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L'autorità romana

Ultimo Aggiornamento: 14/02/2007 15:53
20/01/2007 15:43
 
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Caro Luigi,

Io non sono "testardo" ma "uso la mia testa", non devo per forza leggere oltre le righe per salvare la mia fede, mentre tu sei costretto a credere che Pietro sia stato a Roma e che vi abbia fondato la chiesa.

Detto questo Andrea non ha torto a dire che vi sono fonti che affermano che la permanenza di Pietro a Roma fosse breve:

1. La mia analisi sul NT (che tu ovviamete ignori) in cui emerge che lo spazio di tempo in cui Pietro potrebbe essere stato a Roma è assai limitata, certo dopo il 63-64 EV e se la 2 a Timoteo è autentica (come ritiene Girolamo) non oltre il 65-66 EV dunque circa un anno.

2. La dichiarazione di Porfirio (m. 304 EV) riportata da Macario di Magnesia secondo cui Pietro sarebbe stato ucciso "dopo aver pascolato il suo gregge solo per pochi mesi" (fram. 22, III, Apocriticus). comeho già detto Harnack la trova interessante poichè va contro corrente rispetto alle molte descrizioni leggendarie del IV secolo.

Mi sembrano due fonti che non possono essere ignorate, soprattutto a fronte a tradizioni poco chiare circa la reale presenta (tempi e modi) di Pietro a Roma.

Shalom

[Modificato da barnabino 20/01/2007 15.44]

20/01/2007 16:42
 
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Re:
Per barnabino:


Senti non ti offendere, ma nei tuoi ragionamenti sei strano, e non lo dico perchè non sei d'accordo in questa discussione, ma in quanto lo scorgo dai vari post che scrivi anche in altre discussioni.
Prima dici che condividi le principali dottrine del CD, poi ti si dice di elencarci le dottrine secondarie che non condividi col CD, e te ne esci che condividi tutto, boh!

Qui sei l'unico tra quelli che sono intervenuti che non credono che Pietro è stato a Roma,
e poi te ne esci con queste parole qui sotto:


Detto questo Andrea non ha torto a dire che vi sono fonti che affermano che la permanenza di Pietro a Roma fosse breve:



Se per te Andrea non ha torto:

Primo: significa che in altre parole ha dato torto a te che hai sempre sostenuto che Pietro non venne a Roma.

Secondo: debbo ritenere per vero fonti del IV sec solo perchè così le ritiene un "protestante", dove poi Polimetis ti ha fornito fonti di tutti i secoli I, II, III etc.

Voglio dire se ci deve essere un dialogo siamo seri altrimenti ....



Io non sono "testardo" ma "uso la mia testa", non devo per forza leggere oltre le righe per salvare la mia fede, mentre tu sei costretto a credere che Pietro sia stato a Roma e che vi abbia fondato la chiesa.



Io barnabino al contrario di te che sei veramente costretto dal CD e questo non lo dico solo io, ma almeno il 95% del forum te lo ha detto, dico non sono costretto da nulla,
intanto quanto è appurato dal 99% dei teologi che Pietro fu a Roma.


1. La mia analisi sul NT (che tu ovviamete ignori) in cui emerge che lo spazio di tempo in cui Pietro potrebbe essere stato a Roma è assai limitata, certo dopo il 63-64 EV e se la 2 a Timoteo è autentica (come ritiene Girolamo) non oltre il 65-66 EV dunque circa un anno.



La tua analisi, io non la voglio ignorare, ma sei tu a fartela ignorare.

Incomincia con umiltà come c'insegna il Maestro ad accettare che in fin dei conti la storia, dico non la totalità ma la stramaggioranza ci dice Pietro a Roma, e poi di conseguenza valuteremo e qui includo anche Andrea, se Pietro è stato solo per un fine settimana a Roma (a tanto si sta riducendo, permettetemi, ma lo si deve ancora accertare) o qualche cosa in più.


20/01/2007 18:21
 
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Caro Luigi,


Prima dici che condividi le principali dottrine del CD, poi ti si dice di elencarci le dottrine secondarie che non condividi col CD, e te ne esci che condividi tutto, boh!



Ti ripeto Luigi, sei tanto legato alla concezione cattolica da non riuscire a capire. I TdG non hanno dogmi in senso cattolico, non si aderisce alla nostra religioen per nascita, ma vi si aderisce dopo averla conosciuta. Se vi fossero state dottrine su cui non ero d'accordo non mi sarei battezzato. Ti è chiaro il concetto?

Sugli insegnamenti secondari non si tratta di "essere d'accordo" o meno, poichè non sono di per sè normativi, sono lasciati, come ti ho già detto, alla scelta della propria coscienza e intelligenza. Spero ti sia chiaro il concetto.


Qui sei l'unico tra quelli che sono intervenuti che non credono che Pietro è stato a Roma



Non si tratta di "credere" per un atto di fede, ma di capirlo dao documenti. Scusami ma di fronte al silenzio totale del NT affermazioni frammentarie e generiche scritte oltre 100 anni dopo possono essere indizi ma non prove.


significa che in altre parole ha dato torto a te che hai sempre sostenuto che Pietro non venne a Roma.



