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Augias - Pesce : Inchiesta su Gesù

Ultimo Aggiornamento: 24/07/2008 13:38
08/01/2007 23:58
 
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Pesce è un furbone. Chi ha letto il libro avrà notato come pesa le parole in maniera volutamente ambigua. Da una parte deve "vendere", dicendo quello che la gente vuole sentirsi dire: chiesa antisemita, complotti, vangeli segreti, idiozie di ogni sorta. Dall'altra parte non può compromettersi nei confronti del lavoro serio che di norma svolge.
Il vero problema di quest'uomo è il rapporto con il denaro. La sua risposta è il manifesto della prostituzione, un colpo al cerchio, e uno alla botte.

09/01/2007 10:26
 
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L'apparire della parola cristianesimo del resto non è anteriore - allo stato attuale delle conoscenze - al primo decennio del II secolo



Sarà pure la posizione accademica più attestata ma mi pare esagerata, di fatto ignora il libro degli Atti che per quanto possa essere tardo risale alla seconda metà del I secolo e riporta tradizioni precedenti.

Shalom
09/01/2007 12:30
 
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Re:

Scritto da: barnabino 09/01/2007 10.26

L'apparire della parola cristianesimo del resto non è anteriore - allo stato attuale delle conoscenze - al primo decennio del II secolo



Sarà pure la posizione accademica più attestata ma mi pare esagerata, di fatto ignora il libro degli Atti che per quanto possa essere tardo risale alla seconda metà del I secolo e riporta tradizioni precedenti.

Shalom



Perchè in atti vi sarebbe la parola "cristianesimo" ?
09/01/2007 12:50
 
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In Atti si dice che ad Antiochia, per la prima volta, i seguaci di Gesù furono chiamati cristiani, questo indica che fin da quell'epoca essi erano percepiti ormai come un gruppo separato del giudaismo, il cristianesimo.

Che non venisse usata la parola cristianesimo" mi pare indifferente, vi era un gruppo con caratteristiche tali da essere da essere ben distinto e riconoscibile.

Ciao
09/01/2007 14:00
 
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Re:

Scritto da: Teodoro Studita 08/01/2007 23.58
Pesce è un furbone. Chi ha letto il libro avrà notato come pesa le parole in maniera volutamente ambigua. Da una parte deve "vendere", dicendo quello che la gente vuole sentirsi dire: chiesa antisemita, complotti, vangeli segreti, idiozie di ogni sorta. Dall'altra parte non può compromettersi nei confronti del lavoro serio che di norma svolge.
Il vero problema di quest'uomo è il rapporto con il denaro. La sua risposta è il manifesto della prostituzione, un colpo al cerchio, e uno alla botte.




Norelli non è d'accordo con te, sentiamo il suo punto di vista:

Enrico Norelli

Professore di Storia del cristianesimo delle origini all’università di Ginevra



Intervento sul libro Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce

[vedi anche La Repubblica, 2 gennaio 2007, che riporta questo testo in forma abbreviata]




L’Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce è una risposta seria alla necessità urgente di proporre i risultati delle complesse ricerche degli specialisti a un pubblico più largo, il quale dispone per lo più di trattazioni orientate da un’opzione di fede o di libri che promettono, più o meno esplicitamente, di aiutare lo sviluppo del senso critico rivelando “tutto quel che la chiesa ha sempre voluto nascondere” mentre s’ispirano al più avvilente dogmatismo.

Ho trovato questo libro, nel suo complesso, corretto, misurato, intelligente: un aiuto reale per chi, non essendo uno studioso delle origini cristiane, s’interroghi sulla figura storica di Gesù. Certo, contiene affermazioni che si possono discutere. Ma credo che le dure critiche che mi è avvenuto di leggere a suo riguardo non solo siano largamente ingiustificate nel merito, ma soprattutto contengano errori di metodo, che danneggiano, essi sì, il lettore non specialista.

Che cosa si può conoscere storicamente di Gesù? La conoscenza storica, qual è praticata oggi, ha le sue regole. Una di esse, che ci riguarda qui, è che non è lecito allo storico pronunziarsi sulla realtà di Dio e sulla sua azione nella storia. Chi fa storia metterà in luce le maniere in cui donne e uomini hanno sviluppato credenze religiose, caratterizzerà tali credenze, i loro presupposti, le loro trasformazioni e le conseguenze che hanno prodotto; spiegherà in che modo determinati gruppi hanno creduto che la divinità agisse nel mondo, e in quali maniere hanno creduto di mettersi in rapporto con essa. Ma non assumerà Dio come attore dei processi storici, perché l’esistenza di un Dio non lo riguarda, diversamente da quella di Alessandro il Grande o di Lenin. Da poeta cristiano, Alessandro Manzoni ha potuto chiedersi se e come Dio avesse agito in Napoleone; ma uno storico che volesse spiegare l’attività di Napoleone affermando che Dio si è servito di lui susciterebbe, a ragione, l’ilarità generale.

Il caso di Gesù di Nazaret non è diverso. Lo storico non si pronunzia sulla sua divinità, per la semplice ragione che si tratta di una questione estranea al suo campo e ai suoi mezzi d’indagine. E’ dunque letteralmente priva di senso l’obiezione, mossa al libro Inchiesta su Gesù dal P. Giuseppe De Rosa nel numero 3755 della Civiltà cattolica, di aver negato la divinità di Gesù. Se Pesce e Augias avessero negato la divinità di Gesù, avrebbe avuto ragione di protestare, ma non per la negazione, bensì perché se ne sarebbero occupati; avrebbe dovuto biasimarli allo stesso modo se l’avessero affermata. In realtà, a me pare che la questione della divinità resti completamente, e doverosamente, fuori dell’orizzonte del libro. Altra cosa è affermare che i credenti in Gesù hanno ammesso la sua divinità: ciò è di competenza dello storico, il quale peraltro può mostrare che non tutti i documenti cristiani più antichi lo hanno fatto.

