In Giudea, l'unica persecuzione «statale» che la Chiesa subì dopo il processo di Stefano e prima del 62, si verificò nel periodo in cui la regione fu affidata ad un re locale, Erode Agrippa I, tra i1 41 e il 44, e sottratta al governo romano: il re «colse l'occasione», fece uccidere di spada Giacomo fratello di Giovanni e «visto che ciò faceva piacere ai Giudei» fece arrestare Pietro (At 12,1-3). Gli Atti raccontano che Pietro, liberato miracolosamente dal carcere, «se ne andò in un altro luogo» (At 12,17). Frase che lì per lì, da sola. Lascia alquanto interdetti e ci si chiede perché è stata scritta visto che di primo acchito non vuol dire nulla. Ho già sostenuto in uno dei miei post a Barnaba che in realtà qui si parla del viaggio dell’apostolo a Roma, e con solidi argomenti sia biblici che patristici.
In uno studio recente F. Grzybekl, riprendendo una proposta del Thiede, ricorda che i commentatori antichi e moderni vedono in questo «altro luogo» Roma ed accosta questa espressione a quella identica di Ezechiele 12,3 e 12,13 in cui, «un altro luogo» è Babilonia. Il nome di Babilonia per indicare Roma torna nei saluti finali della 1Pt 5,13, inviati ai Cristiani dell'Asia Minore dalla «comunità degli eletti che è in Babilonia, insieme a Marco, mio figlio». Lo Grzybek spiega che qui non si tratta, come nell'Apocalisse, di una designazione simbolica di Roma, ma di un crittogramma: come Pietro nella sua lettera, così Luca negli Atti, ricorre al medesimo stratagemma per non svelare la presenza e la venuta di Pietro a Roma. Ora non occorre concordare con Grzybekl nel pensare ad un crittogramma per proteggere Pietro, infatti usare un nume simbolico può essere fatto anche perché è un modo di dire conosciuto.
Agrippa I morì nel 44 e questo è il
terminus ante quem per la partenza per Roma di Pietro; la data del 42 per l'arrivo dell'Apostolo a Roma si trova nella traduzione latina di Gerolamo del Chronicon di Eusebio, ma le testimonianze più importanti, riferite dallo stesso Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica, sono quelle di Papia di Gerapoli (vissuto fra l'ultimo quarto del I secolo e la prima metà del II), di Clemente di Alessandria e di Ireneo, ambedue della seconda metà del II secolo. Vale a dire che giacché quel “Pietro se ne andò in un altro luogo” parla di un episodio avvenuto sotto Agrippa I, che ricordo imperversò dal 41 al 44, questo coincide magnificamente con la prima venuta di Pietro a Roma nel 42 tramandata dai Padri. La testimonianza di Papia è conservata da Eusebio in due citazioni distinte: nella prima (H.E. 11,15), dopo aver detto che Pietro predicò a Roma all'inizio del regno di Claudio e che i suoi ascoltatori chiesero a Marco di mettere per iscritto l'insegnamento che avevano ascoltato a voce e che essi furono così responsabili (
aitious) della stesura del Vangelo detto di Marco, osserva: «Dicono (
phasi) che Pietro, avendo conosciuto il fatto per rivelazione dello Spirito (apokalypsntos auto tou pneumatos), godette dell'entusiasmo di quegli uomini (
te ton andron prothymia) e confermò lo scritto facendolo leggere nelle chiese (
kyrosai te ten graphen eis enteuxin tais ekklesiais». Ed Eusebio aggiunge che la vicenda è raccontata da Clemente nel VI libro delle Ipotiposi e da Papia vescovo di Gerapoli. La seconda citazione di Papia è invece testuale (III,39,15): «Marco interprete di Pietro scrisse con esattezza (
akribos) le cose che ricordava, ma non in ordine (ou mentoi taxei), ciò che il Signore aveva detto e fatto. Egli infatti non aveva udito il Signore né lo aveva seguito, ma più tardi, come ho detto, aveva accompagnato Pietro. Egli dava gli insegnamenti secondo i bisogni, ma non come se facesse una raccolta sistematica dei discorsi del Signore. Cosicché Marco non sbagliò (
ouden emarten), avendo scritto alcune cose così come le ricordava».
Qui Papia sembra voler rispondere alle critiche fatte ai suoi predecessori da Luca nel prologo del suo Vangelo: lo rivela la ripresa quasi testuale di alcune parole (Lc. 1,3:
akribos... kathexes), con cui Papia vuole giustificare il «disordine» di Marco, che (diversamente da Luca, consapevole del metodo storiografico greco e delle sue esigenze) non aveva la pretesa di
anataxasthai diegesin peri ton pragmaton, ma solo di dare
tas didaskalias secondo i bisogni e come ricordava, preoccupandosi solo di non tralasciare nulla di ciò che aveva udito e di non falsificare nulla.
Anche la testimonianza di Clemente è conservata da Eusebio in due citazioni. La prima l'abbiamo già vista; la seconda (VI,14,6), che Eusebio attinge allo stesso passo delle Ipotiposi, sembra parzialmente diversa: «Avendo Pietro proclamato pubblicamente
demosia(i) la Parola a Roma... i presenti che erano molti, invitarono Marco, che lo accompagnava e che ricordava le cose che aveva detto, a metterle per iscritto. Egli lo fece e consegnò il Vangelo a quelli che lo chiedevano. Pietro conosciuto il fatto
protreptikôs «non lo impedì né lo incoraggiò». Al posto dell’oscuro protreptikôs (in modo da persuadere), si è soliti pensare ad un errore del copista e leggere
pneumatikôs (per ispirazione dello Spirito)
Dello stesso passo del VI libro delle Ipotiposi ci è giunta, per via indipendente, questa volta in latino, un'altra citazione (cfr. 9 Staehlin): Marcus, Petri sectator,
praedicante Petro, evangelium palam coram quibusdam Caesarianis equitibus et multa Christi testimonia proferente, petitus ab bis, ut possent
quae dicebantur memoriae commendare, scripsit ex his, quae
a Petro dicta sunt, evangelium, quod secundum Marcum vocitatur. Anche qui dunque una memoria di una predicazione catechetica estesa di Pietro a Roma.