Guarda che se uno la pensa in maniera diversa da me non significa che sia stupido o dica tutto sbagliato! A mio parere ipotizzando una presenza di Pietro a Roma le fonti più antiche non possono che farci pensare ad una permanenza breve. Tu hai fonti che indicano una permanenza molto lunga?


debbo ritenere per vero fonti del IV sec solo perchè così le ritiene un "protestante",



E io le debbo ritenerle vere perchè me lo dice un papista? Dai, non facciamo questioni su queste stupidaggini. La fonte, per Harnack, è credibile perchè pur riportata da un cristiano non segue la tendenza celebrativo/leggendari che si stava manifestando. Diciamo che a livello storico è da preferire questa tendenza "minimalista" piuttosto che quella all'esagerazione.

Inoltre, come ho mostrato, l'ipotesi coinciderebbe con i tempi possibili lasciati aperti dal resoconto degli atti e dal confronto tra le varie epistole da cui possiamo in qualche modo dedurre gli spostamenti di Paolo e Pietro.


Polimetis ti ha fornito fonti di tutti i secoli I, II, III etc.



Si scrive "polymetis". In tutti i casi in quelle fonti non si dice molto della presenza di Pietro a Roma, le notizie sono molto generiche e permettono ogni lettura:

Ascensione di Isaia (90?-140?): non si dice nulla, se non che "uno dei Dodici sarà dato in sua [Nerone] mano" senza menzionare neppure il nome di Pietro, perchè rimanere sul vago se la tradizione era sicura? Cmq nessun accenno alla durata della sua permenenza o all'evangelizzazione.

Aniceto (156?): Disputa con Policarpo ma mentre Policarpo in Oriente si richiama alla "tradizione degli apostoli" Aniceto da Roma si richiama "alla consuetudine dei presbiteri" senza richiamarsi all'autorità di Pietro come uno di essi.

Giustino Martire (100-165): pur risiedendo a Roma e menzionando Simone Mago non menziona l'intervento di Pietro a Roma.

I Clemente (100): Non dice che Pietro fosse a Roma, dice solo che Pietro soffrì molte aflizioni per ingiusta gelosia e col martirio raggiunse il posto della gloria. Si può ritenere una prova della presenza e morte di Pietro a Roma? Io ne dubito molto, ma tu sei costretto crederlo.

Ignazio (110?): "non vi ordino [diatassomai] come Pietro a Paolo". Solo in questo passo si potrebbe evincere che Pietro (insieme a Paolo) "ordinasse" o "dirigesse" i Romani. Ma come lo fece? Per quanto tempo? Di persona oppure per lettera, come in quel momento Ignazio?

Papia di Gerapoli (140-160) citato da Eusebio dice che Pietro scrisse a Roma la I lettera ma non dice che predicò ai romani nè specifica il tempo della sua permanenza a Roma.

Solo nel 170 Dionigi dice esplicitamente che Pietro e Paolo avrebbero fondato, insegnato insieme e reso testimonianza a Roma e Corinto. Di nuovo, le fonti sono piuttosto incerte, solo dal 170 in poi si dice in maniera chiara che Pietro insegnò a Roma, benchè non si parla di lui come di Vescovo o Presbitero di quella città. Notizie frammentarie scritte un secolo dopo i fatti. Quanto sono attendibili?


Io barnabino al contrario di te che sei veramente costretto dal CD e questo non lo dico solo io, ma almeno il 95% del forum te lo ha detto



No, tu sei costretto dalla tua tradizione, se negassi che Pietro è mai stato a Roma come giustificheresti l'autorità della tua chiesa? A me che Pietro sia stato a Roma oppure non ci si stato non cambia di una virgola la mia fede, la tua invece?


La tua analisi, io non la voglio ignorare, ma sei tu a fartela ignorare



[SM=g27991]


Incomincia con umiltà come c'insegna il Maestro ad accettare che in fin dei conti la storia, dico non la totalità ma la stramaggioranza ci dice Pietro a Roma



Nella mia disanima ho appunto ipotizzato che vi sia stato, per cui mi pare che sia un appunto del tutto fuori luogo il tuo. Anche in questo caso in NT non lascia che una finestra molto stretta per la presenza di Pietro, appunto tra il 63 data in cui finiscono gli atti ed il 65-66 data in cui Paolo ritorna a Roma ed è incarcerato, la poniamo come limite perchè la II seconda a Timoteo (che la tua tradizione ritiene autentica) scritta a Roma che per facendo riferimento a Marco non accenna a Pietro, il che ci fa supporre che non fosse in città in quella data.

Shalom

[Modificato da barnabino 20/01/2007 18.34]

20/01/2007 20:16
 
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"Ignazio (110?): "non vi ordino [diatassomai] come Pietro a Paolo". Solo in questo passo si potrebbe evincere che Pietro (insieme a Paolo) "ordinasse" o "dirigesse" i Romani. Ma come lo fece? Per quanto tempo? Di persona oppure per lettera, come in quel momento Ignazio?"

Barnabino se leggi la mia analisi della lettera di Ignazio nel post precedente, potrei notare che Ignazio non intende affatto dire che Pietro insegnò ai romani, dai un'occhiata e fammi sapere.