Per la medesima ragione non condivido le considerazioni del P. Raniero Cantalamessa nell’Avvenire del 18 novembre, là dove, verso la fine del suo articolo consacrato al libro, afferma che fede e incredulità condizionano la ricerca storica allo stesso modo, anzi la seconda “enormemente di più”. Infatti, se per “fede” intende la disponibilità a spiegare mediante l’intervento di Dio dei fenomeni per i quali i nostri attuali paradigmi culturali non ci consentono spiegazioni, si tratta di un atteggiamento incompatibile con il metodo storico quale oggi è universalmente accettato. Se per “incredulità” intende la ricerca, per i medesimi fenomeni, di spiegazioni accettabili dai paradigmi delle “scienze umane” (nella consapevolezza che tali spiegazioni saranno superate un giorno dall’affermarsi di altri paradigmi), questo è un atteggiamento compatibile con il metodo storico. Tutto qui. Le due posizioni non possono essere rifiutate allo stesso modo.

Del resto, la foga polemica conduce talora Cantalamessa a presentare in maniera distorta il pensiero di Pesce. Nel contesto ora citato, afferma che, se ci si accosta a Cristo da non credente, “i miracoli [non potranno che essere] frutto di suggestione”. Ora Pesce afferma esattamente il contrario, basta leggere a p. 134: “io stesso mi sono convinto che è necessario ammettere l’esistenza di persone in grado di compiere autentiche guarigioni considerate ‘miracolose’, per le quali non esiste una spiegazione scientificamente verificabile. (...) La sua effettiva capacità taumaturgica (...) La sua capacità di fare miracoli (...)”. Anzi, Pesce cita anche episodi come le resurrezioni, il controllo delle forze della natura, la moltiplicazione del cibo, commentando: “sono convinto che questi episodi non siano stati inventati, ma che i suoi seguaci furono realmente convinti di avere assistito a quei fatti straordinari”. Senza ombra di dubbio, Pesce si rende conto che con affermazioni del genere si situa su di un terreno sul quale molti esegeti, tra cui anche dei cattolici, farebbero fatica a seguirlo. In generale, le persone competenti avrebbero il dovere, e il pubblico più ampio avrebbe il diritto, di sapere che – diversamente da quanto insinuano gli articoli che lo criticano – Pesce ha una fiducia nell’attendibilità dei racconti evangelici assai ampia rispetto alla media degli esegeti.

La foga polemica mi sembra anche trascinare il P. Cantalamessa a errori evidenti, come quando se la prende con “la tesi della totale estraneità delle autorità ebraiche alla morte di Cristo”, evidentemente dimenticando quanto Pesce afferma alle p. 160-161 sull’appoggio di una parte delle autorità di Gerusalemme alla condanna di Gesù. Non posso evitare di credere tale foga responsabile anche della furibonda tirata di Cantalamessa contro gli apocrifi, che si stenta a ricondurre a uno studioso competente come lui nel campo della letteratura cristiana antica. Come si può affermare che i critici più arditi “arrivano, con congetture, a datarli (= gli apocrifi) all’inizio del III o a metà del II secolo”, quando citazioni da parte di autori ben datati, o papiri databili paleograficamente, consentono di assegnare praticamente con certezza al II secolo una quantità di apocrifi, tra cui il Vangelo di Pietro, il cosiddetto Protovangelo di Giacomo, i vangeli degli Ebrei e degli Egiziani, il Vangelo di Tommaso (abbiamo frammenti di due copie degli inizi del III secolo), la Predicazione di Pietro, l’Apocalisse di Pietro, e altri, senza menzionare quelli che si possono attribuire con enorme probabilità al II secolo sulla base del loro contenuto, come l’Ascensione di Isaia? E come si può affermare che “i vangeli apocrifi professano tutti [sic!], chi più chi meno, una rottura violenta con l’Antico Testamento”, quando, per esempio, tra quelli ora menzionati, questo si può proporre tutt’al più, con molta incertezza, per il solo Vangelo di Tommaso, dove comunque tale tema non è minimamente esplicito? Non si dovrebbe accusare altri di distorcere i fatti storici e la valutazione delle fonti mentre si fa lo stesso, contribuendo a mantenere nei lettori un’immagine distorta degli apocrifi, dei quali negli ultimi decenni si è scoperta l’importanza fondamentale per conoscere la storia e il pensiero delle più antiche comunità cristiane.

Pesce, del resto, non privilegia gli apocrifi rispetto ai vangeli divenuti canonici; basta scorrere il libro per rendersi conto che si fonda incomparabilmente più sui secondi che sui primi, e inoltre afferma (p. 221) che il vangelo che ha meglio compreso Gesù è quello di Luca. Ciò che se mai desidera a giusto titolo mettere in evidenza è che bisogna prendere in considerazione tutti i vangeli anticamente in circolazione per poter comprendere come sono state trasmesse le parole di Gesù e i racconti su di lui, il che è necessario anche per capire come sono nati i vangeli poi canonizzati.

