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Augias - Pesce : Inchiesta su Gesù

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    00 01/02/2007 21:41
    Si vede come anche queste affermazioni non toccano se non in parte le diverse ipotesi esegetiche proposte per interpretare le cristofanie evangeliche. Non si tratta dunque di respingere a priori l'una o l'altra delle ipotesi interpretative proposte: occorre valutarle attentamente sulla base dei testi. Infatti la non-esistenza di una definizione della chiesa riguardo all'interpretazione di un passo biblico non significa che ogni interpretazione che ne venga data sia legittima o ammissibile. L'attività dell'esegeta è a servizio del testo. Essa deve proporre quell'interpretazione che meglio risponde a tutti i dati del testo e criticare le proposte interpretative che non sembrano far giustizia al testo stesso.
    2. I racconti evangelici della risurrezione non sono frutto di una fede ingenua. Una seconda premessa riguarda il modo con il quale dobbiamo valutare le narrazioni evangeliche. Esse non sono il frutto di un realismo ingenuo, che sì contenta dì concretare con scene visive delle verità interiori. Abbiamo notato sopra l'estrema discrezione e prudenza degli evangelisti nel raccontare le apparizioni di Gesù. Essi sanno di trovarsi davanti a una materia che misteriosamente li trascende e per la quale occorre scegliere adeguatamente i mezzi espressivi. Sanno anche che le persone a cui è rivolto il messaggio non sono senz'altro credule. La chiesa si è trovata fin dall'inizio ad affrontare le negazioni razionaliste della risurrezione. Ciò avveniva non soltanto nel mondo greco (cfr. il discorso di Paolo ad Atene, At 17,22-31, e le negazioni di Corìnto, 1 Cor 15,12-52), ma anche nello stesso mondo giudaico, dove i sadducei negavano la risurrezione (cfr. Mc 12,18-27 e i passi paralleli di Mt e Le, nonché At 4,2; 23,[SM=g27989].
    Non v'era quindi una predisposizione a priori per accettare gli aspetti “corporei” della risurrezione. Una trasposizione in senso spiritualistico o doceta avrebbe trovato molto più facile accettazione. Ciò fa ritenere che i racconti evangelici, nati e promulgati in questa situazione culturale, ne dovessero tener conto anche nel modo di espressione, senza indulgere a facili volgarizzazioni. Gli evangelisti che, come Luca nel capitolo 24, hanno descritto la presenza di Gesù tra i suoi con particolari realistici avevano a loro disposizione molti altri modi più « spirituali » per descrivere la presenza di un essere divino tra gli uomini. Se, di fronte a queste possibilità, hanno scelto un tipo di racconto concreto, vuol dire che avevano motivi gravi per farlo. L'esegeta, nella sua interpretazione, deve cercare di individuare questi motivi per valorizzarli adeguatamente.
    Sulla base di queste premesse cerchiamo dunque di vedere che cosa vogliono sottolineare i racconti evangelici con il loro modo di descrivere la presenza del Risorto tra i suoi. Mi sembra che risaltino con chiarezza almeno gli elementi seguenti:
    -L'assoluta irrefragabilità dell'esperienza che gli apostoli hanno avuto del Cristo. Essi si sono incontrati con lui in una maniera che li ha resi, anche attraverso il superamento delle prime titubanze e diffidenze, assolutamente certi della sua presenza e della sua vita di Risorto. Non hanno potuto dubitare di questi incontri, così come non possiamo dubitare di quelle realtà che formano il tessuto della nostra vita quotidiana.
    -L'autenticità di testimonianza che ne deriva. Gli apostoli sono stati costituiti testimoni autentici della risurrezione attraverso un'esperienza che ha dato loro la possibilità e il mandato di presentarsi come tali.
    -La reale inserzione del Cristo risorto nelle realtà quotidiane della nostra storia. Gli evangelisti hanno voluto indicare, con le allusioni discrete e pur teologicamente profonde del loro modo di parlare, che il Cristo risorto non è al di là o al di fuori della nostra realtà, ma è parte di essa; la vivifica ma dall'interno. Egli è agente di trasformazione del nostro mondo, e può incontrarsi con noi in maniera reale. L'importanza di questa affermazione è grandissima. II Cristo risorto non viene predicato come un'idea o un'astrazione (« l'opera di Cristo non muore »), ma come l’inizio della glorificazione del nostro mondo, l'apertura escatologica della storia che in lui ha già raggiunto il suo termine e che da lui riceve la speranza della sua destinazione alla rivelazione della gloria dei figli di Dio (cfr. Rm 8,18-21).
    -La corporeità del Risorto. Se Cristo risorto può agire nel nostro cosmo a cui non è estraneo, ma di cui è parte, essendo di esso la primizia glorificata, egli ha un corpo. La percezione che gli apostoli hanno avuto di lui è percezione reale, non immaginaria.
    V'è un altro elemento che probabilmente sottostà ad alcune sottolineature dei racconti, specialmente di Luca (24,39-43): la polemica antidoceta. Alla dottrina, già chiaramente affiorante nel I secolo cristiano, secondo cui Gesù non avrebbe sofferto né sarebbe risorto col suo vero corpo, ma solo con un corpo apparente, vengono contrapposti particolari realistici (probabilmente di origine tardìva) per sottolineare la realtà corporea di Gesù (cfr. anche Ignazio d'Antiochia, Lettera ai fedeli di Smirne 3,13; Evangelo secondo gli Ebrei citato da san Girolamo, De viris illustribus 16). Essi non vanno quindi probabilmente giudicati alla stessa stregua delle tradizioni anteriori, anche se sottolineano il senso fondamentale di esse, già sopra ricordato.
    II corpo glorificato di Gesù può dunque, anche se in maniera misteriosa, agire sulla nostra realtà, sugli occhi e sui sensi. Si potrebbe forse dire - senza entrare nella complessità dei problemi filosofici connessi col concetto di corporeità - che del corpo Cristo risorto ha le qualità attive, in quanto può agire nel cosmo, ma non le passività, in quanto non è circoscrivibile, non può essere afferrato e chiuso dallo spazio e dal tempo. Un approfondimento dì questo tema dovrebbe procedere nella direzione tracciata da Paolo nella prima lettera ai Corinzi 15, basandosi cioè sul principio della continuità-diversità tra il corpo oggetto della nostra esperienza e il corpo dei risorti.
    Riferendoci alle tre ipotesi proposte sopra, sembra si debba escludere un'ipotesi che legga i racconti come traduzione di un evento puramente interiore, e anche quella che li vedrebbe come una concretizzazione di un segno dal cielo che non sia l'incontro col Cristo stesso. Neppure però si deve insistere su una presentazione che mostri l'incontro dei discepoli col Cristo come quello
    che sarebbe avvenuto per esempio con Lazzaro risuscitato. II Cristo risorto ha un corpo glorioso che si fa presente ai suoi in una maniera indubitabile, ma misteriosa, per la quale le categorie umane spazio-temporali non possono fornire né termini né immagini adeguate. Occorre anche ammettere un legame reale tra il corpo del Cristo morto e deposto nella tomba e il corpo glorificato. Non si tratta qui del problema teorico se sarebbe possibile concepire una glorificazione del Cristo che non riguardasse anche il corpo crocifisso e sepolto. A questa domanda alcuni rispondono dicendo che, come Dio opererà la risurrezìone finale di uomini i cui corpi saranno ormai da lungo tempo disciolti nei loro elementi costitutivi, entrati forse a far parte di altri organismi umani, così avrebbe potuto operare nel Cristo, dandogli un corpo glorioso, il quale sarebbe in continuità reale, ma non necessariamente fisica, col corpo sepolto. A questo proposito si sottolinea anche che la risurrezione gloriosa non va confusa con la semplice rianimazione di un cadavere. Tuttavia per il corpo di Cristo vi sono due cose da considerare. La prima è l'insistenza della tradizione antica sulla connessione sepoltura-risurrezione (cfr. 1 Cor 15,4) e sul ritrovamento della tomba vuota. A prescindere dal valore storico di queste tradizioni, siamo qui di fronte alla persuasione della chiesa primitiva di un legame reale tra la risurrezione e il corpo crocifisso del Signore: « Non è qui, ma è risorto » (Lc 24,6). La seconda è la speciale importanza storico-salvifica della risurrezione del Cristo crocifisso, primo della risurrezione tra i morti, che non può essere assimilata semplicemente e in tutto alla risurrezione finale dei credenti. Il corpo del Signore crocifisso posto nella tomba è quello in cui si è compiuta la redenzione del mondo. La risurrezione avviene poco dopo la morte, in stretto legame con l'evento della croce. Appare chiara la convenienza che questo corpo sepolto partecipi alla risurrezione, anche se in maniera misteriosa, perché siamo di fronte non a una rianimazione miracolosa (come nel caso di Lazzaro) ma alla risurrezione gloriosa. Come la chiesa rende presente il Cristo risorto? Si tratta infatti non solo di « predicare » Cristo risorto, ma di renderlo presente. E per questo occorre riportarsi al modo con cui la chiesa fin dall'inizio ha reso presente il Risorto: con la testimonianza. Per dare a questa parola il suo pieno significato, la specificheremo così: testimonianza apostolica, testimonianza delle Scritture, testimonianza dello Spirito. Sono tre elementi inscindibili secondo i quali il Cristo risorto si è fatto presente alla chiesa primitiva ed essa lo ha proclamato.
    a) Testimonianza degli apostoli. La nostra fede riposa sulla fede apostolica. Essa è il punto di riferimento fondamentale di tutta la nostra predicazione. Non si può quindi accettare l'affermazione di Louis Evely, il quale, parlando della conoscenza che il cristiano ha della risurrezione, dice: « La questione fondamentale per noi è la seguente: credete voi che gli apostoli abbiano avuto altre prove diverse dalle nostre della risurrezione? » Egli suppone che noi possiamo avere un'esperienza nella chiesa che sia praticamente identica all'esperienza apostolica. Ma ciò è in contrasto con quanto afferma il Nuovo Testamento. Noi siamo in continuità con l'esperienza degli apostoli, la quale è l'esperienza primordiale e fondante. Nessuno nella chiesa può avere esperienza della risurrezione se non fondandosi in qualche modo sull'esperienza apostolica, giunta a noi attraverso la tradizione viva. V'è quindi una dimensione « magisteriale » nella proclamazione del mistero che va sempre rispettata, anche se, come vedremo, essa va completata con altre dimensioni, perché non si riduca a una pura rievocazione storica del passato.
    b) Testimonianza delle Scritture. Insieme alla testimonianza apostolica ha molta importanza nel cristianesimo primitivo anche l'appello alle Scritture. Ad esse si fa richiamo esplicito nel dialogo tra Gesù e i discepoli di Emmaus (« O stolti e tardi di cuore a credere a tutto ciò che dissero i profeti! », Lc 24,2527) e nella nota del quarto evangelista alla costatazione della tomba vuota (« Non conoscevano infatti ancora la Scrittura, che egli doveva risorgere dai morti », Gv 20,9).
    Si suppone che una conoscenza delle Scritture avrebbe permesso di intuire fin dai primi segni (come dall'annuncio delle donne, cfr. Lc 24,11) la gloria del Cristo risorto.
    Di fatto vediamo che nelle proclamazioni kerygmatiche degli Atti degli Apostoli la risurrezione non è mai annunciata come un fatto isolato, ma in un contesto nel quale viene evocata la storia di salvezza (cfr. At 2,24.32; 3,15 e specialmente 13,33). La chiesa primitiva è conscia del fatto che è difficile accettare la testimonianza apostolica sul Risorto. Essa è di per sé incredibile per l'uomo che vive solo in un orizzonte terreno. Perché vi sia una qualche apertura per la sua accettazione, è necessario inquadrarla nell'iniziativa divina di salvezza. Chi conosce le Scritture, chi è educato a capire nella storia lo svolgimento del piano di Dio che salva l'uomo, trasformandolo e attraendolo a sé, e a vedere in Gesù il centro di questa storia, intenderà allora la risurrezione come il momento culminante di questo progetto divino. Se essa è presentata invece come un fatto isolato, strano, prodigioso, apparirà come qualcosa di estraneo e di incomprensibile. Per questo la risurrezione, anche nell'odierna predicazione e catechesi, va presentata nella sua relazione con gli altri momenti del disegno di salvezza. Anche là dove non si presuppone la conoscenza o la fede nella Scrittura, come nel discorso di Atene (At 17,22-31), noi vediamo che la risurrezione è presentata al termine di uno svolgimento che fa leva sulla concezione religiosa e provvidenziale della storia che potevano avere gli uditori di Paolo. È dunque importante che in ogni caso il messaggio della risurrezione sia proclamato come parte di un contesto che dia modo di coglierne il senso.