Come capita spesso nelle citazioni, quando sono fatte a memoria, anche questa contiene delle varianti; ciò che sembra con certezza attestato nel testo originale è che secondo Clemente la predicazione fu pubblica [
[palam, demosia(i) ] e che fu stesa su richiesta dei Romani (dopo che Pietro non era più presente a Roma, ma era ancora vivo) e che egli fu informato di tale stesura. La memoria di Eusebío sembra invece più incerta sull'atteggiamento di Pietro: secondo la prima citazione egli ebbe piacere della messa per iscritto del Vangelo e lo fece diffondere nelle Chiese; secondo la seconda citazione, invece, egli non la incoraggiò, ma neppure l'impedì. Su questa presunta differenza si tornerà in seguito. Infine in ambedue le citazioni Eusebio non si preoccupa di identificare gli ascoltatori romani di Pietro e si limita a dire che erano molti (VI,14,6: pollous ontas); nella citazione latina, invece, si parla di cesariani e di cavalieri.
Oltre a Papia e a Clemente anche Ireneo (Adv.Haer, III,1,1 cfr. Eus.H.E.V,8,3) ricorda che Matteo aveva scritto il suo Vangelo, mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e osserva che
meta ten toutôn exodon, cioè dopo la partenza degli apostoli, Marco, discepolo e ermeneutes di Pietro trasmise anche lui per iscritto
to upekeinou keryssomenon euanggelion. Ireneo, associando la predicazione di Pietro e di Paolo si rivela sui fatti più generico e meno preciso di Papia e di Clemente; il termine
exodus, inoltre, aveva fatto pensare che egli collocasse il Vangelo di Marco dopo la morte di Pietro e di Paolo. Ma exodus, come è stato dimostrato alcuni anni fa, non significa in Ireneo morte, ma partenza (e tra parentesi è il primo significato del termini, morte sarebbe un senso figurato di “uscita” dal mondo). Secondo Ireneo, dunque, Marco e Luca, di cui si parla subito dopo, scrissero i loro Vangeli seguendo rispettivamente la predicazione di Pietro e Paolo, e dopo la partenza dell'uno e dell'altro da Roma. Così intesa la notizia di Ireneo, per quel che riguarda Marco, conferma pienamente la notizia che Eusebio ricava da Papia e da Clemente, secondo cui il Vangelo di Marco fu scritto a Roma, mentre Pietro era vivo, ma dopo la sua partenza. L'identificazione di un frammento papiraceo in lingua greca scoperto nelle grotte di Qumran (l'ormai famoso 7Q5) con un passo del Vangelo di Marco (6,52/53), la datazione di questo frammento in base ad un'analisi della scrittura, fatta quando non si pensava affatto di trovarsi davanti ad un passo del Nuovo Testamento, agli anni prima del 50 d.C., la provenienza del frammento da Roma suggerita dalla presenza, nella stessa grotta, di un coccio di giara con una scritta semitica indicante Roma, hanno stimolato, nonostante le molte contestazioni, la ricerca storiografica che, accogliendo l'identificazíone come utile ipotesi di lavoro, ha riesaminato il problema della prima venuta di Pietro a Roma e la formazione della più antica comunità cristiana dell'Urbe, riconoscendo l'aderenza della scoperta relativa al frammento di Marco a testimonianze antiche e autorevoli come quelle di Papia e di Clemente, che l'ipercritica ottocentesca, ancora pienamente attiva quando si tratta di notizie relative al Cristianesimo delle origini, aveva a torto accantonato. Questa è una datazione molto alta per i Vangeli, e si scontra con l’idea prima espressa che una comunità che s’aspetta la fine imminente non si mette a scrivere testi per i posteri. Il problema però qui non sussite: il Vangelo di Marco non è progettato per un’esigenza ecclesiale di far sapere qualcosa alle future generazioni, bensì come uno strumento mnemonico per avere sempre con sé le parole di Pietro anche mentre questo s’era allontanato.
Una conferma della data molto antica della composizione del Vangelo di Marco ci è fornita dalla conoscenza che di esso sembra avere Petronio nel Satyricon, scritto nel 64/65 d.C.: le analogie quasi verbali riscontrate fra l'unzione di Betania ricordata da Marco (14,3) e l'unzione che, con un'ampolla di nardo, Trimalcione fa durante una cena che assume stranamente carattere funebre (Satyr.77,7
«putate vos ad parentalia mea invitatos esse») rivelano un intento parodistico, da parte del consigliere di Nerone, che si inquadra bene nel clima ormai persecutorio di quegli anni, ma che si può spiegare solo con una conoscenza del testo scritto: diversamente dagli accenni alla crocifissione, alla resurrezione e all'eucarestia, che Petronio e i suoi contemporanei pagani potevano apprendere dai
rumores e dalle notizie che la gente diffondeva sui Cristiani, l'unzione di Betania è un episodio più marginale e tale da sfuggire alle dicerie popolari.
Si è visto che, secondo il frammento latino di Clemente, la predicazione di Pietro si era svolta
coram quibusdam Caesarianis equitibus e che erano stati proprio questi a chiedere a Marco di mettere per iscritto le cose che Pietro aveva detto.