Credo che un punto cruciale, cui non a caso dedicano ampio spazio sia Cantalamessa che De Rosa, sia la questione dell’ebraicità di Gesù. Nessuno dei due la nega, né lo potrebbe, ma entrambi tengono a sottolineare la continuità tra Gesù ebreo e il cristianesimo; ora però, siccome “ebreo” non è “cristiano”, sono obbligati a mettere l’accento sulle novità dell’insegnamento di Gesù. Questo finisce con il condurre a delle acrobazie, soprattutto nel caso del P. De Rosa: “Gesù, sulla scia dell’antica Legge, proclama una Legge nuova, che non contraddice la prima, ma la compie”, per esempio con il comandamento dell’amore del nemico: ma se non c’è contraddizione, come si può dire che tali cose escono da ciò che è “integralmente ebraico”? “Compimento” equivale a “uscita”? (Muovendo lo stesso tipo di critica, De Rosa collega il “compimento” con la discontinuità, Cantalamessa con la continuità.) Il punto è che simili posizioni sono accettabili solo a partire dal presupposto che il giudaismo è inevitabilmente una religione formalista ed egoista, incapace di amare il nemico e di pregare per il persecutore, nonché di credere che l’amore di Dio è più forte dell’impurità; che interpretare i comandamenti in maniera radicale, estendendo per esempio all’insulto il divieto di uccidere, come avviene nelle “antitesi” citate al riguardo da Cantalamessa, è impossibile per un “ebreo”. Che Gesù interpreti spesso la Legge in maniera diversa da altri, tra cui possono esservi talora dei farisei, è chiaro; che questo significhi uscire dal giudaismo, lo è molto meno, e dietro un’idea del genere, malgrado ogni intenzione contraria, l’antigiudaismo è sempre in agguato. E se Cantalamessa, ironicamente, invita a chiedere agli ebrei cosa pensino di un Paolo “ebreo e non cristiano” (credo del resto che attualmente avrebbe delle sorprese), perché non invita a fare lo stesso anche per Gesù? Forse perché troppi, ormai, sono gli studiosi ebrei autorevoli che difendono l’ebraicità integrale di Gesù?

Molto altro sarebbe da dire, ma desidero terminare con una osservazione critica su di un punto della conclusione di Augias: la trovo in generale equilibrata, come ogni altro suo intervento nel libro, ma questo punto mi pare importante, e mi permette di riallacciarmi a quanto scrivevo all’inizio. Interrogandosi sull’enigma della grandezza di Gesù e della sua immensa influenza, Augias afferma (p. 241) che per un cristiano la spiegazione è semplice, viene dalla fede che Gesù è il Figlio di Dio, e “per qualunque cristiano il discorso può finire a questo punto”, mentre il non cristiano continuerà a porsi la domanda “è possibile parlare di Gesù e raccontarlo come un qualunque altro protagonista della storia, prescindendo cioè dalla sua ‘divinità’?”. Ebbene, io che cerco di essere cristiano non rinunzio affatto a quest’ultima domanda. Proprio quella che è divenuta l’ortodossia cristiana ha sempre affermato l’umanità di Gesù e, se è così, il credente non può rinunziare a cercar di capire Gesù come essere umano, sul piano storico. Al contrario: è vero che la ricerca storica non potrà mai “dimostrare” la divinità di Gesù (non lo potrebbe neanche se, per ipotesi che ritengo assurda, giungesse a concludere che tutto quanto gli attribuiscono i vangeli ha avuto luogo letteralmente, perché comunque non potrebbe logicamente dedurne la divinità, tale passaggio essendole per definizione estraneo); ma per lasciar afferrare la propria vita dalla forza di Gesù, per avere “fede” in lui, è necessario incontrare quest’uomo vissuto in terra d’Israele quasi duemila anni fa. Stranamente, e certo contro le intenzioni di Augias, questo suo enunciato lascerebbe pensare che l’approccio di questo libro è, secondo lui, tipico del non credente, mentre tipico del credente sarebbe quello della fede. Su tale opposizione non posso seguirlo, e sono convinto che i cristiani, non meno degli altri, hanno un gran bisogno di un libro come questo e dovrebbero esserne grati a lui e al professor Mauro Pesce.

09/01/2007 15:12
 
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Mi spiace ma sono abbastanza convinto da quanto ho affermato. Lo stesso intervento pocanzi proposto riporta una frase di Pesce che esprime benissimo l'ambiguità di "un colpo al cerchio e uno alla botte":

“sono convinto che questi episodi non siano stati inventati, ma che i suoi seguaci furono realmente convinti di avere assistito a quei fatti straordinari”

Questa frase può voler dire molte cose:
- che il miracolo c'è stato, ed è stato visto
- che c'è stato un evento strano, che è stato interpretato (bene o male che sia) come un miracolo
- che si è trattata di una palese suggestione di massa
e così via...

Tutta il libro è costruito così: Pesce non prende posizioni chiare sulle questioni "scomode" perché per la scienza ha un opinione, per il marketing un'altra. E quando deve esprimersi per forza è costretto a trovare queste formule... conciliative.
Non mi fa tenerezza solo perché ha fatto un sacco di soldi.