Saluti
Andrea
20/01/2007 21:48
 
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Caro Andrea,


dunque Ignazio non può riferirsi al soggiorno romano di Paolo



In effetti Paolo a Roma era prigionero ma forse aveva un certo grado di libertà. Comunque non poteva dirsi "libero". Alcuni hanno ipotizzato che la "libertà" fosse la loro "morte" ma non è detto che questa si avvenuta a Roma per entrambi.


Inoltre Ignazio si giustifica premettendo che non vuole comandarli, ma come potrebbe comandarli un vescovo di un’altra chiesa ? Se lo esplicita significa che era possibile per vescovi di altre comunità dare delle direttive ad altre chiese, dunque anche Paolo e Pietro agirono presumibilmente in questo modo essendo oltretutto apostoli.



Cullmann chiarisce il senso della frase, dice. "io non vi dò oerdini come farei se fossi Pietro e Paolo". Ma gli ordini dati dagli apostoli sono quelli scritti e contenuti nelle lettere e negli Atti. Se sono scritti non presuppongono necessariamente di immaginare una presenza dei due apostoli a Roma.


Inoltre Ignazio era vescovo di Antiochia, se Roma fosse stata predominante, come avrebbe mai potuto Ignazio pensare di comandarli ? Ignazio sta parlando del modus operandi degli apostoli di impartire le loro direttive a tutte le chiese indipendentemente da quale chiesa fondarono o diressero, ecco perché parla di Pietro e Paolo lquali autorità di un certo rilievo e non per il fatto che avessero necessariamente insegnato a Roma in qualità di rettori della comunità, perché se così fosse Iganzio non avrebbe dovuto sottolineare il fatto che la sua lettera non era un comando ai romani.



Mi pare un ragionamento corretto, vedi sopra in che senso si parla di impartire i comandi.


In conclusione qui Ignazio dice semplicemente che non ha l’autorità che ebbero Pietro e Paolo in generale nella “grande chiesa” e non sulla comunità romana in particolare.



Il fatto è che se partiamo dal presupporto che la tradizione successiva è infallibile e storica siamo costretti a forzare il significato, di per sè molto generico delle frasi di Ignazio, quelle frasi possono dire tutto e niente.

Shalom
23/01/2007 12:34
 
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Caro barnabino non hai citato una sola fonte che confutava la non presenza di Pietro a Roma, a parte come di consueto, qualche tarocco.