    c) Il contesto dello Spirito. Esaminando le situazioni e i modi con cui la chiesa primitiva proclamava il messaggio del Risorto, vediamo che ciò non avviene soltanto con il riferimento alla testimonianza apostolica e nel contesto delle Scritture, ma con l'ostensione dei segni dello Spirito. Negli Atti degli Apostoli, « lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui », è chiamato testimone con gli apostoli della risurrezione (5,32). Ciò vuol dire che i diversi doni dello Spirito, i cui effetti erano visibili nella primitiva comunità, danno un appoggio concreto alla proclamazione orale dei testimoni, mostrando che quel Gesù che essi predicano vivo e glorioso presso Dio è veramente tale perché col battesimo nel suo nome si riceve dall'alto il dono dello Spirito. Questo dono produce effetti visibili e udibili, cioè crea un contesto tangibile e sperimentabile, che apre la mente a intendere le realtà del messaggio. Pietro, dopo aver parlato della risurrezione e dell'ascensione, dice: « Innalzato pertanto [Gesù] dalla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire » (At 2,33).
    La chiesa primitiva sentiva chiaramente l'idea che non è sufficiente un riferimento teorico alla testimonianza apostolica e alla Scrittura: ci vogliono fatti. Questi fatti sono la manifestazione dello Spirito nella comunità. In altre parole, bisogna rendere presente il Cristo risorto in un contesto che lo faccia sentire presente: questo contesto è quello dello Spirito. Che cosa significa concretamente questo contesto? Dobbiamo limitarlo ad alcune tipiche esperienze carismatiche descritte negli Atti (2,5), come le lingue e le guarigioni? Occorre tener conto del fatto che nel capitolo 2 degli Atti (42-47), e poi nel capitolo 4 (32-37), viene descritta la vitalità spirituale di una comunità rinnovata dal dono dello Spirito (menzionato in immediata prossimità, cioè in At 2,38-39 e 4,31), che consiste in letizia, in unione dei cuori, prontezza a dividere con gli altri ciò che si ha ecc. Simili a queste disposizioni sono quelle evocate dalla lettera ai Galati sotto il nome di « frutto dello Spirito »: carità, gioia, pace ecc. (5,22ss). Lo Spirito crea una comunità che, vincendo le forze disgregatrici della morte, opera per la vita. In essa si tocca con mano che il Cristo vive e manda lo Spirito. Per la comunità primitiva, affermare che il Cristo è risorto voleva dire affermare che il Cristo vive adesso nella gloria e opera con potenza, trasformando la nostra storia con il dono dello Spirito. Al di fuori di un contesto di vitalità cristiana, l'annuncio della risurrezione viene relegato nel campo delle ideologie che non toccano la vita.
    Chiediamoci quali fosse l’originaria predicazione apostolica e soprattutto quali le sue caratteristiche, si mostrerà così che non è da temere alcun effetto “telefono senza fili”.
    «Il Vangelo fu prima predicato, poi per volontà di Dio ci fu tramandato per iscritto. » Con queste parole sant'Ireneo di Lione, il primo grande teologo dell'Occidente, ci ha trasmesso la persuasione della chiesa del II secolo sull'origine dei Vangeli. Prima di scrivere, gli apostoli hanno predicato, ed è stato soltanto in un secondo tempo e sotto la spinta di circostanze a prima vista occasionali, di cui l'antichità cristiana ha conservato un ricordo, che essi si sono decisi a mettere per iscritto il contenuto della loro predicazione.
    Questo fatto appare chiaro dallo stesso Nuovo Testamento. San Luca nota nel prologo del suo Vangelo che i fatti di Gesù sono stati trasmessi (il termine greco indica tradizione orale) da coloro che « furono fin dall'inizio testimoni oculari e servitori della parola » (Lc 1,2). Tutto il vocabolario di san Paolo riferentesi alle funzioni apostoliche («proclamare, annunciare, evangelizzare, parlare, testimoniare » ecc.) e all'atteggiamento corrispondente da parte dei fedeli (« ascoltare, ricevere » ecc.) suppone una comunicazione orale del messaggio. Lo stesso termine « vangelo » (in greco letteralmente “buona notizia”) ha indicato fino alla metà del II secolo un annuncio espresso a viva voce, e solo in un secondo tempo è passato a designare i libri contenenti questo annuncio. Anche un esame interno del contenuto dei Vangeli mostra che essi, non soltanto nel riferire i detti di Gesù, ma anche nel raccontarne le vicende, usano uno stile che è stato chiamato « stile orale », perché corrisponde in alcune sue caratteristiche alla struttura della comunicazione fatta a viva voce.
    Non si ha traccia nell'antichità del fatto che il sorgere dei Vangeli scritti soltanto in un secondo tempo potesse costituire una difficoltà per la loro attendibilità storica. È solo in tempi più recenti, soprattutto a cominciare dal secolo scorso, che l'esistenza di un periodo di vangelo predicato anteriore ai vangeli scritti ha dato occasione al sorgere di difficoltà molteplici. Non è il caso qui di descriverle particolarmente. Ciò che è importante notare è che esse sembrano partire da un fondo unico, dalla persuasione cioè che il periodo di predicazione orale si debba intendere come un periodo fluido, nel quale, mancando la fissità dello scritto, sia lasciata la porta aperta a infiltrazioni estranee o a possibili deformazioni del messaggio.
    È possibile ricostruire, con i dati a nostra disposizione, l'atmosfera e le caratteristiche della predicazione primitiva, così da valutare il peso di una simile concezione? Ecco lo scopo di questo messaggio: mostrare che la considerazione attenta dei dati riguardanti la primitiva predicazione cristiana prova rigorosamente che la struttura di essa non solo non la rendeva aperta a infiltrazioni e deformazioni, ma costituiva una garanzia del tutto valida per una trasmissione autentica dei fatti e detti di Gesù. Ora gli elementi strutturali della predicazione primitiva, quali risultano dall'analisi delle fonti, si possono compendiare sotto tre concetti chiave: « apostolicità », « tradizione », « testimonianza ». Analizziamo brevemente ciascuno di essi.
    Sentendo parlare della rapida diffusione del cristianesimo nei suoi inizi, alcuni sono indotti a immaginarsi questo fatto come un fenomeno d'entusiasmo popolare. L'annuncio del Cristo risorto, appena percepito nella mattina di Pasqua, sarebbe stato diffuso con rapidità e crescente entusiasmo, così come si diffonde una grande notizia di attualità. Esso avrebbe presto superato i limiti della Palestina, trovando dappertutto simpatizzanti e aderenti, e dando origine al sorgere di gruppi di devoti ardenti di Cristo. È evidente che in un simile quadro trova posto con difficoltà una seria trasmissione storica dei fatti di Gesù. II contagio dell'entusiasmo popolare è poco propizio al vaglio accurato dei fatti. I fanatici accettano qualsiasi cosa venga detta a esaltazione del loro eroe. La storia delle religioni conosce simili fenomeni di diffusione entusiastica di notizie poco controllate sotto l'impulso di un fervore religioso, e lo storico sa quanto sia difficile in questi casi discernere gli elementi di verità dalle amplificazioni fatte in buona fede.
    Ora bisogna affermare con risolutezza che se un tale quadro di diffusione di un messaggio religioso si è talora verificato nella storia, esso non ha nulla a che vedere con il modo in cui si è diffuso il messaggio cristiano. Intendere la proclamazione e diffusione del vangelo come un'attività lasciata alla libera iniziativa di fanatici, come un'impresa in cui ciascuno potesse impegnarsi a piacere secondo il proprio zelo, è costruire un quadro della predicazione primitiva che è tutto fuorché storico. Le fonti autentiche ci obbligano a rappresentarci la cosa in modo affatto diverso. La predicazione primitiva non è un fenomeno di libero entusiasmo; essa è stata un'attività rigorosamente organizzata sotto la guida e il controllo degli apostoli, responsabili e garanti del messaggio.
    Ciò vale prima di tutto per la chiesa di Gerusalemme, centro del primo irradiamento del vangelo. In questa città è Pietro che annuncia ripetutamente il messaggio evangelico, secondo uno schema che si ripeterà in maniera costante anche negli altri discorsi missionari della chiesa primitiva (cfr. At 2,14-40; 3,12-26; 4,8-12; 5,29-32). E Pietro agisce come capo e interprete del gruppo apostolico, il quale considera il ministero della parola come il proprio dovere specifico, di cui esso ha la responsabilità. Quando si tratta di ammettere nel gruppo degli apostoli un sostituto per il traditore Giuda, si esige che il nuovo eletto sia stato testimone oculare dei fatti di Gesù dall'inizio della vita pubblica fino alla morte e risurrezione, per poterli così annunciare con esattezza e fedeltà (At 1,15-26). Se ad altri all'infuori del gruppo apostolico viene trasmesso il mandato di predicare (è il caso, per esempio, di Stefano), si richiede però l'imposizione delle mani da parte del gruppo apostolico, che designa la persona come mandatario ufficiale di coloro che detengono l'autorità della predicazione (At 6,6).
    Ben presto la buona novella evangelica si diffonde nelle regioni attorno a Gerusalemme. Anche se la prima notizia dei fatti di Gesù può essere stata diffusa dallo zelo dei primi convertiti, le fonti ci mostrano il gruppo apostolico preoccupato di seguire il movimento di conversioni. Pietro e Giovanni si recano personalmente a ispezionare l'apostolato in Samaria (At 8,14-17), anche se esso è stato opera di uno che ha ricevuto l'« imposizione delle mani » dagli apostoli, cioè l' “evangelista” Filippo, e Pietro visiterà sistematicamente le comunità dei nuovi credenti nella pianura palestinese (At 9,32-43), mentre sarà egli stesso l'iniziatore del movimento di conversione dei pagani nella capitale della Giudea, la città di Cesarea (At 10,1-4[SM=g27989].
    È anche istruttiva la storia della fondazione di una delle più importanti comunità cristiane e missionarie del primo secolo, quella di Antiochia. La prima notizia del cristianesimo vi giunge per opera dello zelo di alcuni cristiani (At 11,19-21). Tuttavia, appena a Gerusalemme si viene a sapere del fermento di conversioni nella grande città della Siria, viene inviato là Barnaba (At 11,22-55), che è stato fin dai primi giorni un fiduciario del gruppo apostolico (At 4, 36-37), per visitare la comunità e assicurarsi del suo stato. È chiaro, dunque, come lo sviluppo del cristianesimo nascente non è lasciato alla buona volontà o all'entusiasmo di ciascuno, ma è saldamente controllato dai responsabili della dottrina e della vita cristiana.
    La stessa struttura gerarchica si nota anche nell'apostolato di san Paolo. Egli stesso, dopo il soggiorno in Arabia, si è recato a Gerusalemme ed è rimasto quindici giorni con Pietro (Gal 1,1[SM=g27989], certamente per confrontare con lui il proprio messaggio su Cristo. Terminata la prima missione nelle regioni dell'Asia Minore, Paolo riferisce a Gerusalemme sulla sua predicazione, « per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano » (Gal 2,2) e riceve l'approvazione dell'assemblea di Gerusalemme (Gal 2,9; cfr. At 15). Nelle comunità da lui fondate egli stabilisce parimenti un'organizzazione della predicazione. Le funzioni del servizio della parola sono determinate secondo una gerarchia che mette al primo posto gli « apostoli », quindi i « profeti », gli « evangelisti » ecc. (Ef 4,11; cfr. 1 Cor 12,8; Rm 12,7). Le lettere pastorali ci forniscono indicazioni precise sull'autorità magisteriale degli incaricati ufficiali della predicazione (cfr. 2 Tm 1,11-14; 2,1s; 4,5 ecc.).Se dobbiamo dunque giudicare della predicazione del Nuovo Testamento secondo un criterio storico, cioè sulla base delle fonti autentiche, vediamo che esse ci presentano concordemente non una predicazione lasciata in mano di fanatici, ma una predicazione che è una prerogativa degli apostoli, deputati a ciò da Gesù stesso, e che viene da questi comunicata a persone di fiducia che rimangono sotto la loro sorveglianza. Non è quindi un fenomeno di trasmissione contagiosa ed euforica di notizie vaghe e imprecise, ma un fenomeno di rigorosa trasmissione tradizionale. Ciò sarà chiarito maggiormente dall'analisi del fenomeno della « tradizione ».
    La caratteristica che ho ora illustrato riguarda l'aspetto attivo della predicazione, cioè la sua origine apostolica e la sua dipendenza costante dall'autorità gerarchica. Occorre ora considerare la predicazione apostolica dal punto di vista dell'uditore. Con quale mentalità veniva essa ricevuta? Quali erano gli atteggiamenti delle comunità di fronte al messaggio? Essi si riassumono in un atteggiamento tipico per il mondo antico, quello dell'accettazione di una « tradizione ».
    Un uomo del nostro tempo, che mediante i vari mezzi di diffusione del pensiero riceve costantemente nuovi impulsi e impressioni praticamente da tutto il resto del mondo, prova difficoltà nell'apprezzare adeguatamente il posto tenuto dalla « tradizione » (nel suo significato più ampio) in un ambiente culturale chiuso come quello antico, dove i nuovi impulsi culturali provenienti dal di fuori sono relativamente pochi, e dove l'eredità culturale provvede a tutte le necessità della formazione religiosa, umana e sociale dell'individuo. Nella società antica il singolo veniva introdotto gradualmente a partecipare alla vita del gruppo attraverso una serie di iniziazioni che consistevano sostanzialmente nella trasmissione delle cognizioni, delle credenze, delle leggi e consuetudini proprie del gruppo stesso. Benché tale trasmissione potesse anche giovarsi dell'aiuto di scritti, la sensibilità comune dell'uomo antico (sia orientale sia greco) portava a valutare l'insegnamento ricevuto dalle labbra di un maestro autorizzato (il padre di famiglia, il sacerdote, il filosofo) assai più che non quel lo che si potesse ricavare dalla lettura di un testo. Di qui l'importanza assai grande data alla memoria. Talora poteva operare in questa diffidenza verso lo scritto un certo timore superstizioso verso il carattere magico attribuito alla parola scritta. Più spesso si trattava della percezione acuta di una radicale incapacità della parola scritta a rendere la pienezza di vita, la potenza di espressione, le sfumature di accento proprie di un discorso parlato. «Chi s'immagina di poter tramandare un'arte affidandola ai segni dell'alfabeto », dice Socrate a Fedro, « e chi la riceve nella convinzione di poter da quei segni trarre qualcosa di preciso e di saldo, ha da essere pieno di una grande ingenuità. » Per questo, parlando di « tradizione », presso gli antichi si intende sempre una tradizione in cui abbia una parte importante la comunicazione orale di padre in figlio, o di maestro in discepolo, di un certo numero di cognizioni. Si veda a questo proposito Papia vescovo di Gerapoli, nato nel 70 e morto nel 150, il quale disse: “Se in qualche luogo m’imbattevo in qualcuno che avesse convissuto con i presbiteri(=gli anziani, gli apostoli), io cercavo di conoscere i discorsi dei presbiteri: che cosa disse Andrea o che cosa Pietro o che cosa Filippo o che cosa Tommaso o Giacomo o che cosa Giovanni o Matteo o alcun altro dei discepoli del Signore; e ciò che dicono Aristione ed il presbitero Giovanni , discepoli del Signore. Poiché io ero persuaso che ciò che potevo ricavare dai libri non mi avrebbe giovato tanto, quanto quello che udivo dalla viva voce ancora superstite.” (in Eus Historia Ecclesiastica, III, 39, 1 ss.)
    Qui abbiamo un genuino esempio di quello che era l’atteggiamento del cristiano delle origini difronte alla Traditio, con buona pace delle astoriche convinzioni protestanti.
    Anche la « tradizione » di libri sacri non andava disgiunta da un contesto di nozioni che ne perpetuavano la viva e autentica interpretazione.
    Per gli ebrei in particolare il concetto di « tradizione » era essenziale per la conservazione delle loro strutture religiose e sociali. Già nel Deuteronomio si trova l'ammonizione fatta al padre di famiglia di tramandare ai figli le notizie storiche sull'origine del popolo (Dt 6,20-25; cfr. Sal 78,3). « II contenuto principale della cultura come dell'educazione giudaica era la tradizione, la memoria del passato », scrive lo studioso di pedagogia giudaica N. Morris, e continua: « Queste memorie venivano tenute vive da un sistema rituale e cerimoniale che nell'età talmudica aveva raggiunto una straordinaria ricchezza e varietà, quasi senza paralleli nella storia di ogni altro popolo. Per tutta la sua vita, dalla nascita alla morte, il giudeo era circondato da una successione senza fine di segni e di simboli, che lo invitavano incessantemente a ricordare ».
    Nel tempo in cui viene annunciato il messaggio di Gesù, questa attitudine tradizionale, cioè la capacità di ricevere una dottrina e conservarla e trasmetterla fedelmente, era quanto mai viva nell'ambiente mediterraneo, giudaico e greco. La diffusione del messaggio cristiano si serve di queste categorie e opera anch'essa secondo uno schema « tradizionale »? Tutti i dati delle fonti sono per una risposta affermativa. II vocabolario del Nuovo Testamento possiede i termini caratteristici degli ambienti di trasmissione tradizionale. Già i rapporti tra Gesù e gli apostoli venivano considerati come rapporti tra « maestro » e « discepoli » (il nome di « discepoli » si trova nei Vangeli circa 250 volte). Nelle lettere paoline ritroviamo tutta la terminologia giudaica della « tradizione» (cfr. 2 Ts 2,15; 1 Cor 11,2; 11,23; 15,1-3; 1 Ts 2,13; 2 Ts 3,6; Rm 6,17; Gal 1, 9.12; Fil 4,9; Col 2,6.[SM=g27989], anche la traduzione letterale dei verbi tecnici in uso nelle scuole rabbiniche per indicare l'apprendimento di un contenuto comunicato dal maestro al discepolo: qibbel min (ricevere) e masar le (trasmettere) (cfr. 1 Cor 11,23; 15,3). Uno dei documenti più antichi del Nuovo Testamento, la seconda lettera ai Tessalonicesi (anno 52), porta questo ammonimento di san Paolo: « State saldi e conservate fortemente le tradizioni » (2 Ts 2,15). Ai Corinzi viene ricordato pochi anni più tardi (anno 55) che il dovere fondamentale degli « economi »(1'immagine indica coloro che hanno la responsabilità del messaggio evangelico) « è che ciascuno sia trovato fedele » (1 Cor 4,1-2). Nella stessa lettera, a proposito di due punti fondamentali della predicazione, cioè l'istituzione dell'eucaristia e la passione e risurrezione, san Paolo scrive: « Ho ricevuto, come anche vi ho trasmesso » (11,23); « Vi ho trasmesso quello che ho ricevuto »(15,3); « Così noi predichiamo e così avete creduto »(15,11); « Per questo vangelo sarete salvi, se lo conserverete come lo ho annunziato » (15,2). E ancora: « Vi lodo perché in ogni cosa ritenete le tradizioni tali e quali ve le ho trasmesse » (11,2).
    Queste parole sono indice di un atteggiamento costante: ciò che a tutti supremamente importa è che il messaggio sia trasmesso, ricevuto e conservato così come esso è, nella fedeltà alla sua formulazione originaria. Le comunità non cercano una dottrina nuova o interessante, ma la dottrina di salvezza contenuta nei detti e nei fatti salvifici di Gesù. Questa dottrina è come un sacro «deposito» (1 Tm 6,20; 2 Tm 1,12.14), di cui l'apostolo dovrà rendere stretto conto e che egli si preoccupa venga trasmesso a « uomini fidati » (2 Tm 2,2). Uno studio filologico del tema del «deposito » nell'ambiente giuridico del mondo ellenistico mostra che san Paolo ha in mente le leggi di onestà proprie del contratto di deposito, così come esso veniva comunemente inteso, soprattutto con la caratteristica di assoluta fedeltà.
    Si potrebbero citare numerosi altri documenti del Nuovo Testamento, ma il quadro non cambierebbe. La predicazione primitiva risuona in un ambiente e in una comunità che, ben lungi dal voler essere creatrice di messaggi nuovi o diversi, pone il suo sforzo nel ricevere e nel conservare la dottrina apostolica così come essa è stata trasmessa, perché soltanto così ha la certezza di essere in contatto con la salvezza portata da Gesù. Da qui la polemica costante in tutti i Padri della Chiesa contro coloro che non possono vantare una Traditio apostolica, contro le sette i cui ministri non discendono, tramite imposizione delle mani di successore in successore degli apostoli, dalla comunità originaria. Ecco perché parlare di manifestazioni incontrollate di euforia come se stessimo parlando di storielle raccontate in una volgare birreria bavarese è completamente astorico, una gratuita ipotesi ad hoc, e come tale dev’essere gratis negatur, esattamente come è stata gratis adfirmatur dall’interlocutore. Quando cioè si comunincia a ragionare con gli schemi del “colpevole fino a prova contraria”, con lo schema del “bugiardo a priori” non si sta facendo una ricerca storica onesta e non si conoscono le metodologie dello studio antichistico.
    La predicazione apostolica e la trasmissione del messaggio evangelico si manifestano dunque come avvenute in circostanze del tutto particolari: struttura organizzata dall'alto, preoccupazione per la conservazione integra e fedele del messaggio. Siamo perciò di fronte a una situazione assai diversa da quella della trasmissione di antichi cicli narrativi, come le tradizioni epiche dell'antica Grecia o anche non poche narrazioni agiografiche medievali. Quale il motivo profondo di questi aspetti peculiari (ed estremamente favorevoli per un giudizio di attendibilità storica) propri della tradizione evangelica? Esso ci è svelato dall'analisi di una terza caratteristica propria della predicazione primitiva, che può essere chiamato il suo aspetto « testimoniale ».
    Chi legge il Nuovo Testamento è colpito dalla frequenza con cui ritorna nei vari scritti il verbo « testimoniare » e i vocaboli affini (testimone, testimonianza ecc.): si tratta di almeno 167 testi. La parola « testimone » aveva anche nell'antichità come suo ambiente proprio quello giuridico-legale, significando colui che, per immediata esperienza personale, era in grado di fare affermazioni pubbliche su avvenimenti o persone. Aristotele si era occupato di definire le caratteristiche dei testimoni processuali nella sua Retorica, e dopo di lui il soggetto era stato trattato da altri filosofi e retori antichi.
    È chiara l'importanza che un simile termine assume quando viene usato dalle fonti per descrivere la predicazione apostolica, anzi quando diviene quasi un termine tecnico con cui tale predicazione è definita. Con ciò il mondo del Nuovo Testamento dimostra la propria persuasione che, ascoltando gli apostoli, esso intende ascoltare coloro i quali hanno visto e sentito Gesù, e possono narrare con sicura certezza qualcosa su di lui. Gli apostoli stessi assumono l'aspetto non tanto di predicatori di una dottrina astratta di salvezza, ma di testimoni di un fatto inequivocabile, che essi sentono il grave dovere di far conoscere nella sua realtà. Per questo Gesù li invia con il comando: « Mi sarete testimoni » (At 1,8; cfr. Lc 24,4[SM=g27989], e a questa loro qualità essi si riferiscono continuamente nei loro discorsi (cfr. At 1,22; 2,32; 3,15; 5,32; 10,39; 10,41; 13,31; 22,15; 26,16; 1 Pt 5,1). Di fronte al Sinedrio, che impone di tacere sui fatti di Gesù, Pietro e Giovanni rispondono con sicura coscienza: «Non possiamo non parlare di quelle cose che abbiamo vedute e udite » (At 4,20). Lucien Cerfaux, studiando l'uso del termine « testimone » negli Atti degli Apostoli, ha mostrato acutamente come traspaia dai documenti che si tratta in qualche modo di riprendere, di fronte al giudizio delle folle che ascoltano a Gerusalemme la predicazione apostolica, il processo di Gesù, conchiusosi così tragicamente solo poco tempo prima. Gli apostoli, resi audaci dalla grazia dello Spirito, intervengono ora pubblicamente in favore di Gesù, come testimoni autentici e qualificati delle sue opere e delle sue parole, in particolare della sua risurrezione gloriosa. II popolo che si converte accetta la loro testimonianza, perché sa che essa riposa su un'esatta conoscenza dei fatti.
    La predicazione del vangelo nasce così come una testimonianza solenne e irrefragabile di fatti realmente avvenuti, e anche in seguito, quando si diffonde fuori della Palestina, trae la propria validità e possibilità di imporsi dalla propria capacità di riferirsi alla primitiva testimonianza oculare. Per questo san Paolo, predicando a Corinto sulla risurrezione, ha elencato ai suoi uditori i nomi dei principali testimoni del Risorto: « [Gesù] fu veduto da Pietro, e poi dai Dodici. Apparve pure a più di cinquecento fratelli, in una volta sola, dei quali i più vivono ancora, mentre alcuni sono morti. Fu veduto quindi da Giacomo, poi da tutti gli apostoli » (1 Cor 15,5-7). San Luca, che scrive già alcuni decenni dopo i fatti di Gesù, ha cura di notare nel suo prologo che ciò
    che egli dirà si può riportare, attraverso una trasmissione fedele, ai "testimoni oculari" (Lc 1,2): solo così si potrà essere certi della « solidità » delle cose narrate (Lc 1,4). Ricordiamo ancora una volta di come all'inizio del II secolo, uno dei più antichi scrittori ecclesiastici, Papia, l’appena citato vescovo di Gerapoli, nella prefazione del suo libro di commento ai detti di Gesù, ci fa una descrizione commovente dell'ardore con cui al suo tempo si raccoglievano le più minute particelle della tradizione risalente agli apostoli. Se occorreva che passasse per la comunità qualcuno che era stato in contatto con gli apostoli, egli veniva interrogato ansiosamente su ciò che sapeva. «Ritenevo infatti che i libri non mi giovassero», conclude Papia, « quanto le cose udite dalla voce viva e permanente. »
    Quale il motivo profondo di questo riferimento costante al testimonio nella chiesa antica? Ce lo spiega con una frase quasi paradossale san Paolo: « Or se Cristo non è stato risuscitato, vana è dunque la nostra predicazione e vana è pure la vostra fede. Anzi noi risultiamo falsi testimoni d'Iddio, perché abbiamo testimoniato per Iddio che egli ha risuscitato il Cristo, mentre non l'avrebbe risuscitato» (1 Cor 15,14-15). Tutto il valore della predicazione dipende dunque dalla realtà del fatto di Cristo. Non è per la validità intrinseca d'un ragionamento filosofico o per la sublimità di una dottrina morale che i primi cristiani hanno accettato il vangelo e sperano nella salvezza, ma per la realtà storica dei fatti testimoniati, per la certezza di salute contenuta nella predicazione, nei miracoli, nella morte e risurrezione di Gesù. Ciò che dunque importa non è il predicatore abile o fecondo, ma il testimone fedele. Apollo infatti, che pure predicava in nome di Cristo, fu fermato dai cristiani perché non aveva ricevuto la catechesi apostolica ufficiale e dunque andava istruito, e ne valse la pena visto che divenne uno dei più grandi predicatori dell’età apostolica. L'importanza della « testimonianza » per il Nuovo Testamento è dunque una delle espressioni del posto senza precedenti che la persona e i fatti di Gesù assumono nella predicazione e nella fede religiosa dei cristiani.
    La solennità e l'impegno della testimonianza resa dalla predicazione apostolica a Gesù Cristo sono anche documentati dallo sviluppo semantico del vocabolo che in greco significa « testimone ». Dopo aver indicato colui che si impegna personalmente per il messaggio, esso viene gradualmente a significare l'impegno totale fino alla suprema testimonianza, fino al « martirio ». Le persecuzioni risultano così come l'ultima prova e il sigillo della serietà e della buona coscienza del testimone cristiano.
    Possiamo così rispondere alla domanda che ci siamo posti all'inizio. II fatto che il vangelo, prima di essere messo in iscritto, sia stato predicato oralmente non si rivela come un fatto negativo per la sua conservazione fedele, se si tiene conto della natura della predicazione e delle caratteristiche delle comunità in cui tale predicazione veniva ricevuta. Gli apostoli, e quelli che da loro avevano avuto il mandato di predicare, hanno sentito il grave dovere di rendere la testimonianza con franchezza (1 Ts 2,2; 2 Cor 3,12; At 28,31), con trasparenza cristallina (2 Cor 2,17) e con fedeltà (1 Cor 4,2), fino alla testimonianza del sangue. La diffusione del messaggio evangelico è sempre rimasta sotto il controllo della gerarchia apostolica, ed è stata ricevuta come un deposito sacro, da conservare e trasmettere fedelmente, per restare così in contatto con la salvezza portata da Gesù. Lo studio oggettivo dell'ambiente in cui è avvenuta la prima proclamazione del vangelo porta così a riconoscere che essa si è effettuata in condizioni estremamente favorevoli, e secondo strutture che ne garantiscono, anche dal punto di vista storico, l'attendibilità.
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    Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
    Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
    Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
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    00 05/02/2007 11:42
    Mi mancavano le lenzuolate… per caso sei di quelli che credono che scrivendo di più si avrà più ragione ?