Cordialità,

09/01/2007 16:03
 
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“sono convinto che questi episodi non siano stati inventati, ma che i suoi seguaci furono realmente convinti di avere assistito a quei fatti straordinari”

A me questo passo mostra solo una volta di più la professionalità di Pesce nel fare le giuste distinzioni, con questo passo Pesce mette in luce che i miracoli possono esser stati veri miracoli oppure delle allucinazioni o esagerazioni collettive. Se si fosse sbilanciato di più sarebbe venuta meno la scientificità del suo pensiero.
Infatti dire a inizio frase "sono convinto" implica di tralasciare le idee di cui non è totalmente convinto.
In questo modo lascia liberi i lettori di appoggiare chi una chi l'altra opinione.
Pesce ha due o più opinioni differenti, ma non per questo non sono tutte scientifiche.
09/01/2007 20:32
 
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Re:
"A me questo passo mostra solo una volta di più la professionalità di Pesce nel fare le giuste distinzioni, con questo passo Pesce mette in luce che i miracoli possono esser stati veri miracoli oppure delle allucinazioni o esagerazioni collettive. Se si fosse sbilanciato di più sarebbe venuta meno la scientificità del suo pensiero."

Sono d'accrodo con Thommy. Difatti, Teodoro, come potrebbe uno scienziato disquisire di eventi di cui non abbiamo esperienza ?

Pesce non può pronunciarsi sui miracoli, ma può dire che storicamente c'era una tradizione orale, poi messa per iscritto, che raccontava di tali avvenimenti.

Saluti
Andrea
11/01/2007 00:23
 
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Re: Re:

come potrebbe uno scienziato disquisire di eventi di cui non abbiamo esperienza ?



Perché abbiamo esperienza di qualcosa che riguardi il Gesù storico?
O ti pronunci o non ti pronunci, le frasi dette a mezza bocca tradiscono i veri intenti.

11/01/2007 13:07
 
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Un piccolo commento

“Ma non assumerà Dio come attore dei processi storici, perché l’esistenza di un Dio non lo riguarda, diversamente da quella di Alessandro il Grande o di Lenin. Da poeta cristiano, Alessandro Manzoni ha potuto chiedersi se e come Dio avesse agito in Napoleone; ma uno storico che volesse spiegare l’attività di Napoleone affermando che Dio si è servito di lui susciterebbe, a ragione, l’ilarità generale.”

Questa è storia o un metodo storiografico con una precisa base filosofica di base? Si ha cioè l’impressione che per ragionare di storia terrena occorra mettere Dio tra parentesi e cercare di spiegare tutto ciò che accade etsi deus non daretur, ma questa posizione che si spaccia per neutra in realtà appartiene ad un partito ben preciso come la tesi opposta. I Vangeli affermano l’opera di Dio nella storia, e cercare un’interpretazione alternativa che spieghi in modo del tutto immanente quanto avviene non è essere neutri ma postulare bellamente che Dio non esiste e che non agisce nella storia. Ovviamente qui non si vuole dimostrare che sia più giusto l’approccio di chi scorge la mano della provvidenza, bensì solo che anche la lente critica con cui si cerca di dare sempre una spiegazione puramente immanente ai fatti non è neutra ma un autentico partito preso. La storia così concepita non è la neutralità, è un metodo con dei precisi postulati filosofici sottostanti, esattamente come quello opposto del resto. Un esempio di questa forma mentis ci viene dato anche in seguito: “Per la medesima ragione non condivido le considerazioni del P. Raniero Cantalamessa nell’Avvenire del 18 novembre, là dove, verso la fine del suo articolo consacrato al libro, afferma che fede e incredulità condizionano la ricerca storica allo stesso modo, anzi la seconda “enormemente di più”. Infatti, se per “fede” intende la disponibilità a spiegare mediante l’intervento di Dio dei fenomeni per i quali i nostri attuali paradigmi culturali non ci consentono spiegazioni, si tratta di un atteggiamento incompatibile con il metodo storico quale oggi è universalmente accettato. Se per “incredulità” intende la ricerca, per i medesimi fenomeni, di spiegazioni accettabili dai paradigmi delle “scienze umane” (nella consapevolezza che tali spiegazioni saranno superate un giorno dall’affermarsi di altri paradigmi), questo è un atteggiamento compatibile con il metodo storico.”
Cioè vale a dire: è un postulato della ricerca storica seria che i miracoli non esistono. In realtà quando affermo che uno storico può dire qualcosa sulla divinità di Cristo non intendo dire che costui possa indagare l’ontologia e la metafisica, ma che possa fare una cosiddetta storia degli effetti. E’ da secoli che si cerca per all’appunto di spiegare questo fatto: se i miracoli non ci sono stati, perché una tradizione così vicina li riporta? La spiegazione uno è che gli evangelisti mentano, ma ciò richiedeva la postdatazione dei racconti perché non ci si possono inventare racconti di miracoli compiuti davanti a 5000 persone se il pubblico gerosolimitano che vi avrebbe assostito è ancora in vita. Si è allora passati alla seconda via, quella battuta da Pesce, ossia che i discepoli credevano davvero di vedere miracoli ma in realtà la cosa non era reale. Ora, visto il numero di miracoli riportati dai Vangeli, costoro erano allucinati dalla mattina alla sera. Anzi viene da chiedersi come si possa sostenere una cosa simile anche con miracoli come la moltiplicazione dei pani e dei pesci per 5000 persone, se lo sono sognati tutti contemporaneamente? Il punto scomodo per i laici è la vicinanza della tradizione orale e scritta hai fatti che racconta. Paolo già negli anni cinquanta ai Corinzi che non volevano credere alla risurrezione scrive che se non credono a lui possono recarsi a Gerusalemme a chiedere visto che Cristo apparve a cinquecento fratelli radunati assieme e la maggior parte di loro è ancora viva e pronta a testimoniarlo. Ora è questo il punto: come si spiega che a vent’anni di distanza dal presunto miracolo della resurrezione si sia formato un mito simile e con così tanti testimoni quando la storia delle religioni ci ha insegnato che i miti si formano in secoli e soprattutto hanno bisogno della scomparsa dei testimoni oculari per esplodere in fantasia? La risposta, ora che le datazioni delle lettere di Paolo sono universalmente accettate, è una sola: allucinazione collettiva. E’ questo ciò di cui tratto quando parlo di “storia degli effetti”, Abbiamo un esplosione chiamata cristianesimo, ma col “Gesù storico” che mai fece miracoli e mai risorse, ricostruito da certa storiografia, non abbiamo alcun fiammifero che possa aver innescato la miccia.- C’è un intero filone storiografico che ha il suo acme nel II volume di “Un ebreo marginale” di Meier che si impegna appunto a dimostrare come le spiegazioni naturali e allucinatorie dei miracoli, che fanno salva la buona fede degli evangelisti, sono insostenibili. A questo si riferiva Padre Cantalamessa quando affermava che la non fede condiziona ancora di più la ricerca, si deve ad un certo punto per far salvo il proprio ateismo far violenza alle fonti e darsi ad esibizioni da acrobata. Vorrei citare a questo proposito un testo di Ratzinger che è la trascrizione di una sua lezione tenuta quando insegnava ancora all’università di Tubinga sull’inseparabilità del Gesù storico da Cristo della fede:


Il dilemma della teologia moderna: Gesù o Cristo?

Dopo quanto abbiamo detto, può ancora meravigliarci che la teologia, in una maniera o nell'altra, cerchi di sfuggire al dilemma della contemporaneità di fede e storia, tanto più se fra le due si frappone la parete divisoria dello 'storico'? Così, oggi, c'imbattiamo, or qua or là, nel tentativo di sottoporre a verifica la cristologia sul piano storico, mostrandone l'evidenza malgrado tutto mediante il metodo dell' "esatto" e documentabile, oppure scegliendo molto più semplicemente di ridurla sbrigativamente a dato comprovabile. Il primo di questi tentativi non può riuscire, perché - come già abbiamo visto - il dato 'storico' in senso stretto implica una forma di pensiero che sottintende una limitazione al phainómenon (al documentabile), per cui non potrà mai far nascere la fede, allo stesso modo in cui la fisica non sarà mai in grado di far scaturire la professione di fede in Dio. Il secondo, poi, non potrà mai soddisfare pienamente, perché in tal modo non si riesce ad afferrare la totalità di quanto è allora accaduto e ciò che si propone come affermazione è in realtà espressione di una privata concezione del mondo e non il puro risultato di un'indagine storica. Ciò è stato messo in chiara evidenza da A. Schweitzer, nella sua Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia 1986, la quale mise così temporaneamente 'fine' agli sforzi fatti in tal senso. Ci limitiamo solo a riportare il seguente classico passo contenuto in tale opera: «Nulla è più negativo dei risultati offertici dalla ricerca sulla vita di Gesù. Il Gesù di Nazaret che si è presentato come Messia, che ha predicato la morale del regno di Dio, che ha fondato il regno dei cieli sulla terra ed è morto per dare il suggello consacratorio alla sua opera, non è mai esistito. Egli è una figura abbozzata dal razionalismo, vivificata dal liberalismo e rivestita di paludamenti storico-scientifici dalla teologia moderna. Questa immagine non è stata distrutta dall'esterno, ma è crollata invece dall'interno, dopo esser stata scardinata e disintegrata dai problemi concreti e storici...»: citato da W.G. Kummel, Il Nuovo Testamento. Storia dell'indagine scientifica sul problema neotestamentario, Il Mulino, Bologna 1976, 351.
Sicché a questi sforzi si accompagna sempre più il terzo tentativo, ossia di sfuggire completamente al dilemma storicistico lasciandoselo alle spalle come superfluo. È quanto avviene alla grande già in Hegel; e pure l'opera di R. Bultmann, sebbene si distingua da quella di Hegel, ha in comune la stessa direzione. Che ci si riduca all'idea o al kérygma non è senz'altro la medesima cosa; la distinzione, tuttavia, non è così totale come sembrano supporre gli stessi sostenitori della teologia-del-kérygma. Il dilemma in cui si dibattono ambedue le vie - da un lato quella di trasporre o ridurre la cristologia a storia (Historie), dall'altro quella di sfuggire completamente alla storia, lasciandosela alle spalle come superflua per la fede - si può benissimo riassumere nell'alternativa che tormenta la teologia moderna: Gesù o Cristo? La teologia inizia dapprima con il distaccarsi da Cristo per rifugiarsi in Gesù quale figura storicamente tangibile; razza dell'ortodossia farisaica, introducendo al posto dell'intollerante fede formale la fiducia semplice nel Padre, la fratellanza degli uomini e la vocazione a un unico amore. Ebbene, al posto di tutto questo, si sarebbe poi sostituita la dottrina dell'uomo-Dio, del 'Figlio', e così al posto della tolleranza e della fraternità, che sono la salvezza, una dottrina salvifica che può significare soltanto rovina e ha scatenato lotte su lotte, divisioni su divisioni. Donde la necessità di una nuova parola d'ordine: marcia indietro dal Cristo annunciato, oggetto di una fede che divide, e ritorno al Gesù che annuncia, all'appello alla potenza unificante dell'amore sotto l'unico Padre e con i molti fratelli.
Non si può certo negare che queste siano affermazioni incisive e stimolanti, alle quali non si può passare sopra tanto facilmente. Eppure, mentre Harnack stava ancora proclamando il suo ottimistico messaggio di Gesù, si sentivano già alla porta i passi di coloro che avrebbero portato la sua opera alla sepoltura. In quello stesso tempo, infatti, si fornivano già le prove che il Gesù di cui egli parlava era solo un romantico sogno, una fata morgana dello storico, il riflesso della sua sete e del suo desiderio che si dissolve a mano a mano ci si avvicina.