Lo vedo come si scrive Polimetis e voglio scriverlo così.
01/02/2007 21:24
 
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Nota preliminare: alcuni tasti della mia tastiera si sono rotti, vanno un po’ sì e un po’ no, specie quelli della punteggiatura, quindi se mancano delle virgole o dei punti dovrete avere pazienza. Mentre è facile rilevare le parole in cui le lettere non si sono digitate perché word me le sottolinea, purtroppo non è così coi segni d’interpunzione. Ma veniamo a noi.
Dire che sono esasperato dalle sparate di Barnaba è veramente poco, vorrei solo ricordargli che quando si rivolge al sottoscritto con espressioni del tipo " vieni giù dal pero", o quando mi accusa di tradire la ragione per difendere i miei presunti dogmi, non sta insultando me ma qualunque filologo cattolico o protestante oggi vivente; di tutti evidentemente si ritiene superiore: è esasperante in che modo chiunque non abbia la sua posizione venga etichettato come una dogmatico acritico. Questo, se non se ne fosse reso conto, l'ha detto anche agli studiosi protestanti come K. Aland, e viene da chiedersi se anche lui debba scendere dal pero, e soprattutto da che pulpito Barnaba pretenda di poter fare una simile predica a tutto il mondo accademico, lui che ignora sia il latino sia il greco, lui che evidentemente è il solo depositario del metodo storico-critico. Sono stufo delle mezza verità, delle citazioni tarocche, delle falsità. È esasperante soprattutto come pretenda di aver ragione, non rendendosi evidentemente conto che lui e i suoi quattro amici settari sono i soli su questa terra a ritenere ancora che Pietro non sia mai stato a Roma, e ancora più esasperante è vedere come non risponda più alle mie argomentazioni. La prossima volta che oserà rivolgersi a me con frasi del tipo “vieni giù dal pero” non dovrei censurarlo per insulti personali ma per insulto alla casta, cui lui non appartiene e non si rende conto di non appartenere, e sopratutto non si rende conto che etichettare come ignorante il prossimo è esclusiva competenza di chi abbia una laurea in materie attinenti alle materie di cui sta trattando. Non tollero cioè che argomentazioni talmente plebee pensino di poter passare per serie. L'insistenza sul fatto che tutti gli altri a parte lui sarebbero vittima del dogma dimostra di non aver ancora capito che questo non è un confronto tra cattolici e protestanti, bensì un confronto di tutti gli accademici oggi viventi contro lui solo (e ovviamente i suoi quattro amici anonimi che scrivono sulla Torre di Guardia); per di più ha avuto l'ardire di affermare che presso i testimoni di Geova non esisterebbero dogmi, quando l'unica cosa vera è che non esiste la parola “dogma”, tuttavia è considerata tale qualunque dottrina venga dallo schiavo fedele e discreto. Non esiste alcun testimone di Geova che durante uno studio di libro potrebbe alzare la mano e dire " io non sono d'accordo con questo intendimento". tra i testimoni di Geova niente è chiamato dogma e tutto lo è. Io non ho alcun problema a dirvi quali dottrine della Chiesa cattolica non approvo, infatti se ci sono alcune dottrine dogmatiche, il rigetto delle quali esclude dal cattolicesimo, ed esiste un numero infinitamente più grande di dottrine non coperta dal dogma. Il sottoscritto può affermare tranquillamente che, ad esempio, non è d'accordo con la posizione della chiesa sui contraccettivi all'interno delle unioni matrimoniali: se è vero che presso i testimoni di Geova non ci sono dogmi invito Barnaba a dirci almeno una dottrina dei testimoni di Geova su cui non è d'accordo, anzi invito qualunque testimone di Geova di questo forum a dirci un intendimento dello Schiavo su cui non è d'accordo. Siccome Barnaba come tutti testimoni di Geova ha il vizio di tralasciare le argomentazioni scomode, noi come sempre risponderemo riga per riga mettendo in luce ciò a cui si è " dimenticato" di replicare. La prima obiezione è che la prima lettera di Pietro, se l'autore è lui, è stata scritta negli anni 60 del primo secolo, mentre la letteratura apocalittica da me citata è della fine del medesimo secolo. Rispondo a questa obiezione partendo dalla mia personale convinzione che tale lettera petrina sia autentica, se infatti come sostiene la maggior parte degli studiosi essa non è di Pietro il problema non si pone più. Innanzitutto occorre replicare che è assolutamente patetico credere che la prima attestazione di un termine coincida con la sua creazione, infatti chiunque sa che c'è rimasto solo uno spicchio della letteratura del mondo antico, specie di quella giudaica, e qui siamo dinnanzi ad una separazione temporale al quanto misera: vent'anni. È sufficiente per dire che in questo periodo Babilonia era una metafora per designare Roma. Nulla impedisce di considerare la prima lettera di Pietro come la prima attestazione di questo modo di dire, confermato da altra letteratura dello stesso periodo: perché vent'anni per la critica letteraria sono lo stesso periodo; fu così capita anche dalla letteratura cristiana antica. E non c'entra niente il genere apocalittico: esprimere la propria contrarietà ad un sistema può essere fatto in tutti i generi letterari, dall'epistola all'apocalisse. Ed è inutile ricordarci che tale lettera, come del resto è anche nella dottrina di Paolo, si pronuncia a favore del rispetto per le autorità, giacché i testimoni di Geova stessi insegnano che l'obbedienza ad un sistema non implica la sua accettazione. Loro stessi si ritengono dei bravi cittadini di questo sistema mondiale, che tuttavia non hanno problemi ad etichettare nei loro testi col nome di Babilonia la Grande, impersonato nelle Nazioni Unite. Essere