    Ma veniamo a noi.

    “Vale per questo post ciò che ho detto anche altrove, cioè che quando si vuole mettere in dubbio la storicità dei Vangeli bisogna iniziare a formulare ipotesi ad hoc per smentire le fonti”

    Questa affermazione è un tentativo di rigirare la frittata. Dovresti sapere che qualsiasi fonte non viene oggi presa per oro colato dagli storici, figuriamoci scritti di carattere religioso ! Le fonti vanno vagliate, esaminate, confrontate per conoscerne il grado di affidabilità e ritenerla, in toto o in parte storicamente attendibile. Non possiamo dare retta acriticamente ad un pinco pallino qualsiasi che si mette a scrivere solo perché quel documento è giunto fino a noi. Dobbiamo trovare delle prove, dei riscontri che attestino la veridicità o verosimiglianza storica di ciò che un testimone racconta, soprattutto se questo testimone è un fedele (leggi fanatico) seguace di un credo.

    “Questo mi è stato suggerito dal fatto all'inizio del tuo post sostieni che Paolo non si è inventato di avere questi 500 testimoni ma poi alla fine del messaggio per confutare le mie repliche ritorni su questa posizione. “

    Non capisco a cosa ti riferisci, se ritorno sull’argomento è perché hai posto diverse obiezioni alle quali ho risposto, la mia posizione è coerente e dunque non vedo perché tu ritieni, a torto te lo assicuro, che io non legga prima l’intero post e poi risponda.

    “Io non ho la più pallida idea di come un apostolo vicino al gruppo dirigente di Gerusalemme possa credere per leggenda che ci sono 500 testimoni della resurrezione di Cristo”

    Vicino al gruppo dirigente parliamone, inoltre non vedo proprio dove sia il problema nel credere a questa leggenda da parte di Palo.

    “tuttavia dalla frase detta sopra si può dedurre che egli consideri i fatti descritti dagli evangelisti come sarebbero stati descritti dai testimoni che li hanno visti”

    Il senso esatto della frase occorrerebbe chiederlo a Pesce ! Non possiamo giudicare la sua posizione senza avere la certezza di quello che voleva affermare. Dunque alla luce di tutto ciò credo che il nostro dibattito, se è incentrato unicamente sulla posizione dello studioso, sia piuttosto sterile.

    “ma francamente trovo la tua esposizione un tantino dilettantistica rispetto agli studi decennali dell'antropologia sulla trasmissione del sapere nelle società orali.”

    E così è, difatti non sono un antropologo. Tuttavia ho dimostrato con un fatto accaduto realmente che gli studi antropologici a cui ti riferisci (ricordiamoci che l’antropologia non è certo una scienza esatta), non tengono sempre in debito conto della psicologia umana ! Io sono ancora vivo, tuttavia nessuno mi è venuto ancora a chiedere direttamente se quella leggenda o meno è vera e nonostante ciò tutti i suoi allievi vi credono ciecamente.

    “Qui siamo davanti non a un fatterello da raccontare tra amici ma ad una predicazione dal contenuto dottrinale e catechetico”

    Questo lo credi tu con la mentalità del 2007 !

    “fermarono Apollo poiché la sua predicazione non era conforme a quella dell'ortodossia”

    Tu vivi nella pia illusione che esistesse una “ortodossia” sin da subito. Questo è storicamente falso e lo dimostrano le numerose “sette” cristiane che sin da subito dopo la morte di Gesù videro la luce a cominciare dal contrasto tra Giacomo/Pietro e Paolo. Tutta la tua trattazione successiva si basa su questo falso assunto e dunque è assolutamente inutile che io la prenda in considerazione. (vedi ad esempio quando citi la frase “anche se noi o un angelo del cielo vi evangelizzasse se diversamente da ciò che vi evangelizziamo noi, sia anatema", qui Paolo afferma banalmente che la sua dottrina è quella ortodossa e non che esiste unicamente un’ortodossia riconosciuta, difatti se esistesse non avrebbe motivo di scrivere una frase del genere !! Il fatto che la scriva significa che di movimenti cristiani ve ne erano diversi e che ognuno, ovviamente, riteneva il suo messaggio “ il vero cristianesimo”, oggi chiamiamo ortodossa la setta vincente)

    “Nel nostro caso invece i protagonisti di questa faccenda di predicazione cioè gli apostoli sono tutti vivi nel periodo in considerazione”

    Ma nel parallelismo io rappresentavo gli apostoli e il mio maestro rappresentava Gesù.

    “Mentre come abbiamo già appurato i miracoli di Gesù, per i quali nel discorso di Pesce è fatta salva la buona fede del racconto dei testimoni, non sono spiegabili con illusionismo.”

    Forse non hai colto la mia obiezione. Io ti sto dicendo che i miracoli di Gesù non avvennero esattamente come ce li raccontano i vangeli, ecco perché non è possibile fare alcuna verifica ! Come già ti ho detto, probabilmente furono eventi spiegabilissimi al giorno d’oggi, ingigantiti dal passaparola e dalla “fede” nel Messia. Per questo motivo non si può affatto fare uno studio sulla loro “riproducibilità” non essendo noi certi che si svolsero così come ce li raccontano.

    “salva la buona fede degli evangelisti”

    Esatto, è possibile che le storie che arrivarono alle loro orecchie non erano storicamente fondate, ossia che furono “ingigantite” e in parte modificate, puoi forse escluderlo ?

    Tutta la tua trattazione sui miracoli di Gesù e sulla loro storicità è priva di senso poiché, come sappiamo, all’epoca venivano visti miracoli dappertutto, fatti da diversi personaggi, dunque o accettiamo che all’epoca ci fosse nell’aria una polverina magica che permetteva a molti di guarire e resuscitare, oppure dobbiamo chiederci perché la gente vedeva miracoli dietro ogni angolo ! Oppure mi dovresti spiegare perché mai i miracoli di Gesù siano da considerare autentici e quelli degli altri “messia” o personaggi dell’epoca falsi.

    “Il vero miracolo è, facendo salva la buona fede dei testimoni come fa Pesce, spiegare come ci si possa convincere in così tante persone che qualcuno sia risorto, inventarsi che è apparso e addirittura che si è fatto toccare.”

    Mio caro, dovresti sapere, visto che hai a che fare con i tdg, che la mente umana è un mistero insondabile. Io non mi stupisco affatto che la gente abbia bisogno di credere ad un Dio, ad un uomo-Dio risorto per salvare loro e l’umanità intera, soprattutto nella situazione in cui si trovavano i giudei dell’epoca. Io credo che sia stato sufficiente, per i discepoli che amavano e seguivano Gesù e che si erano illusi di trovare in lui la redenzione e la liberazione di Israele, scorgere il sepolcro vuoto per credere profondamente che Gesù risorse !! Agli altri a cui predicavano, non essendo “infatuati” come loro, ovviamente non bastava come prova, allora nacquero le apparizioni e tutto il resto ! Fu una “menzogna a fin di bene”, cioè si inventarono le apparizioni per convincere gli altri di qualcosa di cui loro erano effettivamente già convinti, erano in buona fede e pensarono probabilmente di “ingigantire” i fatti per divulgare al meglio la loro fede in Gesù risorto. Hai affrontato questa questione nel tuo secondo post, voglio precisare che io avevo già formulato questa ipotesi altre volte, riporto il tuo scritto:

    “Gli apostoli, le donne hanno avuto la certezza assoluta che il Cristo è risorto, e non hanno saputo esprimere questa certezza se non con un racconto di incontro. Come, allora - si domanda l'autore -, essi avrebbero avuto la certezza del Risorto? Egli risponde che ciò poté avvenire in molti modi, per esempio dalle affermazioni e prove offerte da Gesù durante la sua vita terrestre, dal fatto di rivelazioni interiori dopo la sua morte, dal dono dello Spirito Santo, dai segni di fede nella comunità primitiva.”

    Secondo me, ripeto, la tomba vuota bastò e avanzò ai seguaci innamorati del loro maestro, quale prova della resurrezione in gloria di Gesù. Il resto sono “parabole” nate al fine di divulgare la notizia con “prove” sufficienti a convincere i non seguaci.


    “il kerygma della risurrezione è primitivo”

    Questo tema è dibattuto come ben sai. Anche in Paolo si scorge un cambiamento del Kerygma ed è sintomatico di come esso sia cambiato dal momento della morte di Gesù alle lettere paoline. Rimando ad un successivo post la trattazione specifica.

    “Tutto ciò, per chi pensa con mentalità di storico, è un quadro assurdo, anche se oggi trova schiere di gente che vi crede”

    Invece, da parte mia, la descrizione di Ratzinger del “cliché” come lo chiama lui, è perfettamente realistica e mi viene da chiedere come sia possibile ritenere più probabile che Dio stesso sia sceso sulla terra !

    “. Inoltre non ho ancora trovato una sola persona che conosca una contraddizione in Dio”

    Questa è davvero bella !! Io stesso te ne ho citate diverse, ma tu non le vuoi vedere caro Polymetis, al pari dei tdg che non vedono l’assurdità del loro Dio ! Fatti un ripassino dei vari Hume, Kant, Spinoza, Mill, Russell. Vi sono tante e tali contraddizioni nella teologia, specialmente cattolica, che basta uno studente liceale che abbia studiato i fondamenti della logica per scorgerle. La teologia ci mette delle “pezze” inventandosi palesi assurdità pur di far quadrare il cerchio. Basti pensare ad un Dio onnipotente (cioè che può tutto) e infinitamente buono, che al contempo lascia l’uomo in una condizione di sofferenza e di dolore. Quando fu fatto notare che ciò è contraddittorio, allora (e badate bene solo allora) i teologi hanno cercato due strade per “risolvere” il problema, depotenziare Dio o trovare altre motivazioni, del tutto inventate e fantasiose, per le quali Dio, nonostante la sua bontà, debba permettere la sofferenza dell’uomo. Il medesimo modus operandi viene adottato per ogni obiezione razionale e contraddizione logica che si trovava nella descrizione di Dio.

    “sta semplicemente invitando ad andare a vedere”

    Fai finta di non capire. Andare a vedere dove !!??? 500 persone di cui alcuni (quanti ?) ancora vivi, dove diavolo li potevano trovare senza nome ne altro?

    “A che serviva elencare il nome di due o tre sconosciuti di Gerusalemme?”

    Hai detto bene SCONOSIUTI dunque impossibile rintracciarli con il nome, figuriamoci senza ! Paolo sapeva bene che i corinzi non avrebbero mai potuto verificare le sue parole. E’ come se io oggi ti scrivessi che ho volato e ti dicessi che ben 500 persone milanesi hanno assistito all’evento, come minimo mi chiederesti di farti i nomi !!

    “sarebbe bastato cioè rivolgersi alla Chiesa”

    Come no ! E’ ovvio che se voglio verificare se una Chiesa mi sta raccontando la verità non vado in Chiesa a chiedere non credi ? Se è come dici allora cosa è servito citare 500 testimoni ? Ti contraddici da solo.

    “L'auditorio era scettico è proprio per questo Paolo scrive una lettera”

    Appunto, per convincerli dice qualcosa di forte ma di inverificabile.

    “la non-fede condiziona lo storico dei Vangeli molto più della fede, mostro cioè che anche qui bisogna far quadrare il cerchio, quello del proprio ateismo. “

    Io e tutti gli studiosi aconfessionali, siamo del parere opposto. La fede condiziona, limita, dogmatizza, la non-fede è libera e non deve difendere o dimostrare alcunché, è aperta a tutte le possibilità, anche a quella di credere !

    Segue un post di studio sul kerygma primitivo in risposta ai due tuoi precedenti

    Saluti
    Andrea

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    00 05/02/2007 11:56
    Il presente post è basato su alcune dispense del corsodi Storia del cristianesimo antico tenute dal Prof. Cacitti ordinario di Storia del cristianesimo antico presso l’Università degli studi di Milano.

    La dispensa è di un paio di anni fa, quindi recentissima. Credo che, a questo punto, nessuno potrà più utilizzare l’ormai inflazionata tecnica del discredito, attraverso l’accusa di obsolescenza degli studi o peggio di dilettantismo degli autori. Il corso a cui mi riferisco, l’università nel quale è tenuto, l’autorevolezza del cattedratico, la collaborazione di altri ricercatori, sono tutti elementi che conferiscono indubbio credito ai risultati della ricerca che esporrò.

    Poiché il documento è lungo, riporterò i passi significativi della ricerca sul Gesù storico, a conferma di quanto ho fin qui sostenuto.

    Per introdurre l’argomento diamo un’occhiata agli albori della ricerca. Nel 1776 il Lessing pubblicava a Wolfenbüttel, presso la cui Biblioteca Palatina prestava servizio, il VII frammento dell’opera di un Anonimo, che si seppe immediatamente essere un professore di Lingue Orientali ad Amburgo, Samuel Reimarus, dal significativo titolo: Vom Zwecke Jesus und seiner Jünger, Sugli scopi di Gesù e dei suoi discepoli. Per la prima volta emergeva la coscienza di una reale difformità tra il progetto di Gesù e i modi e le forme della sua recezione presso le comunità apostoliche, mettendo sostanzialmente in discussione l’identità fra il Gesù della storia e il Cristo della fede.