Bultmann imboccò così decisamente l'altra strada. Per quanto riguarda Gesù è assolutamente importante solo il 'che' (das Dass), il fatto che egli sia esistito; per il resto, la fede non si aggrappa a ipotesi così malsicure, sulle quali non c'è verso di raggiungere alcuna certezza storica, ma fa riferimento unicamente all'evento della parola nella predicazione, tramite il quale la chiusa esistenza umana viene aperta alla sua autenticità. Ma un vuoto 'che' (Dass) è forse più facile da sostenere di uno riempito di contenuto? Si è forse guadagnato qualcosa liquidando come insignificante la questione di chi, che cosa e come era questo Gesù e perciò legando così l'uomo a un semplice evento della parola? Quest'ultimo ha luogo senz'altro, giacché viene annunciato; ma la sua legittimazione e il suo contenuto di realtà continuano a rimanere, battendo questa via, quanto mai problematici.
Tenendo presenti questi problemi, è comprensibile che torni a crescere il numero di coloro che dal puro kérygma e dal Gesù storico, ridotto per così dire al fantasma del puro 'che', ritornano ora indietro al più umano fra gli uomini, la cui umanità appare loro, in un mondo sdivinizzato, come l'ultimo barlume del divino sopravvissuto alla 'morte di Dio'. Questo accade oggi nella cosiddetta 'teologia della morte di Dio', la quale ci dice che, sì, non abbiamo più Dio, ma ci è rimasto tuttavia Gesù come segno della fiducia che ci rincuora a proseguire il cammino. In un mondo svuotato di Dio la sua umanità deve diventare una specie di rappresentanza di quel Dio che non riusciamo più a trovare. Ma quanto poco critici sono, su questo punto, coloro che prima si atteggiavano a critici tanto da volere permettere unicamente una teologia senza Dio, semplicemente per non apparire alquanto superati agli occhi dei loro contemporanei progressisti! Del resto, bisognerebbe forse porre la questione già prima e riflettere se non si manifesti una pericolosa assenza di senso critico già nell'intenzione di praticare una teologia - discorso su Dio - prescindendo da Dio. Non c'è bisogno che ci occupiamo di questo; per quanto concerne la nostra questione, resta comunque assodato che non possiamo cancellare gli ultimi quarant'anni, e che il ritorno al solo Gesù ci è irrevocabilmente precluso. Il tentativo, eludendo il cristianesimo storico, di costruire un puro Gesù ricavato dagli alambicchi degli storici, del quale poi si dovrebbe poter vivere, è intrinsecamente assurdo. La semplice storia (Historie) non crea alcun presente, ma constata ciò che è stato. Pertanto, il romanticismo su Gesù è, in sostanza, altrettanto privo di avvenire e tagliato fuori dal presente quanto doveva esserlo la fuga nel puro evento della parola.
Tuttavia, l'oscillare dello spirito moderno tra Gesù e Cristo, le cui tappe più significative nel XX secolo ho cercato di enucleare, non è stato inutile. Penso che possa persino diventare un autentico segnavia, indicante che non esiste l'uno (Gesù) senza l'altro (Cristo), sicché si continua necessariamente a venir rimandati dall'uno all'altro, perché in verità Gesù sussiste soltanto come il Cristo e il Cristo non altrimenti che in Gesù. Noi dobbiamo fare un passo innanzi e, prima di ogni ricostruire, che può offrirci sempre e soltanto dei rifacimenti, ossia delle figure artificiose ricavate in un secondo tempo, cercare semplicemente di comprendere che cosa ci dica la fede, la quale non è ricostruzione, ma presenza, non è teoria, bensì realtà viva ed esistenziale. Forse dovremmo fidarci di più dell'attualità della fede che resiste ai secoli, fede che per sua stessa natura non ha voluto essere altro che un comprendere - comprendere, cioè, chi e che cosa sia veramente stato questo Gesù -; forse dovremmo contare più su di essa che sulla ricostruzione, la quale cerca la propria strada astraendo dalla realtà; perlomeno, però, dobbiamo cercare una buona volta di conoscere che cosa questa fede veramente dice.