cioè obbedienti per motivi di ordine pubblico ha delle autorità non implica l'essere loro alleato, o approvarle. Loro stessi, non fanno altro nei loro volantini e nelle loro pubblicazioni che chiamare Babilonia questo malvagio sistema mondiale, ma spero non abbiano intenzione di dirci che le loro "Svegliatevi!" sono delle apocalissi. Questa ridicola convinzione che non si possa chiamare qualcuno Babilonia anche stando perfettamente calmi e lucidi e alquanto ridicola, nonché smentibile dalle loro stesse pubblicazioni, che certamente loro stessi non vorranno far passare come invettive. Il metodo storico critico non è usato a conferma dei miei dogmi, in caso contrario mi si dica quale dogma avevano da difendere gente come Cullmann e K. Aland da me citati. Si afferma poi che l'espressione Babilonia in luogo di Roma sarebbe stata capita soltanto da lettori ebrei voraci di letteratura apocalittica, ma con questa osservazione si dimentica che la letteratura non inventa la lingua bensì è scritta nella lingua che la circonda. Il fatto cioè che un modo di dire sia impiegato nello scritto implica che esso appartenga ad un determinato bacino linguistico, specie nelle società orali. Io non ho mai affermato che Babilonia sia specifico dell'apocalittica, e non vedo perché dovrebbe essere così. Banalmente tale espressione girava tra i giudei e quindi anche fra i cristiani che dei giudei sono una ramo. Si passa poi alla ridicola affermazione secondo cui i lettori di Pietro erano occidentali, ma chi sfogli la lettera in questione noterà nell'incipit che essa è rivolta ai fedeli "del Ponto, della Galazia, della Capadocia, dell'Asia e della Bitinia", cioè aveva in gran parte destinatari dell'attuale Turchia. Inoltre questa terminologia non era comprensibile solo a degli ebrei; può darsi che sia nata tra ebrei, ma siccome le comunità cristiane erano miste non vedo dove stia la difficoltà nel dire che questo termine fosse conosciuto da tutti i cristiani, come del resto testimonia l'Apocalisse con la sua Babilonia, la grande città sui sette colli.
C’è poi una nota da fare. Thiede in un articolo pubblicato su Biblica (n. 67, 1986, pag. 523-53[SM=g27989] ha messo in luce che anche autori romani profani usavano Babilonia in maniera simbolica o metaforica al posto di Roma, sia, ed è di capitale importanza, prima di Pietro, sia alla sua epoca.
Hai poi detto che sarebbe stato molto più normale parlare di Babilonia in relazione alla diaspora, ma ancora una volta questa è un'ipotesi ad hoc, e questa volta si tratta proprio di un modo di dire non attestato. O forse m'è sfuggito qualcosa? Conosci qualche attestazione antica in cui " sono a Babilonia" voglia dire "sono in una comunità dell’esilio"? Si scartano i modi di dire attestati in nome di quelli non attestati, e tutto questo a far quadrare il proprio cerchio. Passiamo poi a Clemente Romano e al canone, in cui traspare nuovamente ingenuità storica. Ma quando lo capirai che gli argomenti e silentio non hanno senso quando si hanno così poche fonti? Di Clemente Romano c'è rimasta una sola lettera, come si può dunque dire che siccome non cita mai una lettera di Pietro allora questa lettera gli è il nota? Ma vi rendete conto dell'assurdità? Sarebbe come dire che se ci fosse rimasta una sola lettera di San Paolo apostolo, allora si potrebbe stabilire quali libri dell'Antico Testamento conosce in base a quelli che egli cita nella sola lettera superstite. Si vive cioè nell'illusione, che più volte devo smascherare, secondo cui questa gente scrivesse pensando alle mania degli storici del ventunesimo secolo che li leggono, o per meglio dire alle manie di quelli ottusi. Si è poi tentato di confondere la canonicità di uno scritto come la sua conoscenza. Di solito ci si deve aspettare che la comunità ricevente consideri canonica una lettera, e non la comunità in cui tale testo fu scritto. Nella mentalità della comunità mittente infatti quella lettera rappresenta un fatto quotidiano, si tratta cioè di una lettera spedita altrove. Che importanza si può dare a una lettera se nel momento in cui viene scritta hai lì l'autore di persona? Quella lettera è stata scritta da Pietro e spedita, non si vede perché la comunità di Roma, e Pietro stesso, al momento in cui le spedii, dovesse farne una copia o considerarla importante (sapeva già che alla sua morte avrebbero conservato i suoi scritti come reliquie?). Non c'era la mentalità da "Sola Scriptura" e di idolatria della lettera tipica del protestantesimo, era la Traditio apostolica il fulcro, la viva voce degli apostoli. Infatti la comunità di Roma secondo la testimonianza di Papia chiede a Marco di redigere il Vangelo soltanto quando Pietro se ne va, per avere memoria della sua predicazione. Per la comunità di Roma è la prima lettera di Pietro è stata semplicemente una lettera scritta da Pietro mentre si trovava lì,un fatto quotidiano,un'esortazione spedita lontano, probabilmente dimenticata una settimana dopo. Non stupisce che la sua canonicità abbia più sostenitori in Oriente dove fu mandata e che poi da lì la sua fama si sia espansa verso l'Occidente. Tuttavia come ripeto questa lettera è conosciuta da altre persone nella sfera di influenza romana come Sant' Ippolito romano e Tertulliano. Mi chiedi se sostengano che è stata scritta a Roma, e siccome non conosco tutta la loro opera, ma semplicemente grazie alla Biblia Patristica so che ne citano dei passi, non so risponderti. Mi dici inoltre che non sono mica tanto contemporanei e davvero non so di cosa parli.