Anche il Vangelo di Luca sembra dedicato a un cavaliere:
kratistos, il titolo che egli dà a Teofilo, a cui dedica il suo Vangelo (1,4), corrisponde al latino
egregius ed è il titolo che spettava ai cavalieri romani. La lettera ai Romani 16,11 parla di fedeli nella casa di Narcisso, il più celebre dei liberti imperiali (Caesariani) del tempo di Claudio. Tacito pone nel 42/431a conversione a una
superstitio externa, che è certamente il cristianesimo (Ann.XIII,32), di Pomponia Graecina, moglie di Aulo Plauzio, che proprio nel 43 condusse per Claudio la spedizione in Britannia. Negli Atti di Pietro, un apocrifo asiatico della fine del II secolo, Pietro fu ospite a Roma in case di senatori, e, in particolare, in casa di un certo Marcello: vale la pena di notare che Marcello è il nome di colui che L. Vitellio - nella missione affidatagli da Tiberio a Gerusalemme nel 36-37, che culminò con il rinvio a Roma di Pilato e con la deposizione di Caifa (Flavio Giuseppe, Ant. XVIII,89ss.,95), e che, presumibilmente assicurò la pace ai Cristiani nelle regioni sotto il controllo romano (At 9,31) - aveva lasciato in Giudea per sostituire Pilato. Quello stesso L. Vitellio, che aveva avuto modo di occuparsi dei Cristiani negli anni dopo i135 per conto di Tiberio e che aveva probabilmente portato in Siria il nome Christiani, era nel 43 console e si trovava certamente a Roma, dove Claudio lo aveva lasciato con poteri straordinari durante la sua assenza in Britannía. Questo potrebbe spiegare l'interesse che una parte dell'aristocrazia romana provò nel 42/43 per la predicazione di Pietro: la richiesta rivolta a Marco, proprio da personaggi della classe dirigente, di mettere per iscritto ciò che avevano ascoltato a voce, potrebbe non essere nato solo da entusiasmo religioso, ma anche dal desiderio di valutare attentamente l'atteggiamento che la nuova «setta», che stava diffondendosi in seno al giudaismo (tale doveva apparire ancora il cristianesimo), aveva verso Roma.
Dobbiamo ora ricordare un piccolo fatto, il primo incontro di Paolo prigioniero nel 56 con i capi della comunità giudaica di Roma (At 28,17ss.).il fatto che i notabili della comunità giudaica di Roma abbiano risposto all'appello di Paolo prigioniero e si siano recati presso di lui, non deve sorprendere nessuno, se si tiene conto che a Gerusalemme Tertullo aveva presentato Paolo come il capo della setta dei Nazorei (i cristiani) e che Paolo stesso rassicura i suoi interlocutori dicendo di non essersi appellato a Cesare per accusare il popolo (ibi, 28,19).era dunque nell'interesse stesso dei capi della comunità giudaica di Roma di essere informati sulle prospettive di un processo che si sarebbe svolto a Roma e che avrebbe rischiato in qualche modo di coinvolgerli (per via della nota confusione tra giudei e cristiani che sono una setta dei primi). E' a questo punto che diventa interessante la loro affermazione secondo cui essi sanno
peri... tes aireseos tautes (il cristianesimo)
oti pantachou antilegetai (che questa setta è dovunque contrastata). Dovunque, ma non a Roma: ed essi chiedono a Paolo di informarli in proposito.
La dichiarazione dei notabili della comunità giudaica di Roma a Paolo rivela che nel 49 non c'era stato nessuno scontro fra Ebrei e Cristiani a Roma e che nessuno scontro era avvenuto fra le due comunità dal 42/43, quando la prima comunità cristiana era stata fondata, al momento dell'arrivo a Roma di Paolo, nel 56. La conclusione dell'incontro negli Atti rivela però che gli scontri cominciarono subito dopo e la stessa cosa conferma, con l'accenno al rinnovato slancio missionario della comunità romana e ai contrasti con esso collegati, la Lettera ai Filippesi (1,12ss.) scritta durante la prima prigionia romana di Paolo. Fu l'impostazione data da Paolo alla predicazione a cambiare la vita e lo stile della comunità romana: vale la pena di domandarsi perché, fino a quel momento, non ci fossero stati, a Roma, scontri con l'elemento giudaico.
Si è visto che, secondo le fonti cristiane del II secolo, la decisione di Marco di scrivere il suo Vangelo era venuta dalla richiesta degli ascoltatori romani di Pietro al tempo di Claudio: Clemente spiegava anzi che tra questi ascoltatori c'erano cavalieri e cesariani, Romani dunque di rango elevato e dell'ambiente della corte. Anche il Vangelo di Luca sembra indirizzato ad un cavaliere. Un ricordo dei rapporti avuti in Roma da Pietro con ambienti romani elevati è rimasto negli Atti apocrifi di Pietro, che appartengono alla fine del II secolo e che, pure in mezzo a particolari evidentemente leggendari, insistono sulla presenza di Pietro in case di senatori (Marcello cap. Vlllss. Nicostrato cap. XXVIII): prescindendo dalla leggenda, mi sembra che una conferma di questi rapporti venga dalla notizia già ricordata di Tacito (Ann. XIII,32) che colloca il mutamento di vita di Pomponia Graecina, proprio nel 42/43, col pretesto della morte di Iulia Drusi, la nipote di Tiberio, uccisa
dolo Messalinae. Sposata ad Aulo Plauzio, generale di Claudio, Pomponia apparteneva ad una famiglia che sin dal tempo di Livia era vicina alla corte imperiale. Fin dai primi anni di Claudio il Cristianesimo ebbe dunque a Roma una accoglienza ed una diffusione non solo negli ambienti giudaici della città, ma anche nell'aristocrazia romana: la comunità a cui Paolo si rivolge nella lettera ai Romani è una comunità composita, in cui sono certamente presenti Cristiani provenienti dal giudaismo e Cristiani provenienti dal paganesimo, ma in cui non sembrano esistere le tensioni violente che lacerano altre comunità; in cui il problema del rapporto fra legge e fede può essere affrontato in chiave teologica e non disciplinare, in cui la giustificazione che viene dalla fede e non dalla circoncisione può essere oggetto di una teorizzazione coerente e lucidissima come nella lettera ai Romani, e non di appassionati divieti come nella lettera ai Galati.