    Il Prof. Cacitti così si esprime a proposito delle origini cristiane:

    “le origini cristiane racchiudono, per così dire, la matrice di tutta la successiva storia cristiana: entro le sue coordinate cronologiche e geografiche, infatti, si è venuto elaborando quel corpus di scritture –Epistole, Vangeli, Atti e Apocalisse- che successivamente è stato ritenuto normativo, tecnicamente si suol dire canonico, rispetto a qualsivoglia altra rappresentazione del cristianesimo stesso. Il Nuovo Testamento infatti, sotto il profilo dell’indagine storica, non costituisce altro che una tra le più arcaiche produzioni letterarie cristiane --distribuita in un arco temporale di circa mezzo secolo (50 ca. – 100 ca. e.v.)-- che, essendo stata ritenuta ispirata, vale a dire composta sotto l’afflato dello Spirito divino, si è fin dalle origini posta come discrimine tra verità ed errore e quindi tra ortodossia ed eresia.”

    Una delle posizioni che ho sempre sostenuto prevede che le cosiddette “origini cristiane” dell’Europa, non siano in realtà altro che il risultato della mescolanza di tradizioni ebraiche ed ellenistiche (greche e romane), ciò è confermato da quanto segue:

    “La nostra disciplina [Storia del cristianesimo antico n.d.r.] interseca la nascita di un movimento religioso, il cristianesimo, che ha segnato con potente e pervasiva originalità la storia dei venti secoli che ci stanno alle spalle, non solo in Occidente e non sempre per buone cause, come documentano la sofferenza d’interi popoli e la distruzione di intere civiltà perpetrate anche in nome di Gesù Cristo. Dentro questo prodigioso fenomeno, sta comunque l’eredità religiosa ebraica non meno della trasmissione del pensiero greco e della codificazione del diritto romano; [..]ma ci sta anche, come accennavo, l’intolleranza per il diverso (dall’ebreo al musulmano all’eretico alla strega), la brama di dominio (nelle Americhe, in Asia, in Africa, in Oceania), la conflittualità interconfessionale, spesso violenta e brutale. “

    Ora, in merito a ciò che sostenni a proposito dell’obbiettività degli studi cattolici e della possibilità di ricevere in ambito pre-universitario un insegnamento obbiettivo dal punto di vista storico-religioso, riporto il passaggio dove il Prof. Cacitti riflette sulla grave questione dell’inattualità oggettiva dello studio del cristianesimo antico:

    “Ma vi è pur troppo un ulteriore elemento di inattualità, specifico della disciplina: per un trattato internazionale stipulato in regime fascista e in regime craxiano rinnovato, lo Stato italiano ha infatti delegato a una confessione cristiana, la Chiesa cattolica, l’insegnamento religionistico in ogni ordine e grado di scuole, Università esclusa: reclutamento dei docenti, programmi didattici, e –cosa inaudita—controllo addirittura non soltanto sul tipo d’insegnamento, che la Costituzione sancisce libero, ma addirittura sulla moralità degli insegnanti vengono appaltati agli Ordinari diocesani, di modo che quello che conta non è in effetti il livello di preparazione del docente, ma la sua idoneità rispetto all’ortodossia e alla morale cattoliche. Ne consegue che il nostro insegnamento è senza sbocchi nel naturale ambito della scuola, per cui tutte le competenze e le professionalità conseguite debbono essere impiegate in settori altri da quello dello specifico insegnamento religionistico. Lo scandalo è grave e, non ostante tutti i tentativi di soffocarlo, resta a testimonianza di un’anomalia insopportabile nell’ordinamento giuridico dello Stato: l’attuale insegnamento della religione cattolica, infatti, si configura come una dilatazione in ambito scolastico della catechesi cattolica, e in nessun modo può sostituire un autentico insegnamento di storia religiosa, vale a dire analisi critica dei fatti religiosi visti nel contesto culturale in cui si sono presentati. Allo studente, viceversa, deve essere consentito di conoscere non soltanto le vicende storiche di un dato credo religioso, ma anche il sistema dottrinale che propone, le prescrizioni cultuali che gli sono legate, la particolare visione del mondo che suggerisce, i modi in cui dà risposta alle questioni esistenziali dell’uomo. Questo genere d’informazioni presuppone la lettura storica, l’unica in grado di porre le basi per ogni considerazione dei sistemi religiosi: “Presto o tardi –scriveva a inizi del Novecento Salomon Reinach a Salvatore Minocchi—la storia delle religioni si insegnerà nelle scuole secondarie, accanto alla storia, alla filosofia, alle scienze. Non vi si insegneranno né la fede, né lo scetticismo, ma fatti certi; vi si insegnerà soprattuto agli scolari a riflettere sopra così gravi questioni, e a concedere ad esse tutta l’attenzione, dirò meglio, tutto il rispetto che meritano. Invece di dire ‘io credo’, oppure ‘non credo’, essi potranno dire in certo modo ‘io so’” (S. Minocchi, L’insegnamento religioso nelle scuole italiane, “La cultura contemporanea” 4 [1912], pp. 217-246, qui 222). A quasi un secolo da quest’auspicio, la situazione non è mutata, con grave detrimento di queste scienze e, ancor maggiore, degli scolari, che restano miseramente ignoranti, credenti o atei che siano.”

    Ne consegue che sempre meno ricercatori non cattolici, specie in Italia, si dedicheranno a questo tipo di studi a motivo della scarsissima immediatezza produttiva della disciplina, in pratica questi studi non hanno “mercato”. La gravità di tutto ciò è evidente poiché vi sarà una progressiva ed inesorabile diminuzione di professori e ricercatori non cattolici che porterà ad una facilmente prevedibile omologazione alla visione cattolica della questione.

    Analizziamo ora l’ipotesi del conflitto tra la visione cristiana di Pietro in contrapposizione con quella paolina. Riferendoci all’episodio di Cornelio, il centurione romano della coorte italica, il Prof. Cacitti sostiene:

    “Pietro stesso riconosce il paradosso della situazione, quando ricorda al suo ospite e alla sua famiglia che “non è lecito per un giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra stirpe” (10,28 ), divieto questo che gli verrà in seguito aspramente ricordato dai circoli osservanti dei cristiani di Gerusalemme, che “lo rimproveravano dicendo: ‘Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato con loro’” (11,2). Questo singolare e scandaloso incontro è frutto tuttavia della sinergia di due simultanee azioni divine: mentre a Cesarea, infatti, Cornelio riceve la visita di un angelo di Dio che gli intima di convocare presso sé Simone (Pietro), questi, di conserta, a Giaffa, sulla terrazza della casa di Simone il conciatore, riceve la visione divina di una tovaglia che scende dal cielo, ricolma di animali di ogni specie, puri e impuri, delle cui carni una voce dall’alto gl’impone di cibarsi: “No davvero –risponde Pietro—poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo”; e la voce, di rimando: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più immondo” (10,13-15). Siamo in perpendicolare, come si può facilmente intendere, a uno dei punti di crisi focale del cristianesimo nascente, quello del dibattito sul superamento delle norme di purità cultuale prescritte dalla religione ebraica già in Lv, e che porta con sé le condizioni di accessibilità alla fede cristiana dei non giudei, dibattito che raggiungerà il proprio acme nello stesso torno di tempo, nel drammatico incontro tra Paolo e Barnaba con la comunità di Gerusalemme presieduta da Giacomo, il fratello del Signore, così come attestatoci da Gal 4 e At 15. Il discorso di Pietro, che ora esamineremo, rappresenta una delle più arcaiche formulazioni del vangelo alle genti, poiché è noto come Luca, autore di At, ponga sistematicamente sulle labbra dell’apostolo il primitivo kerygma che riceve dalla tradizione a lui antecedente.” (grassetto mio).

    E ancora:

    “[..]nel celebre prologo di quello che, a giusto titolo, viene considerato il capolavoro della letteratura paolina, la Lettera ai Romani, che si costituisce piuttosto come un grande trattato teologico in cui si organizza, in sintesi mirabile, l’intero suo pensiero. Qui mi limito a due sole osservazioni: 1. Paolo, contrariamente al solito, scrive a una comunità da lui non soltanto non fondata –in paradossale contraddizione, proprio in chiusura di questa lettera affermerà che “(…) mi sono fatto un punto d’onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo, per non costruire su fondamenta altrui” (15,20)— ma a lui presumibilmente ostile, nella misura in cui essa era di fondazione gerosolimitano-petrina, quindi di quella parte presso le cui “colonne” (oltre a Pietro, Giacomo fratello del Signore e Giovanni) aveva già incontrato resistenze e incomprensioni; Paolo rivendica con orgoglio, fin dall’esordio, il suo titolo di “apostolo”, non certo derivatogli da una precoce militanza nel movimento gesuano, dal momento che egli compare sull’orizzonte quale veemente avversario dei primi circoli giudaici della diaspora che accolgono il kerygma della resurrezione”

    Ecco che si fa notare con forza il contrasto tra la visione paolina del messaggio di Gesù e la visione delle colonne portanti del messaggio di Gesù stesso, ovvero Pietro e ancor più Giacomo (si veda più avanti un altro passaggio a testimonianza di questo conflitto).
    Poiché, come è ormai comunemente accettato tra gli studiosi, tutto il NT altro non è che una testimonianza di fede, ovvero una rilettura delle poche nozioni in merito alla vita terrena di Gesù, attraverso l’evento chiave cioè la morte e resurrezione, poco possiamo trovare in essi per capire chi era davvero il Gesù storico.

    “ Quello che oggi noi troviamo nel Nuovo Testamento è per così dire il sinolo di questa esperienza di fede, per la quale Gesù, in virtù della resurrezione operata da Dio, si costituisce come Cristo. Anzi, l’intera parabola storica di Gesù –dalla nascita alla morte—viene riletta e interpretata alla luce di un evento metastorico, che dà senso e direttrice agli eventi stessi della sua vita. Si tratta dunque di una storia tendenziosa, nella misura in cui tende non tanto a ricostruire una biografia, quanto piuttosto a rintracciare nei dati storici di Gesù gl’indizi, i segni e le premonizioni della sua messianicità, in un progressivo approfondimento che mira a coinvolgere nella dimensione cristologica, dunque nella fede, la predicazione e le gesta storiche di Gesù.”

    Dal brano sopra riportato, si evince chiaramente che l’autore ritiene la resurrezione non un “fatto” realmente avvenuto o storicamente documentato, bensì un evento che va al di là della storia (metastorico). Ne consegue che non si hanno elementi per ritenere un simile evento storicamente accaduto.

    Altro punto focale del mio passato ragionamento fu il percorso di “divinizzazione” di Gesù palesemente riscontrabile nel NT, attraverso la lettura in ordine di redazione degli scritti in esso contenuti. Per Cacitti Paolo nelle sue lettere autentiche, riscontra uno schema cristologico binario:

    “Ci troviamo di fronte a uno schema cristologico binario con cui dovrà fare i conti tutta la tradizione teologica, non meno di quella dogmatica, successiva, vergando pagine di assoluto rilievo nella storia del cristianesimo. Paolo dunque si dichiara apostolo di quel Cristo Gesù:
    ? nato dal seme di Davide secondo la carne (kata sarka)
    ? costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo spirito (kata pneuma) di santificazione “

    Attenzione, non si riscontra un’uguaglianza con Dio, bensì “una potenza secondo lo spirito”, difatti afferma in seguito:

    “Per Paolo, nelle cui lettere autentiche possiamo trovare la più arcaica formulazione del kerygma, il momento della proclamazione della messianicità di Gesù, del suo rivelarsi come Cristo, si situa, come abbiamo appena visto, nella resurrezione, il perno attrono a cui ruota il suo vangelo, tanto che scarsissima attenzione è dall’apostolo dedicata alla vita di Gesù”.

    Non solo, ma ci avverte dell’evidente parallelismo della visione paolina con le religioni misteriche coeve:

    “Questo kerygma paolino corse storicamente il rischio di venir appiattito sull’orizzonte delle religioni misteriche, in cui il dio salvatore ciclicamente muore e risorge, dando così fondamento e senso, nell’attualizzazione cultuale del mito, all’esperienza storica del ciclo dell’esistenza umana in cui, analogamente al succedersi delle stagioni, alla morte subentra la rinascita.”

    Per evitare ciò gli evangelisti, successivamente, sentirono l’esigenza di una sorta di retrodatazione del Kerygma, situandolo già nella vita dell’uomo Gesù. Questa intenzione, si svolse parallelamente alla progressiva esaltazione del Cristo, da messia a Dio stesso. Opera che si compì completamente in Giovanni:

    “In reazione a questo tentativo di mitizzazione della pasqua cristiana si viene formando, certamente dopo la morte dell’apostolo, lo stadio più antico della tradizione sinottica: in Marco, infatti, la manifestazione della messianicità di Gesù, ovvero la sua epifania cristologica, viene situata nel corso della vita di Gesù stesso, al momento del suo battesimo nel Giordano da parte di Giovanni: “E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto”, diretta ed esplicita reminiscenza del primo Cantico del Servo di Iahwe in Is 42,1-2.
    C – Il rischio adozionista, vale a dire la possibilità di leggere questa investitura cristologica da parte di Dio come un’adozione di Gesù, compromettendo così l’idea di una generazione diretta, induce successivamente Luca e Matteo ad anticipare la manifestazione della figliolanza divina alla nascita verginale di Gesù attraverso una esplicita citazione di un testo isaiano: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che sarà chiamato Emanuele” (Is 7,14 in Lc 1,31-33 e Mt 1,23).
    D – Giovanni, infine, oltrepassa il confine storico della nascita, proiettando l’epifania cristologica nella preesistenza del Verbo presso Dio, per cui la stessa nascita di Gesù rappresenta l’incarnazione del Verbo preesistente: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio (…) E il Verbo si fece carne e venne ad abitare presso di noi” (1,1.14).
    Possiamo allora agevolmente notare come, rispetto alla sequenza cronologica della formazione del Nuovo Testamento, che presenta la seguente scansione:

    PAOLO ? MARCO ? MATTEO/LUCA ?GIOVANNI

    corrisponda un’inversa sequenza teologica:

    RESURREZIONE ? BATTESIMO ? NASCITA ? PREESISTENZA

    la quale salda i due momenti metastorici del Verbo/Cristo –preesistenza e resurrezione—attraverso l’esistenza storica –nascita e battesimo—di Gesù di Nazareth.”



    Anche in questo passaggio si comprende come l’evento della resurrezione è da considerarsi non storico al pari della preesistenza che di certo non può essere un evento storicamente documentabile. Ma il punto cruciale è che si evidenzia con chiarezza straordinaria la tendenza degli agiografi a trascendere gli eventi storici ai fini del mantenimento di una struttura teologica precostituita. Riassumendo quindi, Cacitti, riprendendo la disputa tra comunità gerosolimitana e teologia paolina afferma:

    “tuttavia non si esclude che, all’origine, siano convissute forme se non opposte, certo diverse da questa, al punto che è agevole documentare, all’interno degli stessi scritti canonici, una posizione apaolina quando non espressamente antipaolina (e valga per tutti il rimando alla Lettera di Giacomo). “


    RESURREZIONE

    Centralizzando quindi la predicazione paolina, occorre approfondire il momento in cui l’apostolo situa l’epifania cristologia. Cacitti, per analizzare questo, si riferisce al brano della lettera ai Romani e specificatamente al passaggio che la Bibbia di Gerusalemme traduce : ”mediante la resurrezione dai motri”. A tal proposito ci afferma:

    ”la traduzione a me pare non rendere il significato dell’espressione, poiché in greco noi troviamo un genitivo plurale che specifica i soggetti della resurrezione –i morti appunto—e non un complemento di provenienza, abitualmente introdotto dalla preposizione ek, “da”, che, non comparendo nel testo, è comunque presupposta dalla traduzione immediatamente sopra fornita.
    Ciò avviene, a mio avviso, a causa dell’attrazione di un altro capitale testo paolino, 1 Cor 15,12-16, in cui l’apostolo contesta una fazione del cristianesimo corinzio che riteneva che, per il conseguimento della dimensione escatologica, non fosse necessaria la resurrezione dopo la morte, ma fosse sufficiente la mistica partecipazione battesimale alla morte di Cristo stesso: cfr, infatti, Rom 6,3-5:

    O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti con lui nella morte, perché come Cristo fu resuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua resurrezione

    A tenore di questo testo, in effetti, la resurrezione del fedele non dipende tanto dalla realtà della propria morte, quanto piuttosto da quella di Cristo, per cui quella fazione dei corinzi aveva buone carte da giocare nel ritenere che, dopo il battesimo --inteso come mistica partecipazione alla parabola di morte e resurrezione del Cristo—il credente fosse ormai entrato nella dimensione escatologica dell’impeccabilità. Ciò, a mio avviso, giustifica anche il fatto che nel capitolo XV di 1 Cor –dedicato appunto al tema della resurrezione dei morti—Paolo è costretto a una lieve ma capitale modifica del kerygma da lui stesso ricevuto e trasmesso ai corinzi, come esemplifica la seguente sinossi:

    15,3-4
    Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che
    anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì
    per i nostri peccati secondo le Scritture, fu
    sepolto ed è resuscitato il terzo giorno se-
    condo le Scritture

    15,12
    Ora, se si predica che Cristo è resuscitato dai morti
    come possono dire alcuni tra voi che non esiste re-
    surrezione dei morti?