Se è il canone muratoriano è del 180 allora essi sono coevi: Sant'Ippolito 170-236, Tertulliano 150-220. Come già detto non c'è alcuna attestazione di una comunità primitiva a Babilonia nel primo secolo, mentre al contrario tutta la tradizione successiva già attesta che Pietro stette a Babilonia, ma a Babilonia in Italia. Se questa comunità cristiana primitiva fantomatica vi fu, non si spiega perché la notizia della morte dell'apostolo non sia arrivata alle altre comunità cristiane. Non conta che il cristianesimo lì ipoteticamente nato poi si sia estinto; è mai possibile infatti che se Pietro fosse morto davvero a Babilonia nel resto delle comunità cristiane non se ne sia saputo nulla e dunque in seguito non si sia potuta smentire la comunità di Roma? Badate che è un dato piuttosto importante, possibile che la comunità di Gerusalemme si sia persa questo piccolo particolare, cioè dove è morta una delle sue tre colonne? Nessun cristiano di Babilonia è andato a riferire? Quando la comunità di Babilonia esisteva ancora, com’è che a Gerusalemme non si seppe nulla della morte di Pietro? E se la notizia vi arrivò, perché già a fine I secolo troviamo Pietro morto a Roma? Come già detto se questa comunità cristiana babilonese vi fu si deve essere estinta subito, perché le testimonianze della morte di Pietro a Roma non sono del 170 come ancora continui a battere a macchinetta ma di fine primo secolo. Hai detto due sciocchezze sul ascensione di Isaia, ma ti sei ben guardato dal commentare il fr. Rainer, su cui aspetto ancora chiarimenti. Come già detto il riferimento a Roma e Pietro nell’Ascensio Isaiae è innegabile, tanto è che viene riconosciuto anche le protestanti. Nella tua replica ti sei semplicemente limitato a dirci cosa è scritto nel testo, ma non ciò che se ne deduce immediatamente. Si dice infatti che uno dei 12 è stato dato in mano a Nerone. Come già spiegato 1000 volte questa è l'ennesima prova che Pietro non può essere morto a Babilonia, perché la persecuzione di Nerone fu solo a Roma, non è una persecuzione su scala imperiale, bensì un tentativo di punire i cristiani di Roma per l'incendio. Inoltre ai tempi di Nerone l'impero romano a Babilonia non c'aveva neppure mai messo piede, dunque se una fonte del primo secolo ricorda che Pietro è stato ucciso da Nerone, non può che trattarsi di Roma. La tua obiezione se non erro è che vi è scritto "uno dei 12" e non si fa riferimenti diretti a Pietro, ma ciò è spiegabile dallo stile volutamente misterico dello stile apocalittico, e basta leggere il testo di Giovanni per avere dei raffronti: ditemi voi se trovate qualche riferimento diretto…. e tuttavia si riesce a capire di cosa stia parlando. Infatti chi mai altri potrebbe essere quell'uno dei 12 discepoli dato in mano a Nerone? Non può essere Paolo visto che non è uno dei 12 apostoli, e non c'è nessun altro apostolo che sia morto a Roma, o forse stai per dare una rivelazione anche su questo punto? Inoltre ho già detto 1000 volte a proposito di Dionigi che una fonte scritta nel 170 non è una fonte del 170, giacché questa gente che scrive non ha zero anni. Un vescovo di Corinto, e ripeto vescovo, non può avere vent'anni, e viene da chiedersi se tu conosca meglio la tradizione di Corinto del suo stesso vescovo, che viene eletto proprio in quanto deposito della Traditio apostolica. Se ci dice che le due comunità sono accomunate dal fatto che Pietro passò in entrambe, cosa di cui abbiamo un'allusione nel citato passo di Paolo, che siamo noi per dirgli di no?
Inoltre definire “marginale, apocalittico, e poco conosciuto” un documento, non vuol dire ancora dire che non esiste, anche perché due dei tre gli aggettivi che tu elenchi sono fasulli. Viene da chiedersi come tu possa conoscere la diffusione di un documento nel primo secolo in modo da poterci dire che cosa fosse marginale e poco conosciuto, evidentemente la presunzione non ha limiti. Io vi dico solo questo, ossia che se un documento ci arriva è perché ne circolavano un bel po' di coppie, giacché statisticamente la maggior parte di esse viene distrutta, e quindi più ne vengono prodotte e più c’è probabilità che se ne salvi qualcuna, se non addirittura una sola. Nessuno si sognerebbe di dire che le commedie di Menandro fossero poco diffuse, eppure per alcune di esse abbiamo un solo esemplare, se non pochi frammenti fortuitamente rinvenuti perché qualcuno ha usato un papiro menandreo per tappare un orcio. Viene poi da chiedersi che modo sia di screditare Papia dire che è citato da Eusebio. E allora? Stai forse dando del bugiardo ad Eusebio? onosciamo molti autori antichi solo per frammenti indiretti, quasi tutto Eraclito ad esempio. La cosa interessante da notare è che se io invento di avere un'opera di 15 secoli fa posso dire quello che voglio, ma se cito un'opera che anche il mio pubblico possiede non posso inventarmi i pezzi, pena l'essere sbugiardato. Non poter controllare le citazioni è un problema nostro, non dei lettori di Eusebio di Cesarea. Anzi lui stesso rimanda alla opere di Papia, che evidentemente circolavano ancora senza problemi di reperibilità, giacché dice che in esse v'è molto da imparare. "Nella sua opera egli ci riferisce anche altre spiegazioni del sopra ricordato Aristione sui discorsi del Signore e tradizioni del presbitero Giovanni, alle quali noi rimandiamo i lettori desiderosi d’imparare."