Il cap. 16 della lettera ai Romani, di cui non si disconosce ormai l'appartenenza alla lettera stessa, distingue nei saluti almeno cinque gruppi di Cristiani, probabili chiese domestiche: colpisce fra tutti l'accenno a
tous ek ton Aristoboulou (ibi, 16,10) cioè gli schiavi e i liberti di Aristobulo, figlio di Erode di Calcide, che nel 54, al momento della morte di Claudio, fu inviato da Nerone a governare la piccola Armenia (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, 11,13,252), e a
tous ek ton Narkissous tous ontas en kyrio(i) (ibi 16,11), cioè gli schiavi e i liberti del celebre Narcisso, liberto e collaboratore di Claudio, morte pochi mesi dopo di lui, verso la fine del 54.
La presenza nella comunità cristiana di Roma di questi cesariani e di personaggi vicini alla corte è confermata del resto dai saluti dei Cristiani «della casa di Cesare», trasmessi ai Filippesi da Paolo nella lettera a questi indirizzata (Paul. Phil. 4,22
oi ek tes Kaisaros). L'accoglienza che il cristianesimo ebbe a Roma sin dall'inizio in ambienti «ufficiali», tra schiavi e liberti imperiali, ma anche, a quanto sembra dal caso di Pomponia Graecina e dell'ignoto cavaliere Teofilo, amico di Luca, nella aristocrazia romana senatoria ed equestre, si accorda con l'estraneità di questa comunità alla vita della comunità giudaica locale, rivelata dalla dichiarazione dei notabili Ebrei di Roma a Paolo in Atti 28,17ss. Raccolti per le riunioni di culto nelle case che liberti imperiali e nobili convertiti o simpatizzanti e semplici fedeli avevano messo a disposizione, i Cristiani di Roma, di cui Paolo nella lettera ai Romani loda la fede nota in tutto il mondo (1,
, l’amore e la sapienza (15,14), si comportavano con molta riservatezza e prudenza nella loro propaganda religiosa: questo spiega a mio avviso la probabile assenza di conseguenze che ebbe per i Cristiani l'espulsione degli Ebrei da Roma decisa da Claudio nel 49, ma anche l'indiretto rimprovero che fa a loro Paolo nella lettera ai Filippesi (1,1214) quando parla dello slancio e dell'ardire che solo con la sua venuta aveva acquistato a Roma la predicazione cristiana.
Lo stile della comunità di Roma sembra corrispondere a quello che sappiamo dello stile petrino: Pietro era stato il primo, secondo gli Atti degli Apostoli (10,1ss.), a battezzare dei Gentili, nell'incontro col centurione Cornelio ed era stato ancora Pietro, al tempo del cosiddetto concilio di Gerusalemme, a parlare per primo per impedire che si imponessero ai Gentili convertiti al cristianesimo, la circoncisione ed altre pratiche giudaiche (At 15,7ss.). Tuttavia, dopo le decisioni di Gerusalemme, recandosi ad Antiochia (Gal II, 10ss.), si era comportato in maniera che Paolo aveva giudicato contraddittoria: finché non erano stati presenti gli inviati di Giacomo (
tinas apo Iakobou) Pietro aveva pranzato liberamente con i Gentili; quando quelli erano venuti si era appartato,
phoboumenos tous ék peritomes («per timore di quelli della circoncisione»). Quello che Paolo giudicò timore e rispetto umano fu probabilmente volontà di evitare scontri: il comportamento di Pietro rivelava che egli era ben consapevole che «Dio conoscitore dei cuori aveva reso testimonianza ai Gentili dando ad essi lo Spirito come a noi» (At 15,
e che lui stesso era stato scelto affinché, per la sua bocca
akousai ta ethne ton logon euanggeliou kai pisteusai («le genti ascoltassero il Vangelo e credessero»
ibi, 7), con un evidente ricordo non solo, forse, dell'episodio di Corinto, ma anche, a mio avviso, della sua prima predicazione romana: egli riteneva però opportuno, per motivi di prudenza e non di principio, pastorali si direbbe oggi e non teologici, evitare provocazioni e procedere con gradualità. Uno stile analogo a quello adottato verso gli Ebrei sembra essere stato adottato, nella primitiva comunità petrina di Roma, verso i pagani. è lo stile di Pomponia Graecina così coraggiosa da sfidare l'ira di Messalina e da suscitare l'ammirazione di Tacito, ma così riservata nella sua professione di fede da coprire per quarant'anni la sua conversione al cristianesimo con la motivazione ufficiale del lutto per un'amica.
Un ultimo rilievo, che ci riporta, anch'esso, alle caratteristiche petrine della prima comunità romana e alla sua grande antichità: è stato osservato da più parti (J. Daniélou) il carattere «giudaizzante» della antica chiesa di Roma, che non comportava peraltro il mantenimento della circoncisione e le osservanze rituali, sostenute da alcuni giudeo-cristiani del seguito di Giacomo, ma che è rivelato soprattutto dal modo di pensare presente in alcuni antichi scritti della cristianità romana, come il Pastore di Erma e le Lettere di Clemente romano. Uno scrittore del IV secolo, l'Ambrosiaster, dice che i Romani
susceperunt fidem Christi, ritu licet iudaico. (CSEL, LXXXI, Vienne 1966, pag. 6 ed, Vogels) Una caratterizzazione di questo tipo si capisce assai bene se cristianesimo di Roma deriva direttamente, in una data molto alta, da quello di Gerusalemme: esso rifletteva l'esperienza di Pietro, che senza pensare ancora ad un distacco dal giudaismo, aveva sperimentato, nella conversione di Cornelio, l'adesione e l'accoglienza nella fede li pagani, senza che essi fossero passati attraverso la circoncisione e le pratiche legali.
Queste caratteristiche del cristianesimo romano si ritrovano al tempo di Domiziano nelle accuse mosse agli aristocratici romani convertiti al cristianesimo di «ateismo e costumi giudaici». Il cristianesimo vincente a Roma non è dunque quello strettamente paolino ma quello petrino.