    Appare in tutta evidenza come il kerygma primitivo, anteriore allo stesso Paolo, annunziasse una resurrezione di Cristo “secondo le Scritture” (v. 4), senza riferimento esplicito alla resurrezione dai morti, semplicemente supposta dalla sepoltura. . Pressato dalla controversia a Corinto, in cui una fazione sosteneva che la resurrezione, vale a dire l’ingresso nella dimensione escatologica, fosse conseguibile attraverso il battesimo (cfr. il testo di Rom 6,3-5), l’apostolo è costretto a inserire la specificazione “dai morti”, per contrastare quell’atmosfera di entusiasmo libertino che grave scandalo aveva in lui provocato”




    Ecco che l’autore fa notare come anche in Paolo vi sia la necessità oggettiva di modificare il Kerygma iniziale di cui egli stesso si è fatto portavoce. Una volta stabilito che inizialmente non si parlava di resurrezione dai morti, bensì “dei” morti, occorre capire quale sia l’evento a cui ci si riferisce. Ciò è ottimamente esposto dal professore nel brano seguente:


    ”Se, dunque, nulla a me pare giustificare una traduzione che situi l’epifania cristologica in Rom 1,3-4 al momento della resurrezione di Cristo dai morti, essa va allora piuttosto collocata al momento della resurrezione dei morti: ma che senso ha questa formula? Un tentativo di comprensione deve partire dall’analisi di un Sondergut (= materiale proprio ed esclusivo) matteano di eccezionale importanza, poiché incastonato nel cuore del racconto della passione, là dove non soltanto l’intera tradizione sinottica, ma persino Giovanni, seguono con particolare fedeltà Marco:

    Mt 27, 50-53

    Il testo a me sembra affermare sostanzialmente che lo spirare di Cristo sulla croce riattualizza gli effetti di quello spirare di Iahwe sulla polvere che, infondendo un alito di vita, rende l’uomo un essere vivente (cfr. Gn 2,7). Qui si tratta ovviamente di una nuova vita, quel “nuovo cielo” e quella “nuova terra” --richiamati in ricapitolazione di Gn da Ap 21,1—che Mt rende attraverso l’immagine, mutuata da Ez, della resurrezione di molti corpi dei santi che si dirigono verso la città escatologica. Si dà allora perfetta coincidenza fra lo spirare di Gesù e l’inaugurazione dell’era escatologica tramite la resurrezione dei morti, così che, sulla croce, si addensa l’intera parabola soteriologica: sofferenza, morte, resurrezione, escatologia. Si ha come l’impressione di trovarsi di fronte a uno stadio preliminare del kerygma, in cui la massa teologica, che successivamente si espanderà in un ciclo articolato e differenziato, è ancora tutta concentrata sull’evento fondativo, la croce da cui il Cristo esala il suo spirito vivificatore.

    Una conferma indiretta proviene, a mio giudizio, dalla tradizione omiletica quartodecimana, di particolare importanza perché concepisce la pasqua (pascha) cristiana essenzialmente come un “patire” (paschein), a dispetto del valore etimologico del termine, che indica indubbiamente il “passaggio” dell’Angelo sterminatore sulle tende degli ebrei (cfr. Es 12,12). In un testo pseudepigraficamente attribuito ad Epifanio di Salamina (IIa metà del IV secolo e.v.), ma certamente dipendente dal De pascha di Melitone di Sardi (IIa metà del II secolo e.v.), si dice che “al vedere il Signore appeso al legno / i sepolcri si aprirono, / l’Ade si spalancò, / i morti risorsero / le anime uscirono fuori / e molti resuscitati furono visti in Israele, / mentre si compiva il mistero di Cristo” (De sancto pascha 6). In tutta evidenza sta la dipendenza dal testo matteano, che viene avvertito come una realizzazione della profezia di Ez (tanto che l’hagia polis evangelica è sostituita dall’Israele veterotestamentario), che configura quel “mistero di Cristo” che i quartodecimani riassumono in compendio proprio nell’immolazione della nuova vittima pasquale, il Cristo-agnello.

    L’ipotesi di una fase arcaica del kerygma, in cui la croce rappresenta la sintesi dell’intera economia della salvezza, può venir suffragata da un altro testo della tradizione sinottica, anch’esso iscritto nel racconto della passione e anch’esso costituente un Sondergut, precisamente lucano. Mentre Mc 15,27.32 e Mt 27,38.44 affermano che, con Gesù, vengono crocefissi due le-istai, sovversivi, che si uniscono al coro di dileggio verso di lui, e Gv 19,17 si limita a ricordare la crocifissione di “altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo”, Lc 23,39-43 amplia con materiale proprio il racconto.
    I vv. 39-41 amplificano, attribuendolo a uno solo dei malfattori, l’atteggiamento di scherno registrato dagli altri due sinottici; nello specifico, il dileggio mira a contestare la presunzione di messianicità di Gesù, evidentemente smentita dall’atroce pena cui è sottoposto. Per quanto ci concerne, l’attenzione va posta sugli ultimi due vv.: da un lato, il secondo malfattore riconosce infatti la messianicità di Gesù, nella fede che egli entrerà nel suo Regno; dall’altro lato, nella risposta Gesù associa l’interlocutore a tale ingresso, che avverrà oggi stesso (semeron), vale a dire nel giorno della crocefissione. Se ne deve dedurre che, anche in questo Sondergut lucano, la croce sta come indicatore non soltanto della morte, ma della resurrezione stessa, che consente a Cristo e a uno dei due malfattori l’ingresso in paradiso.
    Il testo lucano presenta due varianti, di cui la seconda di assoluto rilievo. Nella prima --testimoniata da taluni codici, tra cui il più importante è indubbiamente A (Alessandrino), e da talune traduzioni siriache—troviamo al posto di eis ten basileian la formula en te-i basileia-i, dove l’en può tradurre l’espressione semitica “insieme con”; ne deriverebbe allora la traduzione: “Ricordati di me, quando verrai con il tuo Regno”. In tale direzione conduce la seconda variante, attestata dal codice D (Beza), il ms più antico bilingue (greco e latino), capostipite di una importante tradizione testuale, quella del c.d. “testo occidentale” che, alla luce delle più recenti ricerche, pare costituirsi come un apografo autonomo rispetto a quello del testo c.d. “neutrale”, e quindi in grado di testimoniarci un kerygma per parti significative diverso da quello sostanzialmente rifluito nel textus receptus. Esaminiamo la variante: "E, rivolgendosi al Signore, gli disse: Ricordati di me nel giorno della tua venuta (en te-i hemera-i tes eleuseos sou); rispondendo Gesù disse a colui che lo rimproverava: Coraggio, oggi stesso (semeron) sarai con me in paradiso”. Al di là della stranezza per cui la risposta di Gesù sembra indirizzata al malfattore che lo oltraggia, anche in questo caso appare evidente come il giorno della parusia, dell’avvento glorioso di Cristo, venga a coincidere con l’oggi della crocefissione.

    L’escussione dei due testi –ai quali andrebbe affiancata l’aggiunta del codice k (Bobiense), uno dei testimoni delle Veteres Latinae, a Mc 16,3: qui non la riportiamo per le difficoltà paleografiche che presenta (la si legga comunque nell’apparato critico)—mi pare confermare l’ipotesi che, nel primitivo kerygma, anteriore alla sua “esplosione” evangelica, la croce rappresenti il momento “implosivo” dell’intero ciclo soteriologico, dal momento che contiene in sé, come già si diceva, tutta la parabola del mistero di Cristo, dalla sofferenza, alla morte, alla resurrezione sino alla seconda venuta nella gloria.”





    Da quanto esposto si evince che originariamente il Kerygma NON PREVEDEVA UNA RESURREZIONE FISICA DI GESU’ DAI MORTI ! ma il tutto si compiva proprio nel momento della morte in croce di Cristo.

    Tutto quello che è avvenuto successivamente è un travisamento, voluto e non, del messaggio originale di Gesù, del suo compito su questa terra e della sua stessa natura, ben diversa da quella del Dio di cui si è proclamato unicamente figlio. In partica ciò che ho sostenuto sin d’ora anche attraverso le argomentazioni di Deschner.

    Proseguendo nella trattazione, vorrei sottolineare questo importante passaggio:

    “Per molti decenni, anche dopo la rivoluzione razionalista coincidente con la ricerca settecentesca, è sembrato che, riprendendo un’immagine giustamente famosa, ogni studioso, andando incontro al Gesù della storia, finisse immancabilmente per ritrovare sul viso del personaggio indagato i tratti del proprio volto. Una cesura, apparentemente definitiva, ma di sicuro paralizzante, è venuta, al principio del secolo che bisogna ormai definire scorso, dal grande magistero, non solo teologico, di Rudolf Bultmann. Questo esegeta tedesco tracciò con estrema chiarezza una linea divisoria fra l’ambito dell’effettiva esperienza storica del protagonista dei Vangeli (che si chiamò “il Gesù della storia”) e la rielaborazione operata dalle comunità che per prime videro in lui una figura salvifica o divina (e questo secondo fu “il Cristo della fede”). In effetti, è facile rendersi conto che le narrazioni, apparentemente storiche, di cui disponiamo ci fanno conoscere solamente la seconda faccia della medaglia: i Vangeli (proprio come dichiarato dal loro stesso nome, “buona novella”) non hanno certo la pretesa di esporre alcuni eventi in modo più o meno obiettivo”

    Fortunatamente da una cinquantina d’anni, siamo in possesso di testimonianze praticamente “dirette” del periodo in cui visse Gesù: i rotoli di Qumran. Sebbene questi scritti non siano direttamente collegati alla vita del Cristo, essi apportano un aiuto insostituibile alla ricerca della reale consistenza della figura del Gesù storico, attraverso la descrizione del mondo culturale e religioso dell'epoca che i rotoli ci forniscono. Queste testimonianze sono considerate dirette poiché i rotoli essendo stati sigillati per secoli nelle grotte, non possono essere stati “addomesticati” da nessuno. Leggerli significa entrare in contatto con una voce diretta dal primo secolo.
    Ma veniamo ai contributi che i rotoli possono fornirci indirettamente della figura storica di Gesù, quello che riporto è senz’altro uno dei più significativi:

    “Ancor oggi è comunemente diffusa l’opinione secondo la quale Gesù si sarebbe opposto in modo rivoluzionario alle istituzioni religiose giudaiche del suo tempo incarnate essenzialmente da quei Farisei che compaiono in contesti assai negativi in molti passi dei quattro Vangeli canonici. La lettura dei manoscritti di Qumran ci ha fatto comprendere che la realtà dei fatti era profondamente differente da questa immagine: lungi dall’essere i padroni della scena i Farisei erano solamente uno dei tanti gruppi che, sostenendo un ventaglio assai ampio di opinioni, si scontravano su di un campo nel quale non si può certamente pensare vigesse una sorta di “ortodossia” ermeneutica. Il confronto doveva essere, quindi, alquanto libero ed è legittimo ritenere che, date queste premesse, si debba ormai fare piazza pulita dell’idea, di sicuro nutrita anche da alcuni pregiudizi confessionali, per la quale Gesù sarebbe stato condannato a morte a motivo della sua opposizione all’osservanza della Legge giudaica.
    Naturalmente i racconti dei contrasti fra Gesù ed i Farisei su alcune interpretazioni della Torah hanno un valore storico, ma non ci possono servire a molto nel tentativo di comprendere gli eventi della vita terrena del Cristo. Quando il cristianesimo cominciò a non essere più un ramo della grande pianta del mediogiudaismo ed il giudaismo che noi oggi conosciamo iniziò ad essere egemonizzato dall’ortodossia ermeneutica rabbinica, in quel momento critico di trasformazione, di fronte alla necessità di poter disporre di racconti da utilizzarsi nelle discussioni polemiche, rielaborando materiali più antichi, si forgiarono le narrazioni esemplari del Gesù che mette a tacere il vuoto legalismo farisaico.
    Qumran, tuttavia, ci fa forse comprendere quale fu davvero la causa della condanna a morte di Gesù. Nel primo secolo, ed anche in molti di quelli precedenti fin dai tempi della riforma del re Ezechia, il Tempio era il centro assoluto della vita religiosa (e non solo) giudaica; per questo motivo il culto templare, con tutti i suoi annessi e connessi, costituiva il solido fondamento socio-economico del potere dei più cospicui strati della società palestinese. Gli Esseni separatisti di Qumran focalizzarono le loro più feroci critiche proprio sull’impurità cui era condotto, da una guida sconsiderata e corrotta, il cuore religioso ed istituzionale del giudaismo. E’ interessante osservare che anche la tradizione evangelica cristiana, all’unanimità, attesta come Gesù muovesse violente contestazioni alla gestione dell’istituzione templare: si trattava certamente di un terreno scottante, gonfio di gangli sensibili ad interessi di sicuro non secondari ed addentrandosi nel quale si poteva ben rischiare la vita.
    Il ruolo dominante che le speculazioni apocalittiche hanno all’interno del materiale ritrovato a Qumran è certamente uno degli elementi che più ha sorpreso la critica specializzata: questo fatto, d’altra parte, sembra rivendicare con fortissima cogenza la validità di una posizione che Albert Schweitzer assunse con chiarezza già al principio del secolo scorso e con la quale, purtroppo, la successiva ricerca ha sempre assai stentato ed ancora oggi pare stentare a fare i conti. Un messaggio profetico, come quello proclamato da Gesù nella Palestina del primo secolo, ha il proprio fondamento ultimo precisamente nell’apocalittica ed al di fuori di essa non può essere compreso o, peggio, finisce per essere frainteso.”


    Concludo con la citazione del Prof. James Charlesworth, uno dei grandi studiosi dei rotoli del mar morto:

    “Le domande critiche riguardano Gesù e gli esseni e i circa quarant’anni durante i quali gli esseni e Gesù, con i suoi seguaci, condivisero lo stesso territorio, la stessa nazionalità, gli stessi avversari (cioè i romani e i sadducei e, saltuariamente, ora i farisei, ora gli zeloti).[Si domanda l’autore] E’ possibile che non vi sia stata alcuna relazione fra esseni e Gesù (e il suo gruppo), dal momento che ambedue sottolineavano la peccaminosità totale dell’intero genere umano e la necessità della grazia di Dio, la tesi dei due eoni (ère storiche) e la prossima venuta della fine dei tempi, l’instaurazione di un nuovo patto secondo le parole di Geremia 31,31-34, la presenza e il potere di Satana (o Belial) e i dèmoni, l’analogo debito culturale verso l’apocalittica, un dualismo cosmico e lo squillo di tromba di Isaia 40,3? Tutte queste somiglianze –molte delle quali veramente impressionanti— possono essere legittimamente trascurate e ritenute semplici conseguenze? (Gesù nel giudaismo del suo tempo alla luce delle più recenti scoperte, tr.it. Torino 1994, pp. 84s.)"


    Charlesworth ha individuato tre analogie fondamentali tra Qumran e il movimento gesuano, che così possono essere sintetizzate:
    A – Una teologia rigorosamente monoteistica, in polemica con taluni settori del mediogiudaismo che tendevano a mettere in discussione il rigido monoteismo ereditato dall’Antico Testamento;
    B - Una teologia accentuatamente escatologica, anche se con delle sfumature diverse circa l’imminenza della fine le sue modalità il grado di partecipazione umana alla battaglia escatologica;
    C – Un impegno assoluto e rigoroso per Dio e la sua Legge, la Torah, che accomuna le due realtà religiose soprattutto nell’ambito dell’etica sessuale. Il macarismo di Mt 19,10-12 nei confronti dell’eunuchia “a causa del Regno dei cieli” trova infatti il suo corrispettivo nell’unico movimento giudaico in cui vigeva l’obbligo del celibato, tanto presso la comunità qumranica quanto presso quella alessandrina dei Terapeuti (cfr. Filone, De vita contemplativa). In questa prospettiva, va per altro ricordato come Gesù sia stato, con ogni verosimiglianza, celibe, dal momento che la sua successione religiosa in Gerusalemme viene garantita dal fratello Giacomo, quindi per via laterale, e non per discendenza diretta. Del pari, l’atteggiamento nei confronti della liceità del divorzio da parte di Gesù (cfr. Mc 10,11-12 parr; v. però la casistica in Mt 5,31-32; 19,9) –abitualmente ritenuto senza confronti nel giudaismo-- trova viceversa un corrispettivo nel più lungo testo qumranico, il Rotolo del Tempio, secondo cui il re deve restare marito di una sola moglie: “Ed egli [il re] non prenderà un’altra moglie oltre a quella, poiché ella soltanto rimarrà con lui per tutti i giorni della sua vita” (11QTempio 57,17-18 ).