Inoltre con che coraggio dati la citazione di Papia al 150 d.C. visto che è la data della sua morte? Per chi non lo sapesse la data della sua nascita è il 70 d.C., quindi potete capire le faziosità ci sia nel mettere quella data in parte a Papia. Ho trovato poi delle interessanti informazioni in Clemente Alessandrino (150-215) che ci confermano il racconto di Papia che ci dà Eusebio. Scrive Clemente: "Quando Pietro ebbe annunciato pubblicamente a Roma la Parola e predicato il vangelo secondo lo Spirito, i presenti, che erano molti, invitarono Marco, in quanto lo aveva seguito da tempo e ricordava le cose dette, di trascrivere le sue parole. Questi lo fece e consegnò il Vangelo a coloro che glielo chiedevano» (Ipotiposi VI, in Eusebio, Historia Ecclesiastica VI,14,6); devo dunque aggiungere alle fonti del secondo secolo anche Clemente Alessandrino, che ricordo è nato nel 150. E in un altro passo il medesimo autore: "Marco, seguace di Pietro, allorché Pietro predicava pubblicamente il vangelo a Roma, alla presenza di certi cavalieri di Cesare, [...] scrisse, sulla base di quanto Pietro aveva detto, il Vangelo chiamato di Marco". (Adumbrationes ad 1 Pt 5,13)
Altri indizi che confermano la testimonianza di Papia, Clemente e di Ireneo si ricavano dalla critica interna del Vangelo di Marco. Come già detto nelle scienze umanistiche non esista la parola dimostrare, quello che dirò è da considerarsi come un indizio che va ad accrescere un quadro già definito. È stato fatto notare infatti che il Vangelo di Marco è ricco di latinismi (es. kenturiôn = centurio; kodrantês = quadrantes, ecc.), alcune spiegazioni degli usi giudaici, come ad esempio i costumi circa le leggi di purità in 7,1-4, nonché le spiegazioni dei termini in lingua semitica (5,41; 15,34, ecc.) che presuppongono parte di un pubblico non ebreo. Ma l’esempio più significativo è il fatto che mentre in Matteo Gesù dice semplicemente che l'uomo non può ripudiare la donna, Marco aggiunga che neppure la donna può ripudiare l'uomo, e questo è importantissimo perché mentre per il diritto giudaico il diritto di divorziare era solo dell'uomo, nel mondo romano l'iniziativa poteva partire anche dalla donna. Questa precisazione di Marco è stata fatta tenendo conto che il Vangelo era calibrato per un pubblico romano. Vorrei poi chiedere a Barnaba se è duro d’orecchi o fa semplicemente finta inscenando ancora il suo squallido teatrino sul presunto silenzio assordante negli atti degli apostoli. Innanzitutto mi dice che il suo problema non è che gli Atti degli apostoli non parlino della morte di Pietro ma che o mettano qualsiasi riferimento a un suo precedente soggiorno romano, e io gli ricordo che se ho parlato del perché gli Atti omettano la morte di Pietro è perché lui stesso aveva detto che avrebbero dovuto contenerla, ma poiché evidentemente si è reso conto dell'assurdità di questa pretesa, giacché essi finiscono prima della morte di Paolo, adesso ha dunque cambiato strategia.
Quanto al fatto che essi omettano la presenza di Pietro a Roma ho già risposto citando quanto dice il canone muratoriano, ossia che Luca non ha scritto soltanto in base al criterio dell'importanza, bensì in base al criterio di ciò che lui stesso ha visto, ergo se non è mai stato a Roma durante la predicazione di Pietro egli non ne parla. Questa mania che gli scritti debbano contenere una cronaca minuto per minuto altrimenti i fatti non sussistono, tipico della mentalità protestante del "Sola Scriptura", comincia veramente a infastidire. Mi chiedo infatti allora perché Luca non parli del soggiorno a Babilonia dei Caldei di Pietro. Se doveva parlare del soggiorno a Roma perché questo esista, perché mai non parla di quello a Babilonia e tuttavia lo consideri esistente? Se mi dici che lo consideri tale per via della chiusura della prima lettera di Pietro non hai risposto a nulla della mia domanda, infatti il Nuovo Testamento è diventato un corpus solo secoli dopo, e dunque non ha senso dire che sebbene non ci sia una menzione in una parte dell'opera tuttavia c'è altrove: non stiamo parlando dello stesso libro. La verità è che gli Atti lasciano notevole oscurità su molte cose avute nella Chiesa antica, e non siamo ben informati su tutti gli spostamenti degli apostoli da quest’opera che francamente aveva in mente altri obiettivi e non pensava di dover fugare i dubbi dei TdG del 2006. Inoltre dire che si crede a babilonia come meta di un viaggio di Pietro anche se non citata negli Atti perché di essa si parla a fine della I Petri, è un’obiezione che oltre a non aver senso per il motivo summenzionato, dimentica anche che il riferimento alla fine della prima lettera di Pietro è appunto ciò su cui stiamo dibattendo e che sin dagli autori nati nel primo secolo come Papia era interpretato come Roma. Si vuole cioè mostrare che gli atti degli apostoli non hanno la pretesa di fare una cronaca minuto per minuto, e che se Luca non ha narrato il soggiorno di Pietro ne a Babilonia né a Roma non è un motivo per escludere che uno dei due esista. Tra l'altro avevo citato un brano di Thiede e uno di Marta Sordi dove si dava una lettura del testo in cui Pietro evade di prigione col suo misterioso dirigersi "verso un altro luogo", che nei Padri della chiesa era stato visto come un è voluto indovinello a cui Luca mette davanti il lettore per motivi di prudenza, e non sto a ripetere le argomentazioni; dico solo che mentre ha senso usare una simile cautela per un viaggio a Roma, non ha nessun senso nascondere un viaggio a Babilonia. Inoltre visto che la prigionia di Pietro avvenne sotto Erode Agrippa (41-44), il fatto che egli se ne vada “in un altro luogo”(metafora di Babilonia da Ezechiele), coincide con la data tradizionale del primo viaggio di Pietro a Roma, cioè il 42. Gli pregherei poi di ricontrollare il testo di Eusebio, in quanto mi dice che Papia deve spiegare il senso della metafora per essere capito, e che anzi avrebbe detto su “a quanto si dice” come per distanziarsi da una tradizione che già a quel tempo era insicura. Si sbaglia perché la spiegazione non è nel testo di Papia ma è fatta da Eusebio. Come è noto ci sono