Si può approfondire ulteriormente la prima venuta di Pietro a Roma e il perché questa non venga citata negli Atti approfondendo la psicologia di Luca e il contesto socio-politico alle spalle del periodo interessato. Il papirologo luterano dell’Università di Ginevra C. P. Thiede nella sua ultima monografia su Pietro non solo ha dimostrato la perfetta compatibilità coi dati del Nuovo Testamento di una venuta di Pietro a Roma nel 42, ma ha anche accettato che sia stato vescovo di questa chiesa. Vale la pena di fare partecipe il pubblico del forum di alcune sue conclusioni raggiunte in “Simon Pietro dalla Galea a Roma”, Milano, 1999 pag. 228ss. Stralci di quest’opera si possono trovare anche on-line in questo sito:
www.storialibera.it/epoca_antica/vangeli_e_storicita/pietro_a_roma/simon_pietro_dalla_galilea_a_r...
Purtroppo il curatore della pagina web ha deciso si omettere le note a piè pagina, che invece spesso sono il fulcro del lavoro di uno storico che lavori con le fonti ma non vuole appesantire il testo principale. Per vostra fortuna ci sono io col libercolo originale in mano e dunque vi posso garantire che non vi perderete un solo dato (pagg. 228-235,258-260). Per la datazione alta dei Vangeli che Thiede propone ovviamente ci si rifà alla corrente che sta prendendo piedi da vent’anni, in Italia ad esempio con Paolo Sacchi, e che deve la sua messa a punto scientifica nelle opere di Robinson e di Carmignac. In particolare Thiede seguendo queste datazioni, che hanno il pregio di non rigettare le testimonianze dei Padri della Chiesa. Il papirologo è sostenitore della tesi secondo cui se Luca non menziona i viaggi di Pietro a Roma è per motivi di sicurezza, e francamente sebbene questa tesi sia possibile io ritengo che ciò sia invece dovuto a quando riporta il frammento muratoriano, cioè che Luca scrisse solo dei viaggi apostolici in cui era presente. Al contrario Thiede ritiene che se egli non accenna nemmeno alle peregrinazioni di Pietro fino alla sua ricomparsa in occasione del Concilio apostolico degli Atti 15, doveva avere delle buone ragioni. L'ipotesi che egli avesse perso interesse nel seguente ruolo di Pietro perché voleva favorire Paolo è troppo semplicistica, ed è in ogni caso contraddetta dal ruolo determinante che Pietro gioca negli Atti 15. E' comprensibile che Luca non voglia nominare il luogo (o i luoghi) dove Pietro si recò. Il motivo è lo stesso che causò l'omissione del nome di Pietro nel racconto di Luca e Marco (ripreso anche da Matteo) della mutilazione dell'orecchio del servo al Getsemani (in effetti dà da pensare di come sparisca stranamente il nome di Pietro). Scrivendo mentre Pietro era ancora vivo, e a un alto funzionario romano, Luca vuole evitare qualsiasi cosa che possa compromettere l'attività dell'apostolo nei confini dell'Impero romano. Luca sapeva dove era andato Pietro e dove si trovava nel momento in cui scriveva, ma rimase zitto. Anche Pietro cerca di essere vago a questo proposito, quando manda la sua prima lettera da Roma usando lo pseudonimo topografico di «Babilonia» al posto di Roma (1Pt 5,13). Ed è qui il problema: semplicemente un modo di dire tipico dell’epoca o una segretezza voluta? Come già detto propendo per la prima ipotesi ma anche così facendo è proprio l'uso di «Babilonia» che ci dà la chiave per identificare l'«altro luogo» di Luca.
Sebbene non si possa determinare quando Babilonia fu usata per la prima volta come crittogramma al posto di Roma, una tale identificazione è indiscutibile . La scelta di Babilonia (invece, per esempio, di Sodoma o Gomorra) era immediata poiché implicava sia il simbolo del potere e del male, dell'arroganza e della corruzione che sarebbero stati sconfitti dal Signore (cfr. Is 13,1-14,23), sia l'«esilio» della Chiesa cristiana nel centro del paganesimo. Ma qualunque fosse la somma di ragioni che indusse la scelta di Pietro, i suoi lettori sarebbero stati ben consapevoli dei riferimenti della Scrittura a Babilonia. Ce ne sono molti, ma uno è particolarmente illuminante: Ezechiele 12,1-13. Vi sono qui dei riferimenti all'«esilio», alla fuga da Gerusalemme a notte fonda (12,7) e a Babilonia (12,13). Anche se tutti questi elementi sono presenti in questo passo (che contiene, naturalmente, un significato e una profezia molto più ampi e complessi), tuttavia è un altro verso che offre la chiave all'«indovinello» di Luca: «(...) preparati a emigrare; emigrerai dal luogo dove stai verso un altro luogo», recita Ez 12,3. E di questa lettura di Thiede s’è già parlato nel post di Barnaba ma per chi non l’avesse letto ripropongo nuovamente il testo. La Bibbia dei Settanta usa l'espressione
eis heteron topon, la stessa usata da Luca per indicare la destinazione di Pietro. L'«altro luogo» di Ezechiele era Babilonia, e Babilonia è Roma.
I tempi erano maturi, pare, per l'uso simbolico di «Babilonia» per significare Roma fra i cristiani che vivevano o si trovavano nella capitale dell'Impero alla fine degli anni 50 o all'inizio degli anni 60, e i regni di Claudio e Nerone offrivano abbastanza materiale esemplificativo.
