); « Per questo vangelo sarete salvi, se lo conserverete come lo ho annunziato » (15,2). E ancora: « Vi lodo perché in ogni cosa ritenete le tradizioni tali e quali ve le ho trasmesse » (11,2).
Queste parole sono indice di un atteggiamento costante: ciò che a tutti supremamente importa è che il messaggio sia trasmesso, ricevuto e conservato così come esso è, nella fedeltà alla sua formulazione originaria. Le comunità non cercano una dottrina nuova o interessante, ma la dottrina di salvezza contenuta nei detti e nei fatti salvifici di Gesù. Questa dottrina è come un sacro «deposito» (1 Tm 6,20; 2 Tm 1,12.14), di cui l'apostolo dovrà rendere stretto conto e che egli si preoccupa venga trasmesso a « uomini fidati » (2 Tm 2,2). Uno studio filologico del tema del «deposito » nell'ambiente giuridico del mondo ellenistico mostra che san Paolo ha in mente le leggi di onestà proprie del contratto di deposito, così come esso veniva comunemente inteso, soprattutto con la caratteristica di assoluta fedeltà.
Si potrebbero citare numerosi altri documenti del Nuovo Testamento, ma il quadro non cambierebbe. La predicazione primitiva risuona in un ambiente e in una comunità che, ben lungi dal voler essere creatrice di messaggi nuovi o diversi, pone il suo sforzo nel ricevere e nel conservare la dottrina apostolica così come essa è stata trasmessa, perché soltanto così ha la certezza di essere in contatto con la salvezza portata da Gesù. Da qui la polemica costante in tutti i Padri della Chiesa contro coloro che non possono vantare una Traditio apostolica, contro le sette i cui ministri non discendono, tramite imposizione delle mani di successore in successore degli apostoli, dalla comunità originaria. Ecco perché parlare di manifestazioni incontrollate di euforia come se stessimo parlando di storielle raccontate in una volgare birreria bavarese è completamente astorico, una gratuita ipotesi ad hoc, e come tale dev’essere
gratis negatur, esattamente come è stata
gratis adfirmatur dall’interlocutore. Quando cioè si comunincia a ragionare con gli schemi del “colpevole fino a prova contraria”, con lo schema del “bugiardo a priori” non si sta facendo una ricerca storica onesta e non si conoscono le metodologie dello studio antichistico.
La predicazione apostolica e la trasmissione del messaggio evangelico si manifestano dunque come avvenute in circostanze del tutto particolari: struttura organizzata dall'alto, preoccupazione per la conservazione integra e fedele del messaggio. Siamo perciò di fronte a una situazione assai diversa da quella della trasmissione di antichi cicli narrativi, come le tradizioni epiche dell'antica Grecia o anche non poche narrazioni agiografiche medievali. Quale il motivo profondo di questi aspetti peculiari (ed estremamente favorevoli per un giudizio di attendibilità storica) propri della tradizione evangelica? Esso ci è svelato dall'analisi di una terza caratteristica propria della predicazione primitiva, che può essere chiamato il suo aspetto « testimoniale ».
Chi legge il Nuovo Testamento è colpito dalla frequenza con cui ritorna nei vari scritti il verbo « testimoniare » e i vocaboli affini (testimone, testimonianza ecc.): si tratta di almeno 167 testi. La parola « testimone » aveva anche nell'antichità come suo ambiente proprio quello giuridico-legale, significando colui che, per immediata esperienza personale, era in grado di fare affermazioni pubbliche su avvenimenti o persone. Aristotele si era occupato di definire le caratteristiche dei testimoni processuali nella sua Retorica, e dopo di lui il soggetto era stato trattato da altri filosofi e retori antichi.
È chiara l'importanza che un simile termine assume quando viene usato dalle fonti per descrivere la predicazione apostolica, anzi quando diviene quasi un termine tecnico con cui tale predicazione è definita. Con ciò il mondo del Nuovo Testamento dimostra la propria persuasione che, ascoltando gli apostoli, esso intende ascoltare coloro i quali hanno visto e sentito Gesù, e possono narrare con sicura certezza qualcosa su di lui. Gli apostoli stessi assumono l'aspetto non tanto di predicatori di una dottrina astratta di salvezza, ma di testimoni di un fatto inequivocabile, che essi sentono il grave dovere di far conoscere nella sua realtà. Per questo Gesù li invia con il comando: « Mi sarete testimoni » (At 1,8; cfr. Lc 24,4
, e a questa loro qualità essi si riferiscono continuamente nei loro discorsi (cfr. At 1,22; 2,32; 3,15; 5,32; 10,39; 10,41; 13,31; 22,15; 26,16; 1 Pt 5,1). Di fronte al Sinedrio, che impone di tacere sui fatti di Gesù, Pietro e Giovanni rispondono con sicura coscienza: «Non possiamo non parlare di quelle cose che abbiamo vedute e udite » (At 4,20). Lucien Cerfaux, studiando l'uso del termine « testimone » negli Atti degli Apostoli, ha mostrato acutamente come traspaia dai documenti che si tratta in qualche modo di riprendere, di fronte al giudizio delle folle che ascoltano a Gerusalemme la predicazione apostolica, il processo di Gesù, conchiusosi così tragicamente solo poco tempo prima. Gli apostoli, resi audaci dalla grazia dello Spirito, intervengono ora pubblicamente in favore di Gesù, come testimoni autentici e qualificati delle sue opere e delle sue parole, in particolare della sua risurrezione gloriosa. II popolo che si converte accetta la loro testimonianza, perché sa che essa riposa su un'esatta conoscenza dei fatti.