L'immagine di Cristo nella professione di fede

Il Simbolo (apostolico), da noi seguito in questo libro come sintesi rappresentativa della fede, formula la sua professione di fede in Gesù con questa semplicissima frase: «... e (io credo) in Gesù Cristo». In essa, il fatto per noi più sorprendente è che, come nel linguaggio preferito dall'apostolo Paolo, il termine Cristo, il quale originariamente non era un nome, bensì un titolo ("Messia"), nel testo originale viene premesso al nome ('Cristo Gesù'). Ora, si può dimostrare che alla comunità cristiana di Roma, cui si deve la formulazione della nostra professione di fede, il termine Cristo era già ben noto in tutta la sua portata contenutistica. La sua trasformazione in un puro e semplice nome proprio, così come lo intendiamo oggi, si è verificata già nei primissimi tempi; tuttavia qui l'appellativo 'Cristo' viene ancora impiegato come designazione di ciò che in realtà questo Gesù è. La sua fusione col nome Gesù è, d'altronde, già molto avanzata, ci troviamo quasi all'ultima tappa nell'evoluzione del significato del termine Cristo.
Ferdinand Kattenbusch, il grande studioso del Simbolo apostolico, ha chiarito il dato di fatto con un azzeccatissimo esempio mutuato dalla realtà del suo tempo (1897). Egli lo paragona al nostro modo di dire quando si parla del 'Kaiser Guglielmo': qui il titolo di Kaiser è divenuto quasi parte integrante del nome, tanto indissolubilmente uniti vanno i termini Kaiser e "Guglielmo"; eppure tutti sanno che con questa parola non si esprime soltanto un nome, bensì una funzione. Qualcosa del genere troviamo anche qui, nell'abbinamento delle parole 'Cristo Gesù', che presenta la stessa formazione: Cristo è sì un titolo, ma è anche già una parte del nome proprio con cui si indica l'Uomo di Nazaret. In questo processo di fusione del nome col titolo, del titolo in nome, si riflette qualcosa di ben diverso da una delle tante sbadataggini della storia, di cui qui avremmo un esempio in più. In esso emerge piuttosto in piena luce il nucleo più profondo di quel lavoro di comprensione che è stato compiuto dalla fede nei confronti della figura di Gesù di Nazaret. La fede, infatti, ci viene appunto a dire che in quel Gesù non è possibile distinguere tra ufficio e persona: tale differenziazione è, nei suoi confronti, assolutamente priva di fondamento. La persona è l'ufficio, l'ufficio è la persona. Le due cose sono ormai inseparabili: qui non c'è alcuno spazio riservato al privato, all'Io, che in fin dei conti permane dietro le proprie azioni e attività, e perciò talvolta può essere anche 'fuori servizio'; qui invece non c'è alcun lo staccato dalla sua opera: L'Io è l'opera, e l'opera è l'Io.
Sempre stando all'autocomprensione della fede che si esprime nel Simbolo, Gesù non ha lasciato dietro di sé una dottrina che andrebbe distinta dal suo lo, come si possono raccogliere e apprezzare le idee dei grandi pensatori, senza interessarsi alla persona dell'autore. Il Simbolo non offre una dottrina di Gesù; è chiaro che non si è mai neppure pensato - cosa che a noi parrebbe tanto ovvia - di tentar qualcosa del genere, per la semplice ragione che la comprensione di fondo che lo ispirava portava in tutt'altra direzione. Allo stesso modo, sempre secondo l'autocomprensione della fede, Gesù non ha compiuto un'opera distinguibile dalla sua persona e quindi da presentare separata da essa. Comprenderlo come il Cristo vuol dire piuttosto essere convinti che egli ha messo se stesso nella sua parola: qui non c'è un Io che dice parole (come succede per noi), ma egli si è identificato con la sua parola a tal punto che lo e parola non si distinguono più uno dall'altra: egli è il Verbo, la Parola. E del pari, per la fede, la sua opera altro non è che un trasfondere-se-stesso senza riserve proprio in tale opera; egli si fa e si dà; la sua opera è il dono di se stesso.
Karl Barth ha espresso questa percezione della fede nel modo seguente: «Gesù coincide totalmente con il suo ufficio. Non è quindi prima uomo e poi, in aggiunta, detentore di tale ufficio... Non c'è un'umanità neutrale di Gesù... La memorabile affermazione di Paolo (2 Cor 5,16): "E anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così", potrebbe essere pronunciata anche a nome di tutti e quattro gli evangelisti. Essi erano completamente disinteressati a tutto ciò che quest'uomo poteva essere stato e avere fatto al di fuori del suo ufficio di Cristo, ossia prescindendo dall'esecuzione del suo incarico... Anche se ci dicono che egli ha avuto fame e sete, che ha mangiato e bevuto, che si è stancato, ha riposato e dormito, che ha amato, si è afflitto, si è adirato e ha persino pianto, con ciò essi sfiorano delle circostanze collaterali, in cui non viene mai alla luce qualcosa come una personalità autonoma rispetto alla sua opera, con determinate esigenze, inclinazioni e passioni a essa proprie... Il suo essere in quanto uomo è la sua opera». In altri termini: l'affermazione decisiva della fede a proposito di Gesù sta nell'inscindibile unità delle due parole 'Gesù Cristo', in cui si cela l'esperienza dell'identità di esistenza e missione. In questo senso si può effettivamente parlare di una «cristologia funzionale»: tutto l'essere di Gesù è funzione del 'per noi', ma anche la funzione è, appunto per questo, totalmente il suo essere.
Intendendo le cose in questo modo, si potrebbe alla fine davvero affermare che importanti non sono la dottrina e le azioni del Gesù storico in quanto tali, ma basta il semplice 'che'. Così infatti è se si comprende che questo 'che' intende l'intera realtà della persona, che in quanto tale è la sua dottrina, che in quanto tale coincide con la sua azione e in questo ha la sua irripetibile peculiarità e unicità. La persona di Gesù è la sua dottrina, e la sua dottrina è lui stesso. Pertanto, la fede cristiana, ossia la fede in Gesù in quanto il Cristo, è davvero 'fede personale'. Cosa ciò significhi, lo si può realmente comprendere solo a partire da quanto abbiamo detto. Una tale fede non è l'accettazione di un sistema, bensì l'accoglimento di questa persona che è la sua Parola, della Parola in quanto persona e della persona in quanto Parola.(…)

Uno stereotipo moderno del “Gesù storico”