Prove testuali indicano quindi chiaramente che la destinazione di Pietro era Roma. Una conferma ulteriore proviene dalla storia della Chiesa, in un suggestivo particolare riportato da Eusebio e da Girolamo. Pietro arrivò a Roma durante il regno di Claudio, più precisamente nel secondo anno di regno, l'anno 42 (Eusebio, HE 2,14,6, con il
Chronicon ad loc, e Girolamo,
De viris illustribus 1, dove egli è il «soprintendente» o
episkopos per venticinque anni, cioè fino alla sua morte sotto Nerone) . Questo fatto è confermato dal
Catalogus Liberianus, del quarto secolo, un elenco di papi dall'inizio della diocesi romana fino a papa Liberio (352-66), e dal
Liber Pontificalis, pubblicato (nella forma conservata) nel sesto secolo (per la maggior parte si basa sul
Catalogus Liberianus, ma contiene alcune informazioni indipendenti e della varianti nei dettagli).
E' interessante notare che queste fonti datano dall'epoca in cui la Chiesa cominciò a catalogare la sua storia (non ce n'era stato evidentemente bisogno prima che acquisisse autorità ufficiale e sicurezza durante il regno di Costantino) . Ma è ugualmente degno di nota il fatto che queste fonti storiche in nessun caso contraddicano le informazioni o la plausibilità storica del Nuovo Testamento. Anche se è forse inevitabile una certa imprecisione nei particolari di secondaria importanza, lo schema generale e la successione delle date e dei dati coincidono perfettamente.
Pietro lasciò Gerusalemme subito dopo la fuga dalla prigione nell'anno 41 o 42. La seconda data concorderebbe anche con un ordine apocrifo di Gesù, strano e non molto plausibile, secondo il quale gli apostoli non avrebbero dovuto lasciare Gerusalemme per dodici anni: Atti di Pietro 2,5; Clemente Alessandrino,
Stromata 6,5,43 (che cita il perduto
Kerygma Petrou, «Predicazione di Pietro»); Eusebio, HE 5, 18,14 riconduce questa affermazione ad Apollonio, uno scrittore antimontanista (HE 5 18,1), ma precisa aggiungendo l'ironico commento
hos ek paradoseos, «come se per tradizione».
Pietro si dirige quindi verso Roma, ma non direttamente. Potrebbe avere visitato Antiochia, e forse molte città nell'Asia Minore (cfr. 1Pt 1,1; Eusebio, HE 3, 1,2), forse Corinto (cfr. 1Cor 1,12-14; 9,5: probabilmente una traccia della presenza di Pietro a Corinto con la moglie, che non fa altre apparizioni dirette nel Nuovo Testamento - cfr. Mc 1,29-31 - e muore da martire sotto gli occhi di Pietro, come riporta Clemente Alessandrino,
Stromata 7,63,3, ed Eusebio, HE 3,30,2). Nell'inverno del 42 arriva a Roma. Non fu il primo evangelizzatore ad arrivare in città (i romani citati negli Atti 2,10 avrebbero diffuso la buona novella prima di lui), ma fu il primo apostolo ad avallare e fondare ufficialmente la Chiesa. Il suo arrivo e l'inizio della sua opera è il punto di partenza del suo «episcopato», che, come quello ad Antiochia, continua anche durante la sua assenza, rimanendo egli il capo titolare o il «soprintendente» ufficiale.
L'importanza dell'opera di fondazione di Pietro a Roma è riconosciuta persino da Paolo, che ritardò la propria visita a Roma finché non poté includerla come breve tappa di passaggio nel viaggio verso la Spagna, perché non voleva «costruire su un fondamento altrui» (Rm 15,20 e 23-24). Ciò che Paolo dice, alla lettera, è che la «prima pietra» era già stata posta da qualcun altro, e apparteneva a costui. Non era una comunità anonima, ma una persona, che aveva posto questa pietra. I romani sapevano chi era costui: non c'era bisogno che Paolo menzionasse il suo nome in questo contesto; non è neppure il caso di supporre un atteggiamento anti-petrino a causa di questa “omissione”. A parte il fatto ovvio che Paolo non aveva bisogno di dire ai Romani che avesse fondato la loro Chiesa, non si può fare a meno di notare una certa idiosincrasia di Paolo nel citare i nomi in determinati contesti: cfr. 1Cor 1,14-16, dove egli non è del tutto certo di chi abbia battezzato a Corinto e persino si corregge; Romani16,3; 2Tm 4,19; mentre la Priscilla degli At 18,2, 18 e 26 e della 1Cor 16,19 ha perso il suo diminutivo ed è semplicemente “Prisca”(nella 1Cor 16,19, solo una minoranza di manoscritti riporta in effetti la variante Prisca, ma la testimonianza della maggioranza, in parte indipendente, corrobora la versione “Priscilla”); Galati 2,7-9 dove non sa decidersi se chiamare Pietro “Cefa” o “Pietro”; e Galati 1,19 e 2,9 , dove Giacomo è passato dall’ultimo al primo posto. E’ inutile dire che vi sono a volte dei buoni motivi, a volte no, per queste ricorrenze(si
potrebbe, ma non si
deve, argomentare, pe esempio, che nel caso Galati 2,9, Paolo voglia mettere in evidenza l’accresciuta autorità di Giacomo dopo la prima partenza di Pietro), ma, anche tenendo in considerazione questi casi particolare, anche un altro esempio, cioè l’omissione del nome di Pietro nella Romani 15,20, non assume alcun significato. e Quando Paolo scrive che non vuole «costruire su un fondamento altrui», a parere di molti stava appunto alludendo al lavoro fatto da Pietro prima di lui nella comunità giudeo-cristiana del luogo alla luce dell’accordo di Gal 2,7 secondo cui a Cefa era stata affidata l’evangelizzazione dei giudei.
Paolo aveva tutte le ragioni per riconoscere la preminenza di Pietro a Roma: la sua priorità si manifestava nella missione fra i pagani (cf. Gal 1,16; 2,7-9), e la comunità di Roma cui si rivolgeva era decisamente ebrea, anche se in prevalenza di lingua greca.