    Saluti
    Andrea
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    00 10/02/2007 14:20
    Questa replica sarà più breve delle altre, e questo perché hai risposto a poche delle miei obiezioni e dunque ho poco materiale su cui lavorare. Non temere, non ho in programma di screditare il tuo nuovo beniamino, Remo Cacitti, almeno questo non è un ciarlatano come Deschner, stai migliorando quanto a letture. Non ho nessuna intenzione di dirti che un idiota, ho solo in mente di inquadrarti a quale corrente di pensiero appartenga, perché è questo il problema di chi non ha una formazione universitaria su questi argomenti: leggendo testi singoli non sa a quale corrente appartengano. In realtà il suo intervento tratta di un argomento che non ha nulla a che fare con le modalità della catechesi apostolica che erano state evidenziate, tratta piuttosto di una teoria sul kerygma primitivo,un modo di leggere i dati che non è una invenzione sua ma risale ad alcuni studi paolini della prima metà del 900. Oggi come allora non potrò far altro che mettere in risalto come questa spiegazione crei più problemi di quanti ne risolva, e non venga conto né della cronologia né di altre lettere dell'apostolo. Sono rimasto piuttosto deluso della tua risposta la quale non prende in considerazione nulla di quello scritto, e se non fosse per il post di Cacitti sarebbe anche piuttosto banale. La questione è la colpevolezza a priori di qualsiasi fonte. È vero che gli storici non prendono per oro colato qualunque cosa leggono, ma visto che sul mondo antico c'è rimasta poca letteratura rispetto a tutta quella che era stata prodotta, anzi. spaventosamente poca -basti pensare che per eventi come la guerra del Peloponneso abbiamo praticamente un solo cronista, Tucidide,- quando gli storici leggono una fonte coeva la considerano vera finché non saltino fuori altre fonti a smentirla. Questo è quello che si fa di solito, e mi dispiace se non ti aggrada (qui le cose sono diverse perché c’è di mezzo la negazione a priori del soprannaturale). Quando si fa la cosiddetta critica delle fonti ci si chiede innanzitutto se l'autore è nella posizione per essere informato di quello che scrive, e vi assicuro che quarant'anni di distanza nel mondo antico sono oro colato, altrimenti mettiamo nel dimenticatoio eventi come le guerre messeniche di Sparta. In generale dunque davanti alle notizie, visto che nel mondo antico la maggioranza delle notizie ci giunge singolarmente, non si cercano dei riscontri della stessa notizia prima di darla per buona, bensì si cercano cose che sarebbero in contrasto con essa al fine di vedere se è probabile o improbabile. Dire che qualsiasi notizia non è presa per buona dagli storici finché non ha riscontro in altre fonti vorrebbe dire che a livello di cronaca non sappiamo nulla del giudaismo del secondo tempio sotto Roma, visto che abbiamo una sola fonte che ce ne parla, Giuseppe Flavio. Quando ho poi detto che la tua posizione su San Paolo e i corinzi è stata incoerente mi riferivo a una cosa ben precisa, ossia che all'inizio del tuo post avevi sostenuto che lui credeva davvero di avere questi 500 testimoni ma era vittima di una leggenda, mentre alla fine hai sostenuto che stesse imbrogliando di proposito, è l'unico motivo per cui non ti cito i passi e che non ho voglia di leggermi il tuo vecchio post, ma qualora proverai a negarlo nuovamente non ho problemi a sforzarmi di più e farti partecipe delle tue stesse parole. Alla domanda se Paolo fosse in contatto con il gruppo dirigente apostolico la risposta è sì, quindi mi chiedo come possa credere a delle leggende quando aveva delle fonti di prima mano con cui parlare. Sappiamo infatti che fu portato dopo la conversione dagli apostoli (At 9, 26-31), che vi andò in seguito dopo tre anni, e per una terza volta dopo 14 anni (Gal 1,18-2,3), per non parlare della sua presenza al concilio di Gerusalemme. E’ quanto poi alla questione di Pesce da quello che ho capito vuoi abbandonare il dibattito sulla sua posizione, e mi sta bene. Dici di non essere un antropologo, e se per questo non lo sono neppure io; ho dato soltanto tre esami in materie affini, accanto a qualcosa di un tantino più specifico: ho studiato per diverso tempo la trasmissione del sapere magico nell'Egitto ellenistico con la professoressa Crippa, che tutt'oggi tra Bologna e Venezia continua a tenere corsi su questi argomenti, questo per la banale ragione che la trasmissione del sapere sacro è uno degli argomenti più affascinanti della storia del mondo antico e dell’antropologia del linguaggio. Ha riproposto la storiella del tuo maestro di arti marziali, senza tenere in nessuna considerazione le obiezioni che avevo fatto. Quando dico che la predicazione apostolica non è un discorso da bar fatto casualmente da chi capita ma un contenuto dottrinale e catechetico mi riferivo a quanto avevo illustrato, ossia ai decennali studi della scuola svedese e di Jeremias, il più grande esperto di aramaico di questo pianeta, che Dio lo abbia in gloria, che hanno stabilito la struttura di scuola rabbinica della formazione dei Vangeli, basandosi sia sulle retroversioni sia sullo studio della propagazione del kerygma. Quando Paolo dice " vi ho trasmesso ciò che anch'io vi ho ricevuto" e anche " se qualcuno di predica un Vangelo diverso sia anatema" si riferisce proprio a questo, al controllo della predicazione. Ciò che apprendiamo dalle lettere di Paolo è che non si diventare cristiani per euforia ma perché si veniva in contatto con le comunità e si veniva istruiti, San Paolo dedica intere lettere a descrivere quali sono le funzioni dei maestri dei profeti e dei dottori. Hai dimenticato poi il problema dell'ambiente ostile in cui si svolge la predicazione cristiana, che è il motivo per cui non si possono inventare le cose e anzi i Vangeli controbattono alle storie su Cristo messe in giro dal sinedrio. Se nel tuo esempio si può dire quello che si vuole, perché c'è solo un terreno di chi vuole credere, nel caso della predicazione cristiana primitiva c'è un ambiente in cui la Chiesa primitiva ha contro le autorità che le danno la caccia, arrivando ad episodi come il martirio di Stefano e di Giacomo, quest'ultimo raccontatoci anche da Giuseppe Flavio, dunque una continua e martellante propaganda a cui rispondere con la solidità dei fatti. Vorrei poi aggiungere che non vivo con alcuna pia illusione che esista un'ortodossia sin da subito, si tratta anzi di una posizione maturata dopo aver letto tutte le opinioni contrarie, che tu evidentemente credi io ignori. Quella che tu hai in mente è la cosiddetta scuola di Harvard, il cui più brillanti esponenti sono Karen King e Helmut Koester . L'obiettivo di questa corrente di studi è negare un rapporto diretto tra quel fenomeno emergente a fine primo secolo denominato dagli studiosi" grande chiesa" e l'età apostolica. La king in uno dei suoi ultimi libri ha così sintetizzato quella che lei chiama la posizione dominante dei fatti, cioè quella dei padri della Chiesa: 1) Gesù rivela l'autentica dottrina agli apostoli 2) gli apostoli si spartiscono le regioni del mondo per diffondervi il Vangelo 3) Satana sfida la Chiesa seminandovi zizzania, il che porta alla nascita delle false credenze 4) infine, Costantino, protettore della cristianità, convoca il concilio di Nicea per stabilire l'ortodossia.
    Questa corrente tende cioè a dire che gli gnostici e giudeo-cristiani non fossero affatto eretici bensì altre parti del cristianesimo rimaste fuori dalla cosiddetta grande chiesa. Tutto questo impianto concettuale della scuola di Harvard per chi non lo sapesse è stato completamente demolito dalla scuola di Tubinga, e questo dico che la gente che si documenta in Internet e non si aggiorna è con monografie né con riviste. In particolare lo studioso che ha fatto più a pezzi questa teoria decostruzionista sta è Martin Hengel. Quando dico che esiste un'ortodossia sin dall'inizio mi riferisco ovviamente alla predicazione degli apostoli, e non si nega che ci fossero dei predicatori che facevano di testa loro, il Nt stesso ne parla, quello che si vuole dire è che giustamente non erano tollerati dalla cerchia apostolica. Quando parli di contrasto tra Giacomo e Paolo non stai descrivendo una contrapposizione che vada fuori dall'ortodossia, infatti il giudeo-cristianesimo diventa eterodosso nel momento in cui non accetta la posizione del concilio di Gerusalemme, ossia che i pagani possano diventare cristiani anche senza circa circoncidersi, e che si è fatti salvi per la grazia di Gesù e non per l'osservanza della legge. Ciò aveva appunto creato molto scalpore, e dei gruppi non l’hanno accettato, ciò che si vuole semplicemente dire è che questi gruppi non si rifanno a Giacomo bensì sono “più realisti del re”, infatti Giacomo aveva accettato le disposizioni del concilio. Qualsiasi posizione sul giudeo-cristianesimo eterodosso differente da questa che è l'unica attestata nelle fonti dev'essere dimostrata. Mi si dice poi che se Paolo mette in guardia contro altre predicazioni è evidente che la sua non è l'unica, ma io ho già spiegato che non sto sostenendo che ci sia un'unica predicazione originaria, bensì che la cosiddetta grande chiesa si riconosceva intorno agli apostoli e che era questo il criterio per stabilire chi fosse autorizzato e chi no. Infatti come già detto al concilio di Gerusalemme la lettera mandata alla comunità di Antiochia inizia dicendo che i fratelli che li hanno turbati con i loro discorsi sulla legge mosaica non avevano ottenuto dagli apostoli alcun mandato. Infatti Paolo come fa a dire ai Galati che la sua predicazione è ortodossa? Usa lo stesso procedimento dei Padri della chiesa, ossia dire la sua predicazione è ortodossa perché ha avuto l'autorizzazione da Pietro. In questa lettera Paolo stesso dice chi sono suoi avversari, cioè i soliti giudaizzanti, i quali attaccano l'apostolo su vari punti: lo tacciano di essere un predicatore di poco conto e di predicare una dottrina non in armonia con la Chiesa madre di Gerusalemme. La risposta di Paolo corrisponde allo stesso criterio dei giudaizzanti, entrambi pensano che esiste un criterio per l'ortodossia, e questo criterio è quello che pensano gli apostoli, motivo per cui Paolo dice da chi ha avuto l'autorizzazione a predicare nel capitolo due, e che i due Vangeli non sono in contrapposizione perché esiste un solo Vangelo. Costoro non sono seguaci di Giacomo, infatti non hanno la sua posizione, come dicevo si tratta dei soliti più papisti del papa. Quando poi mi dici che non ho accolto la tua obiezione sulla verificabilità dei miracoli che assicuro che invece avevo colto benissimo, semplicemente stavo ragionando in base alla posizione che si evince dalla frase di Pesce che avevo riportato, ossia che i fatti straordinari descritti nei Vangeli furono davvero visti dalla prima generazione e non sono un'invenzione degli evangelisti né un ingigantimento.
    Inoltre ti ho già chiesto di dirmi di quali altri messia facenti miracoli dell'epoca stai parlando, il fatto che ci fosse un fervore messianico non vuol dire che siamo pieni in questo periodo di gente con poteri miracolosi, in caso contrario mostrami le fonti antiche che ne trattano così potremo parlare di quale sia la distanza tra di loro e i fatti di cui narrano. Ho già spiegato perché non ritengo i miracoli frutto di ingigantimento, ossia che i testi sono troppo vicini ai fatti per poter subire un simile processo, e non c'è alcun parallelo nella storia delle religioni di miti che si creino in quarant'anni, e soprattutto non si creano in un contesto di predicazione controllata, dove il racconto non è lasciato al caso. Ci sono poi miracoli in cui non ha senso parlare di ingigantimento perché o sono tutto o sono nulla, infatti se ad esempio prendiamo il miracolo della tempesta sedata quale sarebbe il miracolo in piccola scala alla base? Ci sono mezze tempeste? Inoltre le notizie che si ingrandiscono perché volano di bocca in bocca, le dicerie, sono solitamente esposte con un carattere che nulla ha a che fare con le descrizioni dei miracoli. Per la precisione topografica e di nomenclatura degli evangelisti, che non hanno problemi a fare “nome e cognome” di chi viene guarito, ad esempio l'episodio della figlia del capo della sinagoga di cui si dice nome e paese, o il centurione sempre nominato, o i vari capi con cui Gesù viene in contatto. Si tratta cioè di una precisione volta contro le accuse fatte circolare dal sinedrio: i Vangeli sono pieni di sfacciati rimandi di “cronaca”. Non si tratta come dicevo di una predicazione da chiacchiera in cui nessuno va a controllare i diretti interessati, se leggiamo il proemio di Lucca, da vero storico greco, ci dice subito che andato a intervistare i testimoni oculari dei fatti, questo perché vuole dare un resoconto ordinato al suo committente, Teofilo. Ma dimenticavo che siamo nel paradigma del colpevole fino a prova contraria…
    Vedo poi che hai cambiato di nuovo ipotesi, prima era il sosia, poi è diventata la truffa, e adesso è diventata l'auto-illusione nata dall'aver visto il sepolcro vuoto. Come già detto non può venire in mente qualcosa che non t'aspetti e che non fa parte della tua cultura, sarebbe come se qualora ti rubassero un'automobile ti venisse in mente che a rubarla è stato un unicorno. Come giustamente ricordato i giudei si aspettavano la risurrezione dei morti alla fine dei tempi e non c'è alcuna probabilità che ad un giudeo venga in mente che qualcuno può risorgere prima di allora. Infatti se leggiamo i Vangeli e discepoli sono i primi a non credere che egli sia di nuovo vivo come avevano raccontato le donne, e credono che il corpo sia stato sottratto (es. Mc 16,11). La stessa Maria Maddalena ha come prima reazione " hanno portato via il mio signore e non so dove lo hanno posto". Inoltre lo scandalo della croce, visto il tipo di Messia che aveva in mente, è qualcosa che tronca drasticamente ogni speranza è solo un fatto vero può rimettere in piedi una fede distrutta. L'idea poi che dopo la resurrezione di cui erano convinti si siano inventati di averlo visto risorto, in barba all’etica insegnata dal maestro, significa dare dei bugiardi a della gente, ed è esattamente questo che intendevo quando parlo di ipotesi ad hoc perché i tempi sono troppo corti per trovare la nascita di un mito. Se hanno architettato delle apparizioni per convincere la gente a credere allora sono, come già ricordato, dei perfetti idioti, perché si sono inventati che i loro primi testimoni sono delle donne, e questo per convincere dei maschi giudei.
    Anche perché una domanda, seguendo la tua ipotesi,sorge spontanea: se i discepoli si sono convinti che fosse risorto perché hanno trovato il sepolcro vuoto, allora evidentemente non sono stati loro a trafugarlo, ma allora il corpo chi se lo è preso? I romani no di certo, visto che dovevano farci la guardia, gli apostoli neppure altrimenti non potevano convincersi di nulla sapendo che l'avevano spostato loro stessi. E veniamo poi ad un altro argomento, ossia le ipotetiche contraddizioni in Dio. Mi hai risposto facendomi una lista di autori e consigliando un ripasso, il che è assurdo perché quello che tu conosci da manuale io l'ho letto nelle pagine di questi stessi scrittori. E a cosa serve citare Kant o Hume quando ti vengono chieste delle contraddizioni di Dio, visto che questi autori erano credenti e che tutto ciò che hanno fatto è tentare di dimostrare non che Dio non esiste ma che la teologia razionale non può dimostrare nulla? Inoltre si dimentica che esiste tutta una serie di risposte all'anti-metafisica kantiana, elaborate soprattutto dall'ontologia neotomista, basti pensare alla scuola di Lovanio. Quindi per favore non parliamo di nomi ma di argomentazioni. L'unico esempio che mi citi è la teodicea, che non è una contraddizione logica; con contraddizione logica infatti intendevo qualcosa tipo " cerchio quadrato" e non due predicati come bontà e onnipotenza la cui contraddizione è insita non nelle parole stesse ma nell'interpretazione del campo semantico che vogliamo dare loro. Il medio infatti è il libero arbitrio. Un Dio può essere onnipotente e buono ma non avere la nostra stessa scala di valori, dunque se per te e più importante evitare gli omicidi per me e più importante la libertà dell'assassinio. È torniamo ai 500 testimoni di Paolo. Come già detto non ha senso fornire nome e cognome di 500 persone in una lettera, né ha senso fornirne due o tre visto che ha già citato le uniche persone che i corinzi potevano conoscere perché ne avevano sentiti parlare, cioè gli apostoli (l’argomentazione era: oltre a questi, altri 500). Paolo si limita cioè a dire che oltre al gruppo apostolico, a cui possono chiedere, esistono anche questi 500 testimoni, la maggior parte dei quali ancora vivi, si premura di precisare. Alla domanda di dove diavolo potevano andarli a trovare la risposta è: presso la chiesa di Gerusalemme. Paolo li chiama fratelli, sono cristiani gerosolimitano, e sappiamo che la primitiva comunità della città viveva con un modello a dir poco comunista, in comunione dei beni, giacché le proprietà venivano devolute alla Chiesa madre.
    All'obiezione secondo cui, se tu oggi mi dicessi che hai volato e che 500 persone milanesi ti hanno visto, io di sicuro ti chiederei il nome, ti sei rovinato da solo. Infatti ciò che abbiamo è lo scetticismo dei corinzi e la risposta di Paolo che parla di questi 500 fratelli, non abbiamo la successiva risposta della comunità. Se dunque tu sei certo che qualora tu mi dicessi che hai volato io ti chiederei i nomi, ancor più dovresti essere certo che gli scettici di Corinto avrebbero chiesto a Paolo chi fossero costoro e come eventualmente rintracciarli, anche perché dire che una persona è risorta è molto più difficile da credere che qualcuno abbia volato. Quindi la mia domanda è questa: Paolo poteva rischiare che i corinzi gli facessero questa domanda che secondo te certamente io ti farei? Inoltre come ripeto non stiamo parlando di un pubblico credente ma di un pubblico che non gli crede quindi è inutile che mi dici che si bevevano qualunque cosa gli avesse detto, perché è l'esatto contrario, gli scrive proprio perché non gli credono. Inoltre mi accusi di una presunta contraddizione dicendo che è insensato, per verificare se una Chiesa mi sta raccontando la verità, andare a chiedere in quella stessa chiesa. Ci sono due errori nella tua risposta, il primo è più evidente è che io non mi rivolgo alla Chiesa di Gerusalemme per verificare qualcosa che mi ha detto la Chiesa di Gerusalemme, bensì mi rivolgo a lei per verificare un’affermazione su di lei fatta da un altro, cioè Paolo, non c’è dunque un circolo logico. E se anche ci fosse stato non equivarrebbe a verificare presso una persona una cosa dettami da quella medesima persona, perché la Chiesa è una pluralità di persone. La comunità di Gerusalemme non è un singolo individuo ma appunto quei 500 fratelli di cui parla Paolo. Chi mi ha dato l'informazione è Paolo e io devo verificare ciò che mi detto Paolo sulla la Chiesa di Gerusalemme (=i 500 fratelli). Ci si rivolge cioè alla Chiesa non in modo autoreferenziale: l'autoreferenzialità sarebbe chiedere verifica a Paolo di un'informazione data da Paolo, al contrario qui ci si rivolge alla Chiesa per verificare se questi 500 testimoni esistono. E tra parentesi se c'è una Chiesa che ha 500 testimoni di un fatto simile, allora la tua ipotesi che gli apostoli si siano inventati qualcosa presumeuna bugia di massa.
    Inoltre evita mi tuoi cliché sulla libertà e su chi sia aperto e senza pregiudizi: infatti il laicismo non è aperto alla possibilità di credere perché non vuole credere.
    Non è vero che uno studioso cattolico deve credere mentre uno studioso ateo può decidere di credere o non credere, infatti l'ateo non vuole credere in quanto la fede in Dio comporta delle precise responsabilità e l’ammissione di essersi sbagliati (il fare i conti col proprio orgoglio).
    Per far quadrare i cerchi dell'ateismo si è condizionati dalla propria fede, chiamata ateismo, esattamente quanto condiziona la fede chiamata cattolicesimo se non di più. Veniamo ora al post tratto dal professor Cacitti. Vorrei innanzitutto commentare la pretesa che esista un insegnamento obiettivo di scienze religiose che prescinde dalla fede o non fede con cui viene impartito. Se la richiesta è che venga istituita una materia chiamata “scienze religiose” senza base confessionale in parallelo all'insegnamento della religione cattolica ciò può essere senz'altro fatto, ma non si pretenda di spacciarlo per l'insegnamento imparziale che non è né credente né ateo. Infatti qualora si voglia ragionare di religione etsi deus non daretur resta un'unica cosa da fare se: spiegare qualunque fenomeno religioso come un fenomeno prettamente storico e umano, escludendo la trascendenza. Qualora cioè si voglia dare una spiegazione che prescinde da Dio si deve trovare una spiegazione umana del fenomeno religioso, e questo non è essere imparziale ma è automaticamente un escludere la spiegazione religiosa. Dici poi che nella dispensa di Cacitti si sosterrebbe una contrapposizione tra il cristianesimo petrino e quello paolino, ma nel pezzo quotato e con sotto questo commento io non leggo nulla di simile, la massimo c’è un ambiguo accenno in un altro punto (su questo si veda oltre). Non si parla di uno scontro fra i due ma di uno scontro tra coloro che ritenevano necessaria l'osservanza della legge ed i contrari a quest’idea, e non identifica questi ultimi con Pietro bensì con la comunità di Gerusalemme presieduta da Giacomo. Ciò è storicamente vero ma si dimentica il seguito, ossia che le dispute con Giacomo furono appianate al concilio di Gerusalemme, e che dunque i gruppi che hanno insistito su questa strada non dipendevano più direttamente dall'apostolo ma erano dei recalcitranti. Noto con piacere che l'autore sostiene che la comunità di Roma sarebbe stata ostile a Paolo in quanto di rifondazione gerosolimitano-petrina (il che se non erro non ti va molto bene), ma ha l''accuratezza di dire " probabilmente ostile", perché in quella lettera non traspare alcunché. Inoltre si può certamente dire che nella comunità di Roma ci fossero degli elementi giudeo cristiani, ma del perché la sua fondazione petrina dovrebbe essere un elemento di ostilità ciò è del tutto ignoto. Come ci dice lo stesso Paolo ebbe a litigare con Pietro, non per la sua dottrina, bensì per la sua incoerenza, ad Antiochia. Vorrei poi che tu mi dicessi quello che hai capito quando affermi che per il nuovo testamento si può parlare soltanto di una testimonianza di fede, cosa verissima, ma io posso raccontare dal punto di vista del credente sia delle verità sia delle bugie. Tutto ciò che è accertato in modo unanime è che gli evangelisti rileggono la vita di Gesù alla luce della risurrezione, e cioè che tendono a vedere in tutto un presagio di questa. Ciò non vuol dire inventare gli episodi, vuol dire metterli sotto una luce diversa. Un'interpretazione si può fare con tutta la propria sincerità, dunque non si può dedurre dal fatto che queste sono testimonianze di fede che non siano parimenti storiche, si può solo dedurre che fare storia non era il loro obiettivo principale, cioè che non appartengono al genere della cronaca. La divisione degli studiosi è proprio su questo punto:chi crede che la testimonianza di fede alteri il kerygma facendo inserire favole, e chi invece sostiene che raccontare qualcosa con gli occhi della fede non implichi mentire. Quando dunque dici che è unanime il fatto che gli evangelisti scrivano una storia di fede devi stare attento a ricordare che questa unanimità non esiste qualora si investighi su cosa questa espressione voglia dire per i singoli biblisti. Veniamo poi al problema della metastoria, perché si può trovare che la risurrezione è un fatto metastorico anche sui libri del papa.
    Non si capisce se Cacitti per metastorico intenda dire che per i primi cristiani quell'evento era metastorico o se lo è per lui, infatti con metastorico normalmente non si intende un evento inventato, in quel caso è un evento astorico, bensì un evento che non fa parte della nostra linea temporale in quanto la trascende (metastorico=oltre la storia). Se si vuole cioè dire che per i primi cristiani la risurrezione non è un evento come gli altri che si susseguono nel corso della storia, bensì è un evento di portata cosmica che trascende la storia in quanto si ha l'irruzione del divino nell'immanente, allora si dice qualcosa di verissimo. Qualora invece si intenda che gli evangelisti stessi sapessero che stavano raccontando favole, cioè metastorico fosse usato nel senso di astorico, allora è evidente che siamo nel falso perché gli evangelisti credevano a quello che scrivevano. La terza possibilità è che l'autore dica di sua iniziativa che per lui il fatto è metastorico, intendendolo nel senso di astorico. La tua definizione di metastorico come fatto non realmente accaduto può essere ciò che crede sia avvenuto Cacitti, cioè che il fatto non sia avvenuto, ma non è la definizione di metastorico che si usa in esegesi biblica, te lo dico perché tu non ti metta strane idee leggendono in libri di teologia cristiana. Quando si dice che un fatto è metastorico non si intende dire che è fasullo ma che trascende la storia. Il passo successivo è verificare lo schema secondo cui c'è una progressiva divinizzazione da Paolo fino a Giovanni attraverso Marco Matteo e Luca. Questo schema va molto di moda, e io stessa negli anni ‘90 ero un suo seguace, ovviamente non lo vedevo in prospettiva atea, cioè una Chiesa che man mano si inventa, bensì una Chiesa che guidata dallo spirito Santo approfondisce man mano la sua riflessione su Cristo. Questo schema, quando viene usato dai credenti, di solito contiene l’ipotesi che Gesù non si sia mai proclamato Dio in vita e che i discepoli si siano resi conto della sua divinità soltanto dopo la resurrezione. La domanda della Chiesa primitiva è quando fosse diventato Dio, e si è passati dall'idea che sia diventato Dio nel battesimo all'idea che sia diventato Dio da sempre.
    Personalmente mi sono reso conto dell'inconsistenza di questa posizione nel corso degli anni studiando la letteratura paolina più a fondo. Il kerygma della divinità di Cristo è infatti anteriore al Vangelo di Marco, e si tratta di un kerygma che lo vede Dio prima dell'incarnazione (fatto che dunque non risale a Giovanni). Questo è ben documentato in una delle più antiche lettere di Paolo che è quella ai Filippesi, molto anteriore ai Vangeli, la quale nel capitolo due incastona un inno cristologico che addirittura più antico della lettera stessa, probabilmente è liturgico vista la struttura. In questa lettera del 57, piuttosto facile da dattare visto che Paolo ci dice esattamente dov'è, si dicono queste parole:
    "Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale,
    pur essendo di natura divina,
    non considerò un tesoro geloso
    la sua uguaglianza con Dio;
    ma spogliò se stesso,
    assumendo la condizione di servo
    e divenendo simile agli uomini" (Fil 2, 6 ss.)
    Si tratta dunque già in uno stadio primitivo del kerygma della condizione divina di Cristo anteriore alla sua nascita. Il papa nell’introduzione del suo prossimo libro già divulgata scrive giustamente: “Per la mia presentazione di Gesù questo significa anzitutto che io ho fiducia nei Vangeli. Naturalmente dò per scontato quanto il Concilio e la moderna esegesi dicono sui generi letterari, sull’intenzionalità delle affermazioni, sul contesto comunitario dei Vangeli e il loro parlare in questo contesto vivo. Pur accettando, per quanto mi era possibile, tutto questo ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il vero Gesù, come il “Gesù storico” nel vero senso della espressione.
    Io sono convinto, e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore, che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni.
    Io ritengo che proprio questo Gesù – quello dei Vangeli – sia una figura storicamente sensata e convincente. Solo se era successo qualcosa di straordinario, se la figura e le parole di Gesù superavano radicalmente tutte le speranze e le aspettative dell’epoca, si spiegano la sua crocifissione e la sua efficacia.
    Già circa vent’anni dopo la morte di Gesù troviamo pienamente dispiegata nel grande inno a Cristo della Lettera ai Filippesi (2, 6-8 ) una cristologia, in cui di Gesù si dice che era uguale a Dio ma spogliò se stesso, si fece uomo, si umiliò fino alla morte sulla croce e che a lui spetta l’omaggio del creato, l’adorazione che nel profeta Isaia (45, 23) Dio proclamò come dovuta a lui solo.
    La ricerca critica si pone a buon diritto la domanda: che cosa è successo in questi vent’anni dalla crocifissione di Gesù? Come si giunse a questa cristologia?
    L’azione di formazioni comunitarie anonime, di cui si cerca di trovare gli esponenti, in realtà non spiega nulla. Come mai dei raggruppamenti sconosciuti poterono essere così creativi, convincere e in tal modo imporsi? Non è più logico anche dal punto di vista storico che la grandezza si collochi all’inizio e che la figura di Gesù fece nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e poté così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio?”
    Viene poi fatto uno stranissimo accenno alle religioni misteriche il cui Dio Salvatore ciclicamente muore e risorge, e questa è veramente una generalizzazione fuori misura, c'è un'unica religione misterica che preveda la resurrezione di qualcuno ed è il dionisismo nella sua variante orfica. Se Cacitti ne conosce altre me lo faccia sapere. Partono poi tutta una serie di ipotesi secondo cui quella che era l'originaria epifania cristologica durante la resurrezione viene anticipata durante la vita di Cristo, ad esempio nel battesimo di Marco. Ora anche qui il problema è sempre lo stesso. Questo Vangelo è secondo i più degli anni 60 e secondo le nostre testimonianze già dal primo secolo è opera della trascrizione della catechesi di Pietro, tant'è che nel secondo secolo lo chiamano anche Vangelo di Pietro. Io non ho la più pallida idea di come in trent'anni si possa stravolgere così la vita di un uomo, e soprattutto come possa essere stravolta in un circolo così vicino agli apostoli. Il problema è sempre lo stesso: il tempo. Il tuo studio continua a enumerare ipotesi di invenzioni e cambiamenti senza tener conto di tutti quelli che stanno intorno a questi cambiamenti, e che sono vivi e vegeti. L’ipotesi riportata non ha un movente, si presuppone solo che le cose siano state cambiate, ma si dà poi una giustificazione che oltre ad essere fasulla al massimo dovrebbe riguardare solo Paolo e non si spiega perché dovrebbe riguardare gli evangelisti di altre scuole che non dipendono da lui: Marco non dipende da Paolo e tanto meno Matteo. Tutta l'ipotesi di Cacitti secondo cui l'epifania cristologica è in Paolo situata con la resurrezione dei morti durante la crocifissione è contraddetta dalla lettera ai Filippesi. La sua ipotesi che crea più problemi di quanti ne risolva e si basa sull’idea di un presunto errore di traduzione commesso dal 90% delle Bibbie di questo pianeta. Secondo la più genuina teologia paolina non è la risurrezione che ha fatto di Gesù il figlio di Dio bensì, alla risurrezione, Dio l'ha sommamente esaltato (Fil 2,9) e gli ha conferito la gloria (1Pt 1,21) nonché la potenza suprema(Ef 1,20-21). Gesù non diventa Signore alla risurrezione bensì ri-diventa Signore, di mezzo c’è infatti lo svuotamento volontario della condizione divina, la kenosis di Fil 2,6, dove il Figlio che era già uguale a Dio s’è fatto umile assumendo la forma di servo. La lettera ai Corinzi è stata scritta prima di quella ai romani e afferma chiaramente una cristologia della preesistenza creazionale. 1Cor 8,6 dichiara che tutte le cose esistono in virtù di Gesù Cristo. Col 1,15-20(che può essere più antico della lettera stessa), fa parte di un inno che fa del Figlio di Dio il primogenito di ogni creatura per mezzo del quale tutte le cose sono state create; per il tema della gloria di Cristo prima dell’incarnazione si veda anche 2Cor 8,9 che riprende la kenosis. L'obiezione che viene fatta e che non ci sarebbe scritto " la risurrezione dai morti" ma " risurrezione dei morti", e questa posizione viene giustificata con il fatto che manca l' "ek". questa ipotesi è del tutto superflua in realtà, è vero infatti che il complemento di origine viene di solito espresso con un ek\ex più genitivo, ma in greco esiste anche in genitivo di provenienza e dunque si può omettere la preposizione. In questo caso il fatto che Paolo l'abbia omessa è spiegabile doppiamente. Infatti un ek\ex c'è già in quel versetto, e precede anastasis, cioè la parola prima di nekrôs. Paolo ha omesso nella preposizione perché l'aveva appena usata e non voleva ripetersi, e poteva farlo per la banale ragione che il genitivo da solo in greco può indicare l'origine, si consulti un qualsiasi manuale di sintassi dei casi. Quindi, sebbene la traduzione proposta da Cacitti sia corretta e possibilissima, è altrettanto superflua. Tutta l'argomentazione si regge sull'ipotesi che ci sia un cambiamento del kerygma attestato sia all'interno della lettera ai Corinzi sia tra la lettera ai Romani e quella ai Corinzi. In Romani capitolo sei si affermerebbe che non è necessaria la resurrezione dopo la morte ma è sufficiente la partecipazione battesimale alla morte di Cristo stesso, mentre in Corinzi si avrebbe una modificazione e ci sarebbe la predicazione della resurrezione di Cristo dai morti. Tutto ciò è del tutto privo di sostegno testuale e va contro tutta una copiosa bibliografia di studi su Paolo. Innanzitutto non ha senso dire che in Romani è rappresentato uno stadio precedente a Corinzi in quanto la lettera ai Romani è stata scritta dopo la prima lettera ai Corinzi e dunque se mai dovrebbe essere il contrario: c'è un anacronismo in questa analisi. Inoltre qui si sta giocando sul concetto di morte nel senso di “morte rispetto alla vecchia vita”, di cui Paolo parla in Romani, confondendolo col senso di morte vero e proprio. In romani Paolo non sta affatto escludendo che ci sia una risurrezione dai morti, semplicemente dice che si muore alla vecchia vita e si rinasce come uomini nuovi nel momento in cui che si battezza. Ma questo è ben distinto, in questa medesima lettera, dalla risurrezione dai morti nel senso proprio della parola, al versetto cinque parla infatti, rivolgendosi a coloro che sono morti in Cristo nel battesimo, della loro risurrezione, ma per parlare di questa usa un verbo al futuro, e dunque non sta più parlando di resurrezione nel senso di rinascita alla vita nuova, che in quanto già battezzati avrebbe dovuto situarsi nel passato, al momento in cui furono immersi nell'acqua battesimale, bensì parla della risurrezione futura. Inoltre è proprio in questo capitolo della lettera ai Romani, in cui secondo Cacitti si avrebbe un kerygma precedente, che Paolo afferma invece al versetto 9 “sapendo che Cristo è resuscitato dai morti(ek nekrôs) non muore più; la morte non ha più potere su di lui".
    Non c'è tra l'altro alcun cambiamento di kerygma neppure nella lettera ai corinzi. L'autore dà un'interpretazione completamente priva di supporto testuale quando dice che Paolo sta rispondendo ad una fazione dei corinzi che riteneva che dopo il battesimo il credente fosse entrato in una nuova dimensione escatologica. Questa è un'interpretazione arbitraria, nella I lettera ai Corinzi non si parla affatto di battesimo; Paolo sta semplicemente rispondendo a coloro che non credono che Cristo sia risorto dai morti. Il problema con i Corinzi, che in quanto greci sono abituati ad una filosofia dualista, è che essi non credono alla resurrezione (era accaduta la stessa cosa all’Areopago). La replica di Paolo presuppone, al contrario di quanto afferma Cacitti, che gli avesse già predicato la resurrezione dai morti e la resurrezione di Cristo. Al versetto 12 Paolo dice " ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, allora neanche Cristo è resuscitato! Ma se Cristo non è resuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede." E’ dunque tutto l'esatto contrario del discorso fatto da Cacitti. C'è già alla base una predicazione della resurrezione di Cristo, questa predicazione in quanto parla di un concetto inconcepibile per i greci viene rigettata, e Paolo deve intervenire per ripristinarla. Non aveva alcuna speranza di convincere filosoficamente i greci dell'esistenza della resurrezione, nessun culto misterico, tanto per tornare sull'argomento, prevede la resurrezione dei suoi aderenti, figuriamoci la religione poliade tradizionale. Paolo dunque si limita a dire che se non esiste una risurrezione allora neanche Cristo è risorto dai morti, dunque la fede dei Corinzi è vana: da questa frase si capisce che la resurrezione di Cristo non è un orpello qualsiasi della fede bensì il centro il fulcro fondante, e infatti Paolo può far perno su questo dicendo ai Corinzi che negare la resurrezione li esclude dal cristianesimo. Ma poi come si può dire che nei versetti 3 e 4 del cap. 15 confrontati col 12 ci sarebbe un cambiamento di kerygma? Ma dove lo vede? Tutto ciò che si può dire è che nei versetti 3 e 4 manca l'espressione letterale " risurrezione dai morti", tuttavia si dice "vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici." La mia domanda e come si faccia a dubitare che in questo versetto si parli di una risurrezione dai morti. Si dice che una persona è morta, che è risorta, e che è apparsa agli apostoli! Anche se non c'è scritta l’espressione letterale “è risorto dai morti” è ovvio che l'autore intenda questo, infatti prima si dice che è morto poi si dice che è risorto, quindi evidentemente è risorto dei morti. Non esiste alcuna fazione di Corinto che sosteneva che la resurrezione, vale a dire l'ingresso nella dimensione escatologica, forse conseguibile attraverso il battesimo. Ma di che diavolo sta parlando? Non c'è nulla nella lettera ai Corinzi che parli anche solo minimamente di una cosa simile, e infatti cita Romani (che è successiva!), e andando contro i migliori specialisti di Paolo, ma di questo s’è già parlato. Paolo nella prima parte del capitolo 15, dice giustamente in un'allusione agli apostoli: " pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così voi avete creduto", il solito contesto da scuola rabbinica. I termini usati nel incipit come ricevere, mantenere, trasmettere, sono quelli del vocabolario tecnico della tradizione rabbinica. Paolo non ha intenzione di cambiare alcuna tradizione anzi all'inizio del capitolo dice" vi rendo noto, fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete nella forma in cui ve l' ho annunziato". “Ve l’ho annunziato”, al passato, e non “ve lo annunzio adesso”, riveduto e corretto. Qui non c'è la volontà di cambiare, anzi c'è la volontà di ribadire ciò che sanno già. Il testo su cui ci si basa per affermare che ci sarebbe stata una resurrezione al momento della crocifissione è Matteo 27,50-53. ma questo testo dice semplicemente che al momento della crocifissione ci fu la resurrezione di alcuni santi, non si nega affatto che ci sia stata la resurrezione di Cristo dai morti. Infatti il testo dice: "Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti."
    Questo passo per la precisione non dice che ci sia stata una resurrezione di tutti i morti ma soltanto di molti morti, e si tratta dei santi dell'Antico Testamento. Come insegna la teologia cattolica, in perfetto accordo con questo brano, le porte degli inferi furono aperte con la morte di Cristo, in quanto come insegna la lettera di Pietro egli scese a predicare agli spiriti che erano in prigione. Vale a dire che la morte di Cristo con il suo sacrificio redentore ha per così dire riaperto le porte del paradiso che erano state chiuse dopo la disobbedienza di Adamo. I santi dell'Antico testamento morti nell'attesa del Messia hanno con la sua crocifissione vista compiuta la loro attesa. Matteo parla dell'apertura di tombe, della risurrezione di morti e dell'apparizione di essi nella città. Questi due ultimi avvenimenti, risurrezione ed apparizione dei morti, non ebbero luogo alla morte, bensì alla risurrezione di Cristo; secondo il racconto dell'evangelista i morti sarebbero risorti al momento in cui Gesù spirava e sarebbero apparsi dopo la resurrezione di lui. L'attesa di questi risorti nella propria tomba fino al momento della risurrezione di Cristo sembra non avere senso; Matteo dice chiaramente che i morti uscirono dalle tombe " dopo la risurrezione di lui"; in questo momento va posta anche la risurrezione di quei pii israeliti morti nel passato, ai quali accenna il versetto. Come dice Paolo Gesù è la primizia dei morti risorti (1Cor 15,20), i pii israeliti che resuscitarono numerosi in quella circostanza erano destinati a testimoniare il trionfo riportato da Cristo contro la morte. Della sorte successiva di questi santi risorti nulla ci dicono gli evangelisti; non è compito dello storico, bensì del teologo, trattare questo problema. Non può essere esclusa l'ipotesi che questi santi accompagnarono in cielo Gesù nel giorno della sua gloriosa ascensione. (B. Prete) Ovviamente è il caso di dare un'indicazione topografica. Matteo non parla della Gerusalemme concreta e terrena capitale della Giudea, bensì della "città santa"(v.52), intendendo così alludere(in accordo, del resto con altri passi sia dell'Antico che del Nuovo testamento) ad un luogo della geografia celeste, alla capitale del regno degli ultimi tempi, fondato dal sacrificio redentore di Cristo. Linguaggio, dunque, non da reporter ma da autore biblico, da teologo della storia, come confermano anche altri termini impiegati, del tipo "i santi" per indicare personaggi dell'antichità ebraica, innanzitutto i patriarchi. Tuttavia queste precisazioni sono irrilevanti perché al versetto 53 si parla chiaramente della risurrezione di Cristo, quindi non ha senso dire che il kerygma primitivo in questo passo non la pretendeva. Si parla poi del racconto del buon ladrone in Luca, ma quando Gesù dice al malfattore che oggi stesso sarebbe stato con Lui il paradiso stava semplicemente parlando della sua anima che andava nel regno dei cieli, non si può certamente supporre che un Vangelo scritto, secondo i più, dagli anni 80 e 90 contenesse un kerygma che secondo Cacitti sarebbe già perduto negli anni 50 al tempo della prima lettera ai Corinzi. Per chi come me poi usa una datazione di Luca più alta non cambia nulla, perché la datazione alta di Luca fa retrodatare anche Paolo e dunque il problema è il medesimo. C'è poi l'estrema teoria secondo cui, visto che in alcuni codici troviamo al posto di "eis ten basileian" un "en te-i basileia-i", allora questo traduce l'espressione semitica "insieme con"(ma perché un autore greco dovrebbe contenere semitismi di pensiero, questo non è il vangelo di Matteo). Questa ipotesi che suppone un sostrato semitico della frase è superflua, anche prendendo per buona questa variante nulla ci vieta di considerarla banalmente come espressione greca, ed “en più dativo” in greco e il complemento di stato luogo. Il ladrone avrebbe semplicemente detto Gesù "ricordati di me quando andrai nel tuo regno", Veramente non capisco che bisogno ci sia di complicarsi la vita. L'ultimo punto che è veramente quello che mi ha lasciato più di stucco e come ci si rifaccia al codice Beza, noto per le sue follie testuali, per dimostrare qualcosa. Improvvisamente un codice del quinto secolo, e per giunta esponente non del testo alessandrino, diventa il testimone di qualcosa… Se iniziamo a discutere tirando fuori delle varianti che ci piacciono io posso divertirmi il doppio. Perché allora non mi dice che cosa ne pensa di questa magnifica variante: "perché tre sono quelli che rendono testimonianza: nel cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo e questi tre sono uno"(1 Giovanni 5,7-8 ), visto che la sua prima attestazione è nel III secolo con Cipriano direi che è di ben due secoli più vecchio del codice Beza, notoriamente inaffidabile e celebre per le sue sorprendenti aggiunte od omissioni di frasi ed interi episodi (sul codex Bazae si veda B. Metzger, Il testo del Nuovo Testamento, Brescia, 1996, pp. 55-56)
    Inoltre vorrei dirti che nel tuo sostenere la posizione di Cacitti c'è una contraddizione grossolana con quanto mi hai esposto all'inizio. Mi hai detto infatti che bastò agli apostoli trovare la tomba vuota per far sì che credessero che Cristo fosse risorto dei morti, e invece adesso mi dici che appoggi la tesi letta nell'articolo che mi ha riportato secondo cui il kerygma primitivo non prevedeva la resurrezione dai morti di Cristo? E per di più tutta questa ipotesi si basa su una differenza fra due brani di Corinzi e che francamente vede solo lui, e su un'ipotesi di traduzione della lettera ai Romani.
    Segue poi uno stranissimo riferimento a Bultmann, e non si capisce bene se l'autore stia caldeggiando le ipotesi dell'autore tedesco o se stia semplicemente facendo la storia della ricerca sul Gesù storico, giacché qualora si trattasse della prima posizione sarebbe rimasto un bel po' indietro. Bultmann è un esponente della old quest, adesso siamo arrivati alla third quest, ossia è crollata la distinzione invalicabile fra il Cristo della fede e il Gesù storico e si è capito che il primo non è spiegabile senza secondo, i Vangeli non sono cioè solo testimonianze di fede ma da essi su Gesù possiamo e dobbiamo saperne molto. Ha fatto storia in questo senso una dichiarazione di Flusser, che a quel tempo insegnava storia del cristianesimo antico all'università di Gerusalemme, secondo cui Gesù è l'ebreo del mondo antico che conosciamo meglio e sul cui pensiero siamo più documentati. C'è poi una serie di interventi sui rapporti fra Gesù e Qumran e Gesù con gli altri gruppi religiosi, che veramente non ho capito cosa c'entrino. Si etichetta come cliché l'idea che Gesù si sarebbe opposto in modo rivoluzionario alle istituzioni religiose giudaiche del suo tempo incarnate dai farisei. Ora devo premettere che io non ho mai letto da nessuna parte il cliché denunciato, infatti le strutture religiose del tempo erano in mano non ai farisei ma ai sadducei, e se si vuole dire contro chi Gesù si scontrò a livello di istituzioni bisogna parlare di questi ultimi e non dei farisei con i quali ebbe un conflitto dottrinale. Al massimo si può dire che i farisei abbiano fatto pressione sui sadducei contro il loro nemico comune, infatti i sadducei irradiavano Gesù per la sua critica al sistema di mercato intorno al tempio, con cui i sadducei facevano affari d'oro. Non so poi cosa voglia dire che i farisei non erano padroni della scena. Se intende dire che non erano padroni delle istituzioni è verissimo, come già detto esse erano principalmente in mano ai collaborazionisti filo-romani sadducei: se invece vuole dire che non avevano il controllo della maggior parte della popolazione allora è falso. I farisei stavano in piedi per la loro base nel popolino, e come ci dice Giuseppe Flavio " hanno tanta potenza sulla folla, che pure se dicano alcunché contro il re o contro il sommo sacerdote sono immediatamente creduti" (antichità giudaiche XIII,28[SM=g27989] è dunque vero che non esisteva una ortodossia ermeneutica, ma è altrettanto vero che il potere stava in mano ai farisei se vogliamo considerare non la politica ma l'ascolto popolare. Quanto all'accenno al Gesù apocalittico di Schweitzer mi va benissimo, interi capitoli dei Vangeli sono apocalittici, specie in Matteo: basta che non si riduca solo a questo come il succitato autore a cerca di fare. Ciò che la storia della ricerca insegna è che il Gesù “solo qualcosa e non qualcos’altro” non sta in piedi, e che per farlo star su l’unica cosa che questi studiosi sanno fare è espungere tutti i passi che fanno saltare le loro teorie. Il culmine del fuori tema è stato toccato dalla domanda se Gesù abbia avuto o meno rapporti con gli esseni, una questione di nessun interesse con l'argomento in esame. Quello che possiamo dire è che ci sono molti elementi di rottura e molti elementi di similarità con la comunità del Mar morto, e quindi sebbene nessuno sano di mente sostenga più che Gesù sia stato un essendo, né che il cristianesimo sia “un essenismo che ha avuto successo”, si ritiene tuttavia che i due gruppi abbiano avuto dei contatti. Ci sono delle radicali differenze tra il modo di Gesù di intendere l'amore, la penitenza, l'atteggiamento da adottare verso i bambini, i vecchi, quelli che sono fuori dalla comunità, e le donne. Quanto ai bambini di Gesù è scritto che non solo non li scaccia ma anche l'invita a sé, mentre la regola di Qumran escludeva in modo assoluto sia bambini che vecchi, per non parlare delle donne. In Gesù il bambino diviene al contrario esempio della comunità dei salvati, dicendo che chi non si fa come un bambino non entrerà nel regno dei cieli. Per mettere fine alle ipotesi sull' essenismo di Gesù l’ allora sano di mente Küng aveva giustamente scritto che a Qumran il nazareno sarebbe stato scomunicato ed espulso, testuali parole. Il Manuale di giustizia della comunità riferisce che " stolti, pazzi, deficienti, alienati, ciechi, storpi, zoppi, sordi e minorati, nessuno di questi può far parte della comunità" esattamente come bisogna stare alla larga dai peccatori, degli stranieri e dalle donne. La comunità dei santi di Qumran è esattamente l'opposto del modello proposto da Gesù, che invece come sappiamo non faceva altro che andare appresso alle prostitute, ai peccatori, e malati, in base alla famosa massima che “non sono i sani ad aver bisogno del medico”. Gesù ha poi un atteggiamento esattamente opposto agli esseni sulle questioni legalistiche. Gli esseni potremmo definirli degli osservanti maniacali, invece Gesù è l'uomo del " il sabato è per l'uomo e non l’uomo per il sabato". Gli esseni distinguevano in modo minuzioso tre cibi puri e impuri, con ancor più sottigliezza del Pentateuco, Gesù al contrario annulla le regole di purità dicendo che nulla che entri nell'uomo può contaminarlo. Il maestro di Qumran esortava altresì all'isolazionismo della sua comunità, in quanto c'è una netta distinzione tra i figli della luce, cioè loro, e i figli delle tenebre(tutti gli altri), che meritano solo di andare in perdizione. Riassumere la questione dovremmo porre questi punti fermi che cito da un testo di A. Nicolotti per l'esemplare concisione: la comunità essena era chiusa, quella cristiana aperta. Cristo predica di amare i nemici, gli Esseni maledicevano e odiavano gli altri Ebrei. Gesù dice di porgere l'altra guancia, gli Esseni invocano la guerra. Cristo addirittura in Mt 5,43 pare rivolgersi a loro quando cita (per condannarlo) un passo delle scritture che paiono essere non l'Antico Testamento, ma la regola della comunità essena (vedi studi di Schubert e Yadin su 1QS 1,4-10). Le idee sull'impurità e la purità sono opposte. Gli esseni sono misogini. Gesù non disdegnava il vino e il cibo, o le feste, e non era un asceta. Egli chiamava gente a seguirlo, gli esseni non erano missionari. Gesù parlava semplicemente, gli esseni per enigmi e solo agli iniziati. Gesù non si curava della purità e frequentava poveri e malati. Gesù era taumaturgo, gli esseni no. Gli esseni prevedevano un'iniziazione, Gesù solo l'abbraccio della fede in lui. La comunità di Qumran era strettamente gerarchica. Gesù non aveva il sigillo dell'insegnamento ricevuto da un superiore.” È stato cioè osservato che lo scopo di Gesù non è raccogliere quelli che sono già giusti per organizzare uno “residuo di santi”, bensì di andar a cercare i peccatori per convertirli. Gli elementi di prossimità invece stanno nella concezione apocalittica della storia, nell'idea che il mondo sia per gran parte in mano a Satana, nell'escatologia, nella vita impegnata, nel celibato. Per una sintesi sui rapporti tra Gesù e il movimento esseno si può leggere sempre di J. H. Charlesworth, “Gesù e il giudaismo del suo tempo” (trad. it.) al cap. 3.
    ---------------------
    Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
    Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
    Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
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    benimussoo
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    00 26/02/2007 20:14
    GERUSALEMME - Archeologi ed esponenti religiosi in Israele hanno definito ridicola la tesi del documentario prodotto dal regista premio Oscar James Cameron, secondo il quale sarebbe stata scoperta a Gerusalemme la tomba di Gesu' e dei suoi familiari, incluso il figlio che avrebbe avuto con Maria Maddalena. "La tomba perduta di Cristo" andra' in onda il 4 marzo su Discovery Channel, ma ha gia' scatenato un'ondata di polemiche, dal momento che i suoi contenuti contraddicono i fondamenti del Cristianesimo: il fatto che Gesu' avesse un ossario - i sarcofaghi in pietra dove venivano raccolte le ossa circa un anno dopo la sepoltura - smentirebbe il principio della sua resurrezione. (Agr)