Dobbiamo procedere con calma. Chi era propriamente Gesù di Nazaret? Quale comprensione ebbe di sé? Se dovessimo dar credito al cliché che oggi comincia a diffondersi largamente come forma di volgarizzazione della teologia moderna, le cose sarebbero andate più o meno così: bisognerebbe immaginarsi il Gesù storico come una specie di maestro profeta, il quale ha fatto la sua comparsa nell'atmosfera escatologicamente surriscaldata del tardo-giudaismo del suo tempo e qui, conformemente a tale situazione escatologicamente carica, annunciò l'avvento del regno di Dio. Questo sarebbe stato, all'inizio, un messaggio da comprendere in senso del tutto temporale: adesso viene il regno di Dio, la fine del mondo. D'altro canto però, l' "adesso" sarebbe in Gesù così accentuato che, a uno sguardo più profondo, il fattore tempo-futuro non potrebbe più essere considerato come l'elemento proprio del messaggio. Questo, piuttosto, lo si potrebbe cogliere - quantunque Gesù stesso pensasse a un futuro, a un regno di Dio - unicamente nell'appello alla decisione: l'uomo sarebbe totalmente vincolato all' "adesso" che di volta in volta irrompe.
Non soffermiamoci sul fatto che un messaggio talmente vuoto di contenuto, col quale si pretende di comprendere Gesù meglio di quanto non si comprese lui stesso, difficilmente avrebbe potuto dire qualcosa a qualcuno. Ascoltiamo piuttosto semplicemente come la vicenda sarebbe proseguita. Per motivi che non si potrebbero più ricostruire esattamente, Gesù sarebbe stato giustiziato, morendo come un fallito. Dopo di che, in maniera ancor sempre inspiegabile, sarebbe nata la fede nella sua risurrezione: l'idea, cioè, che egli sia di nuovo vivo, o comunque continui a contare qualcosa. A poco a poco, questa fede si sarebbe ulteriormente rafforzata, trasformandosi nell'idea, documentabile in maniera analoga anche attraverso altre fonti, che Gesù sarebbe ritornato in futuro come Figlio dell'uomo o come Messia. In un secondo tempo, si sarebbe infine retro-proiettata questa speranza sul Gesù storico, la si sarebbe posta in bocca a lui stesso, dando di lui, quindi, una nuova interpretazione. A questo punto, si sarebbe presentato il tutto come se lui stesso si fosse annunciato quale venturo Figlio dell'uomo o Messia. Ma subito dopo - così prevede il nostro cliché - il messaggio sarebbe passato dal mondo semitico a quello ellenistico. Ciò avrebbe avuto importanti conseguenze. Nel mondo giudaico si era data di Gesù un'interpretazione basata su categorie ebraiche (Figlio dell'uomo, Messia). Ora, nel mondo ellenistico, queste categorie risultavano incomprensibili; sicché qui si ricorse a modelli rappresentativi ellenistici. Al posto degli schemi semitici del Figlio dell'uomo e del Messia sarebbe subentrata la categoria ellenistica dell' "uomo divino" o dell' "uomo-Dio" (theós anér), mediante la quale si sarebbe ora resa comprensibíle la figura di Gesù.
L' "uomo-Dio" nel senso dell'ellenismo sarebbe, però, caratterizzato principalmente da due proprietà: sarebbe taumaturgo e di origine divina. Quest'ultima proprietà intende affermare che
egli discende in qualche modo da Dio in quanto Padre; ed è appunto la sua origine mezzo divina e mezzo umana che lo fa uomo-Dio, uomo divino. La trasposizione della categoria dell'uomo-divino su Gesù avrebbe avuto per conseguenza anche il trasferimento delle due tipiche note poc'anzi descritte. Così si sarebbe incominciato a descriverlo come taumaturgo, e dalla stessa radice sarebbe nato anche il 'mito' della sua nascita da una vergine. Questo avrebbe poi, a sua volta, condotto nuovamente a designare Gesù come Figlio di Dio, perché ora Dio appariva, nel mito, come suo Padre. In tal modo l'interpretazione ellenistica di Gesù come 'uomo divino', con le sue necessarie manifestazioni collaterali, avrebbe, infine, trasfigurato l'evento della vicinanza a Dio, che era stata caratteristica peculiare di Gesù, nell'idea 'ontologica' della sua origine divina. E su tale mitico tracciato sarebbe poi proseguita la fede dell'antica chiesa sino a fissare il tutto definitivamente nel dogma di Calcedonia, col suo concetto di Gesù ontologicamente figlio di Dio. Da questo concilio, con l'idea dell'origine ontologica di Gesù da Dio, tale mito sarebbe stato dogmatizzato e contornato di astrusa erudizione, sino al punto da elevare infine questo mitico asserto a parola d'ordine dell'ortodossia, capovolgendo così definitivamente il punto di partenza.
Tutto ciò, per chi pensa con mentalità di storico, è un quadro assurdo, anche se oggi trova schiere di gente che vi crede. Per parte mia, confesso candidamente, anche prescindendo dalla fede cristiana e basandomi solo sulla mia familiarità con la storia, di essere più facilmente disposto a credere che Dio si sia fatto uomo, anziché ad ammettere che un tale conglomerato di ipotesi colga nel segno. Non possiamo purtroppo permetterci, nel quadro qui tracciato, di addentrarci nei dettagli della problematica storica: ciò richiederebbe un'indagine assai vasta e minuziosa. Dobbiamo invece (e possiamo anche) limitarci al punto decisivo, attorno al quale tutto ruota: l'asserita figliolanza divina di Gesù. Quando ci si accinge all'opera con cautela di linguaggio, senza mescolare alla rinfusa tutto ciò che si vorrebbe volentieri veder collegato, in merito alla nostra questione si possono fare le constatazioni che seguono. (…) (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, Queriniana, psgg. 188-196; 203-206


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Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
(Κ. Καβάφης)
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