Era questo, in effetti, il «terreno di caccia» ideale per un uomo con l'esperienza di Pietro, piuttosto che quella di Paolo. Grazie alla sua opera rivoluzionaria in Cesarea, Pietro era pronto a entrare in contatto con i romani (Cornelio potrebbe persino avere ricambiato l'insegnamento di Pietro informandolo sulla situazione a Roma e sulla mentalità dei romani), ma la sua esperienza fino a quel momento si era formata con gli ebrei e i sostenitori degli ebrei, pagani «timorati di Dio» (proprio il genere di persone che avrebbe incontrato e che lo avrebbe bene accolto al suo arrivo a Roma). Con una popolazione ebraica di circa cinquantamila persone (per la cifra J. Juster, Les juifs dans l’empire romain, pag. 209-210), inclusi i timorati di Dio e i proseliti pagani, c'era molto lavoro da fare. Persino al tempo della Lettera di Paolo ai Romani, nell'anno 57, quando le comunità si erano ricostituite dopo la morte di Claudio e la fine definitiva delle espulsioni, l'elemento giudeo-cristiano era ancora più forte e più importante di quello strettamente pagano-cristiano (cfr. Rm 1,16; 2,9-10; 7,1; 11,13-21). Il semplice fatto, tuttavia, che ci fosse un considerevole gruppo di pagani (cfr. Rm 1,13-15) dimostra ancora una volta l'intento di Pietro di svolgere anche la missione fra i pagani.
Pietro non era solo a Roma. Marco andò con lui o direttamente dalla casa della madre o lo raggiunse non molto tempo dopo: per quanto concerne la cronologia degli Atti, la presenza di Marco a Gerusalemme non era più richiesta già da quando Paolo e Barnaba lo portano con loro ad Antiochia (At 12,25) nel 46, dopo la «visita per la carestia». Inoltre, sentiamo parlare di lui come interprete di Pietro (come scrive Papia), e se Pietro bilingue dall'infanzia (cfr il testo di Thiede sul bilinguismo in Galilea da me citato nel precedente post a Barnaba), ebbe mai bisogno di un interprete per risparmiare alle sensibili orecchie dei romani l'affronto del suo rozzo greco non colto, che si combinava con uno scoraggiante accento di Galilea, questo accadde all'inizio del suo primo soggiorno, piuttosto che verso la fine del secondo, o forse l’interprete serviva per via del latino. Eusebio (HE 6,14,6, citando l'opera perduta di Clemente Alessandrino,
Hypotyposeis), nota che Marco aveva seguito Pietro per molto tempo, un'allusione al lungo rapporto fra i due, del quale 1Pietro 5,13, dove Pietro chiama Marco figlio suo, non è l'inizio, ma il punto culminante. Sebbene nessuna delle fonti affermi in così tante parole che Marco rimase con Pietro a Roma dal 42 in poi, le prove raccolte suggeriscono questa possibilità più di qualsiasi altra.
Se si volesse datare la catechesi orale petrina che Marco trascrisse non con la seconda venuta di Pietro a Roma ma con la prima, allora il ritorno di Marco a Gerusalemme entro il 46 coincide con un altro dato: la scrittura del suo Vangelo. Thiede ha sostenuto con prove papirologiche e storiche che il Vangelo doveva essere datato a prima dell'anno 50, una conclusione cui portano anche prove indipendenti non papirologiche raccolte dal già citato Robinson. All’interno di questo paradigma la data più plausibile, considerando ciò, sarebbe da collocarsi fra la partenza di Pietro da Roma (subito dopo la morte di Erode Agrippa nel 44, quando poté programmare senza grossi rischi un ritorno in Palestina; la cronaca di Eusebio lo vede ritornare, via Antiochia, nel 44) e l'arrivo di Marco a Gerusalemme nel 46 al più tardi. Questa corrispondenza fra le prove papirologiche e quelle storiche ha inoltre il vantaggio di essere corroborata da commenti, altrimenti di difficile interpretazione, dei Padri della Chiesa. Tuttavia per chi non segue Thiede in questa sua analisi, che non è riuscita a scalzare la cronologia tradizione la quale pone il Vangelo di Marco negli anni 60’, ma benissimo che l’uscita di Pietro da Roma cui alludono le fonti sia la seconda. Non starò certo a fare la predica ai sostenitori di questa ipotesi visto che sono la maggioranza e a me è indifferente quale delle due sia corretta, resta il fatto che da una fonte del I secolo come Papia abbiamo la testimonianza di una predicazione romana di Pietro da cui addirittura venne fuori un Vangelo, quindi niente “toccata e fuga”.
Ireneo, che conosceva la nota di Papia, è il primo a commentare i Vangeli dopo di lui. Egli inizia con l’affermazione già commentata secondo cui Pietro e Paolo fondarono la comunità di Roma, con la traduzione di themelioo usata allo stesso modo in cui viene impegata in 1Pt 5,10, dove significa «rafforzare», «confermare»; in questo senso, l'affermazione di Ireneo è naturalmente vera sia per Pietro sia per Paolo.
Riferendosi all'epoca in cui Matteo scriveva il suo Vangelo «fra gli ebrei» «nella loro stessa lingua», egli afferma che Marco, il discepolo e l'interprete di Pietro, trascrisse su carta il suo insegnamento dopo la loro (cioè di Pietro e di Paolo) “morte” (Haer. 3, 1,1), e s’è visto di come questo sia problematico per exodos è solo “morte” quando è usato in senso figurato. La traduzione con morte non èsopportata dalla affermazione precedente di Papia. Papia dice semplicemente che Marco aveva scritto accuratamente tutte le cose così come le ricordava (
hosa emnemoneusen akribos egrapsen). Ma ricordare l'insegnamento di qualcuno certamente non presuppone la morte di costui (sarebbe sufficiente la sua partenza, e questo è precisamente ciò che dice Ireneo).