La predicazione del vangelo nasce così come una testimonianza solenne e irrefragabile di fatti realmente avvenuti, e anche in seguito, quando si diffonde fuori della Palestina, trae la propria validità e possibilità di imporsi dalla propria capacità di riferirsi alla primitiva testimonianza oculare. Per questo san Paolo, predicando a Corinto sulla risurrezione, ha elencato ai suoi uditori i nomi dei principali testimoni del Risorto: « [Gesù] fu veduto da Pietro, e poi dai Dodici. Apparve pure a più di cinquecento fratelli, in una volta sola, dei quali i più vivono ancora, mentre alcuni sono morti. Fu veduto quindi da Giacomo, poi da tutti gli apostoli » (1 Cor 15,5-7). San Luca, che scrive già alcuni decenni dopo i fatti di Gesù, ha cura di notare nel suo prologo che ciò
che egli dirà si può riportare, attraverso una trasmissione fedele, ai "testimoni oculari" (Lc 1,2): solo così si potrà essere certi della « solidità » delle cose narrate (Lc 1,4). Ricordiamo ancora una volta di come all'inizio del II secolo, uno dei più antichi scrittori ecclesiastici, Papia, l’appena citato vescovo di Gerapoli, nella prefazione del suo libro di commento ai detti di Gesù, ci fa una descrizione commovente dell'ardore con cui al suo tempo si raccoglievano le più minute particelle della tradizione risalente agli apostoli. Se occorreva che passasse per la comunità qualcuno che era stato in contatto con gli apostoli, egli veniva interrogato ansiosamente su ciò che sapeva. «Ritenevo infatti che i libri non mi giovassero», conclude Papia, « quanto le cose udite dalla voce viva e permanente. »
Quale il motivo profondo di questo riferimento costante al testimonio nella chiesa antica? Ce lo spiega con una frase quasi paradossale san Paolo: « Or se Cristo non è stato risuscitato, vana è dunque la nostra predicazione e vana è pure la vostra fede. Anzi noi risultiamo falsi testimoni d'Iddio, perché abbiamo testimoniato per Iddio che egli ha risuscitato il Cristo, mentre non l'avrebbe risuscitato» (1 Cor 15,14-15). Tutto il valore della predicazione dipende dunque dalla realtà del fatto di Cristo. Non è per la validità intrinseca d'un ragionamento filosofico o per la sublimità di una dottrina morale che i primi cristiani hanno accettato il vangelo e sperano nella salvezza, ma per la realtà storica dei fatti testimoniati, per la certezza di salute contenuta nella predicazione, nei miracoli, nella morte e risurrezione di Gesù. Ciò che dunque importa non è il predicatore abile o fecondo, ma il testimone fedele. Apollo infatti, che pure predicava in nome di Cristo, fu fermato dai cristiani perché non aveva ricevuto la catechesi apostolica ufficiale e dunque andava istruito, e ne valse la pena visto che divenne uno dei più grandi predicatori dell’età apostolica. L'importanza della « testimonianza » per il Nuovo Testamento è dunque una delle espressioni del posto senza precedenti che la persona e i fatti di Gesù assumono nella predicazione e nella fede religiosa dei cristiani.
La solennità e l'impegno della testimonianza resa dalla predicazione apostolica a Gesù Cristo sono anche documentati dallo sviluppo semantico del vocabolo che in greco significa « testimone ». Dopo aver indicato colui che si impegna personalmente per il messaggio, esso viene gradualmente a significare l'impegno totale fino alla suprema testimonianza, fino al « martirio ». Le persecuzioni risultano così come l'ultima prova e il sigillo della serietà e della buona coscienza del testimone cristiano.
Possiamo così rispondere alla domanda che ci siamo posti all'inizio. II fatto che il vangelo, prima di essere messo in iscritto, sia stato predicato oralmente non si rivela come un fatto negativo per la sua conservazione fedele, se si tiene conto della natura della predicazione e delle caratteristiche delle comunità in cui tale predicazione veniva ricevuta. Gli apostoli, e quelli che da loro avevano avuto il mandato di predicare, hanno sentito il grave dovere di rendere la testimonianza con franchezza (1 Ts 2,2; 2 Cor 3,12; At 28,31), con trasparenza cristallina (2 Cor 2,17) e con fedeltà (1 Cor 4,2), fino alla testimonianza del sangue. La diffusione del messaggio evangelico è sempre rimasta sotto il controllo della gerarchia apostolica, ed è stata ricevuta come un deposito sacro, da conservare e trasmettere fedelmente, per restare così in contatto con la salvezza portata da Gesù. Lo studio oggettivo dell'ambiente in cui è avvenuta la prima proclamazione del vangelo porta così a riconoscere che essa si è effettuata in condizioni estremamente favorevoli, e secondo strutture che ne garantiscono, anche dal punto di vista storico, l'attendibilità.
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Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
(Κ. Καβάφης)