    Chi di voi ha letto questa notizia [SM=x511460]
  • barnabino
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    00 06/03/2007 15:02
    Cara Benimusso,

    Potresti chiedere a tutti gli utenti di evitare post chilometrici? Sono impossibili da recepire su un forum ed intasano inutilmente lo spazio, rendendo poco leggibile l'intero 3d.

    Forse si potrebbero suddividere dando la possibilità di leggerli e di replicare su singoli dettagli.

    Grazie!


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    Justeee
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    Senior
    00 07/05/2008 22:17
    Ho trovato questo analisi e approfondimento

    www.gliscritti.it/approf/2008/papers/bellia300408.htm

    "Storia e teologia Si è visto che l’identità storica di Gesù, del Gesù terreno, non ci è data da un’inchiesta storiografica univoca, a tratti pretenziosa, che non dichiara l’interesse previo che determina il suo sapere storico mai a sufficienza emancipato dai convincimenti personali dello storiografo. L’affollata galleria di ritratti della third Quest, da aggiungere a quelli collezionati in due secoli e mezzo di ricerca, ci ricorda che l’approccio storico non è mai stato in grado di spiegare come siano andate veramente le cose riguardo al Gesù della storia."

  • Eupeptico
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    00 16/07/2008 14:00


    Scusate il “leggero” ritardo ma leggo solo ora.

    Studita conclude il suo pezzo affermando:
    “L’impressione di superficialità nell’analisi viene alimentata da un linguaggio artatamente semplice, che talora sacrifica anche la sintassi, se a pag. 76 ci imbattiamo in un grottesco “la maggioranza dei suoi membri ebbero un atteggiamento...” laddove i anche nostri ragazzi delle scuole medie (che non dispongono di revisori di bozze!) sono in grado di concordare il numero di soggetto e verbo. Anche per questo, quando il volume scomparirà dai supermercati, difficilmente lo si troverà nei dipartimenti di scienze storico-religiose”

    Esprimo un paio di mie considerazioni:
    La frase “incriminata” e ridicolizzata da Studita si configura nella cosiddetta concordanza a sensum, o sinesi, ed è un costrutto tipico dell’italiano contemporaneo (anche se ne esistono esempi risalenti ai secoli precedenti). E’ una delle tendenze di ristandardizzazione in atto nella nostra lingua.
    Premesso che anche io la trovo stilisticamente sgradevole e me ne guardo bene dall’usarla, mi guardo altrettanto bene dal ridicolizzare chi la usa ponendolo ad un livello inferiore ad “un ragazzo delle scuole medie”.

    Un noto studioso italiano di sociolinguistica osserva “largamente accettata risulta poi la concordanza ad sensum del predicato verbale quando il soggetto è un nome collettivo seguito dal suo complemento partitivo, es.: una serie di prove mostrano” (G. Berruto, sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1987, p.81)

    La sinesi è un costrutto tipico della lingua contemporanea, ormai considerato legittimo da tutte le grammatiche (L. Cerianni e A. Castelvecchi, grammatica italiana, italiano comune e lingua letteraria: suoni, forme, costrutti, UTET, Torino 1988, pp. 389-390)

    La Grande grammatica italiana di consultazione (a cura di Lorenzo Renzi e Gianpaolo Salvi, Il Mulino, Bologna 1991, vol.2, pp. 228-229) afferma: “se il soggetto contiene un’espressione partitiva al singolare che introduce un sintagma nominale al plurale, l’accordo può essere sia con l’espressione partitiva, sia con il sintagma nominale che questa introduce”.

    Del resto, una frase simile a quella ridicolizzata, si trova nella Bibbia CEI e nella NR in Fil 1:14 – “…la maggior parte dei fratelli ... ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo”.

    Spero che Studita non me ne voglia (più di quanto già me ne vuole ^_^) per questa precisazione, che non ha alcuna motivazione polemica.

    Eup
  • Eupeptico
    Iscriviti
    00 24/07/2008 13:38

    Alter-Eup: "Grazie Eupeptico per avermi chiarito il punto"

    Eup: "Figurati! Sai che è un piacere. Per te sono pronto a questo e a MOOOOOLTO altro"

    -----

    Ahhhh ... la lingua italiana! Questo meraviglioso essere sconosciuto.


    Eup

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