Exodos può naturalmente significare «morte» (come nel Nuovo Testamento: Lc 9,31; probabilmente 2Pt 1,15). Innanzitutto, però, la parola greca ha il semplice significato di partenza/uscita, dai tragici greci fino all'Antico Testamento in greco, dove viene usata a proposito della partenza degli israeliti dall'Egitto nel secondo libro del Pentateuco, che non a caso si chiama Esodo (cfr. Sal 104,38; 113,1; Eb 11,22 et al.). Il significato «morte» è un significato acquisito, di alto valore simbolico, ma il suo uso in questo senso deve risultare ovvio dal contesto diretto (una condizione chiaramente presente in Lc 9,31, ma non altrettanto inequivocabile in 2Pt 1,15). E poiché la fonte (o le fonti) di Ireneo non presuppone o implica la morte di Pietro, non dovremmo interpretare così il suo testo . Pietro è partito da Roma prima che Marco scriva il suo Vangelo: questo è tutto ciò che vuole dire.
Questo è completamente compatibile con i commenti di Origene e di Clemente Alessandrino. Origene dice che Marco scrisse come Pietro l'aveva istruito o gli aveva insegnato (
hos Petros hyphegesato auto, Commentario al Vangelo di Matteo, citato in Eusebio, HE 6, 25,5). Questo significa che egli seguì l'esempio posto dal metodo e dai contenuti della predicazione di Pietro. Infine, Clemente ricorda che Marco, che era stato compagno di Pietro per molto tempo, fu sollecitato dai cristiani (romani) a trascrivere ciò che Pietro aveva detto, e così fece. La reazione di Pietro fu neutrale: «Egli né impedì né incoraggiò ciò» (
mete kolusai mete protrepsasthai: Hypotyposeis, in Eusebio, HE 6, 14,7).
E qui veniamo alla spiegazione di un nodo cruciale che avevamo anticipato all’inizio del messaggio. In un altro passo, parafrasando il resoconto di Clemente, Eusebio conclude con una nota differente: Pietro era contento, egli scrive, e ratificò l'opera perché fosse studiata devotamente nelle chiese (HE 2, 15,2). Queste due affermazioni, naturalmente, non si escludono a vicenda: mostrano piuttosto un progresso da un inizio cauto, quando Pietro ancora predicava, al momento in cui l'opera era stata stesa nella sua forma finale. Il verso di 2 Pietro 1,15 potrebbe riflettere quest'ultimo stadio, la ratifica e la raccomandazione del Vangelo. Non si dovrebbe dare troppa importanza al fatto che nella versione parafrasata (HE 2,15,2) lo Spirito informa Pietro su ciò che era stato fatto: il testo è semplicemente un modo di dire per affermare che lo Spirito fece capire all’apostolo ciò che era stato ottenuto, cioè gli fornì delle buone ragioni per passare dalla neutralità a un aperto incoraggiamento nel momento opportuno. E’ Eusebio stesso a darci le due testimonianza e non era uno stupido, se i due racconti erano in evidente contrasto, sarebbe stato il primo a notarlo. Se non lo fa è perché a differenza dei critici moderni che partono sempre da presunzioni colpevolezza, egli ne sapeva più di noi. Troppe volte nella ricerca storica apparenti contraddizioni nelle fonti si sono sciolte come burro una volta saltate fuori altre fonti che chiarivano un contrasto che prima pareva insanabile. A causa della nostra ignoranza, della presunzione di giudicare in base al poco materiale che ci rimane, troppe volte abbiamo attribuito errori agli antichi quando invece l’unico problema era la nostra cieca ignoranza che non ci permetteva di capire il discorso per mancanza di dati. Quante volte per fare un esempio si sono accusati gli evangelisti di non conoscere la geografia di Gerusalemme e di descrivere spostamenti irreali quando poi il piccone dell’archeologia a portato alla luce uno ad uno tutte le cose di cui avevano parlato e che nella mente dei nostri ipercritici erano invece favole? Troppe volte la piscina dei cinque portici di Giovanni è stata trasformata in boiate come un’allegoria delle cinque dita di YHWH o chissà che altro, e ci sono voluti gli archeologi per buttare nel dimenticatoio i volumi dei critici di metà novecento che non erano mai usciti dalle loro biblioteche universitarie per paura che i sassi della Terra Santa potesse smentirli. La lezione della storia del metodo è che prima di accusare gli antichi siamo a noi a doverci fare un esame di coscienza. Tra l’altro faccio notare
en passant che il fatto che gli evangelisti, ed in particolar modo giovanni, conoscano così bene la geografia gerosolimitana del I secolo è una prova che abbiamo davanti testi scritti da gente che è vissuta nella città prima del 70. Né c’era bisogno di dubitarne per gente come Marco o Giovanni, visto che da tutta una serie di riferimenti incrociati con la letteratura paolina di prima del 70 e con la patristica dei primi due secoli sappiamo perfettamente chi erano e a quale cerchia appartenevano: ruotavano tutti intorno alla cerchia apostolica dei dodici e ne erano collaboratori. Ma perché parlo dell’archeologia? Sappiamo che Gerusalemme fu incendiata e rasa al suolo due volte, nel 70 e nel 135, sopra di essa fu costruita una nuova città pagana che stravolgeva il trattato geografico della precedente, Aelia Capitolina, dove fu addirittura proibito agli ebrei di entrare. I Vangeli in molte parti dimostrano di conoscere la geografia di com’era Gerusalemme prima del 70, e alcuni edifici di cui parlano, come il Litostroto o la piscina dai cinque portici, che per secoli erano stati interpretati come simbologie mitiche perché senza riscontro archeologico, sono effettivamente saltati fuori con gli scavi degli ultimi decenni, ciò dimostra che l’autore conosceva Gerusalemme prima della sua distruzione e che non si tratta di creazioni tarde (ma ormai chi lo crede più alla favola delle creazioni tarde? Le datazioni canoniche dell’accademia vanno dal 64 al 100, quelle che stanno prendendo piede ultimamente vanno a date ancora più alte, verso gli anni 50. E’ una tendenza ormai stabilita, le datazioni universitarie standard potranno al massimo diventare più antiche e non certo più recenti).
Ad maiora
---------------------
Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
(Κ. Καβάφης)