due punti in cui Eusebio cita Papia a proposito del vangelo di Marco a Roma, nel secondo non c’è alcun fasin, quindi suppongo tu stia parlando del primo, che sta in II,15,2. Il testo dice: “Pietro ratificò lo scritto(=il vangelo di Marco) da leggersi nelle assemblee. Clemente ci dà queste notizie nel libro sesto delle sue Ipotiposi e con lui s’accorda Papia, verso di Gerapoli. Pietro accenna a Marco nella sua prima lettera, che si dice da lui composta a Roma e l’indica lui stesso chiamandolo l’Urbe metaforicamente Babilonia” . Queste traduzioni in effetti possono far capire male chi non ha davanti il testo greco, non c’è infatti una terza persona impersonale (fesi), ma una terza plurale. Quel “si dice” non è riferito ad un chiacchiericcio ma a quello che si dice nei due testi che ha citato, le Ipotiposi di Clemente e gli Oracoli del Signore di Papia, tant’è che letteralmente “fasin” è “dicono”: “Pietro accenna a marco nella sua prima lettera, che dicono da lui composta a Roma”. Il tuo errore dunque è doppio, perché in primo luogo non è Papia ad affermare che “si dice” qualcosa, ma è Eusebio, e non è nel senso di “si vocifera” bensì di “si dice in quelle opere”.
Inoltre, infischiandosene di quanto ho detto, si ritorna a dire che Pietro non sapeva né il greco né il latino, quando probabilmente è vera soltanto la seconda lingua elencata. Quanto al fatto che non sapeva il greco ho già detto che allora mi si deve spiegare chi diavolo ha scritto quella lettera, e ho riportato il commento della TOB sulla questione di Silvano, quanto al fatto che non sapeva il latino già Papia ci dà la soluzione del problema dicendoci che Marco fu interprete di Pietro. Se Pietro va a Roma è perché come capo della missione giudeo cristiana non poteva che passare nella capitale, dove c'era una folta comunità di ebrei. Viene poi da chiedersi cosa c'entri il fatto che a Pentecoste ci fossero discepoli(?) della Mesopotamia, infatti essi non erano cristiani, bensì ebrei che si trovavano a Gerusalemme per la festa della mietitura e banalmente sentirono il discorso di Pietro. Per di più essere abitanti della Mesopotamia non vuol dire essere abitanti di Babilonia, ma ciò è irrilevante perché non si dice che costoro fossero cristiani. È altresì errato dire che il destino delle comunità giudeo-cristiane sia stato la scomparsa, ciò non è assolutamente vero nelle date che stiamo considerando, e cioè fine primo secolo con nell'ascensione di Isaia e il fr. Rainer che dimostrano di come ci fosse già una tradizione di Pietro a Roma, e ad ogni modo non erano estinte neppure a metà del II secolo d.C. Ma questa ipotetica datazione dell’invenzione del martirio(metà II secolo), è come già ricordato del tutto irreale, anche mettendo da parte infatti Papia, l’Ascensio Isaiae e il fr. Rainer, ho già scritto sull’impossibilità che un vescovo anziano in questa data si inventi una tradizione, che invece a quanto sostiene il mio interlocutore evidentemente era stata inventata sotto il suo naso 4 secondi prima che scrivesse la sua lettera alla comunità di Roma. Se dei vescovi a metà secondo secolo ci riportano questa tradizione, è perché essi nella loro venerabile età la ritengono antica, difficile immaginare che l'abbiano saputa un paio danni prima, specie vista la descrizione della devozione della lettera di Clemente presso Corinto che ci viene fatta da Dionigi. Hai poi scritto che " Flavio dice Giudei non abbandonarono Babilonia per Seleucia (sempre in Mesopotamia) solo per sei anni", ma questa frase non ha senso, suppongo di dover togliere il "non" e che tu intenda dire che Giuseppe Flavio affermi che l'esilio a Seleucia sia durato soltanto sei anni. Ciò è falso, se leggi ben nel capitolo l'unica volta che si menziona il numero 6 è al verso 373 dove si dice " qui, dunque, si rifugiarono i giudeo nei e vi restarono per cinque anni senza molestie, ma nel sesto anno da quando erano stati spogliati in Babilonia e formati nuovi insediamenti, lasciata la città se ne andarono a Seleucia, e qui furono colti da una più grave sventura della quale e riferirò qui la causa", vale a dire che dopo sei anni vanno a Seleucia, in non dopo sei anni lasciano Seleucia; o almeno presto sembra dalla traduzione di Moraldi, non ho a casa il testo greco delle Antichità Giudaiche per poter controllare. Poi effettivamente si dice che la maggior parte dei Giudei lasciò Seleucia, ma non si specifica quando, per andare al punto a Nearda e Nisibi. Nearda non fa parte di Babilonia, a meno che dicendo "città di Babilonia" non lo si intenda nel senso standard dato dalla nomenclatura degli studi sul vicino oriente antico, dove dicendo che una “città è di Babilonia” si intende che fa parte della satrapia di Babilonia, e con satrapia non pensiate che io abbia in mente l'organizzazione persiana. Hai tentato di additare Nearda, se ho capito bene le tue intenzioni, come una sorta di sobborgo di Babilonia, in modo da giustificare il fatto che Pietro non dice affatto che sta scrivendo da Nearda, bensì da Babilonia da cui invece i Giudei se n'erano andati per via dello scontro feroce con l'elemento indigeno. Nearda non è affatto Babilonia, tanto che al verso 369 del medesimo capitolo viene detto che i babilonesi mandarono degli ambasciatori a Nearda, motivo per cui non può trattarsi di una specie di appendice della città. Questa cittadella si trovava a nord di Sippur e non nei dintorni di Babilonia. Quanto a Nisibi ci sono due città con questo nome, nessuna delle due fa parte di Babilonia, e se la prima per grandezza è nettamente al nord, della seconda non sono neppure riuscito a trovare una carta geografica del Vicino Oriente Antico che la rappresentasse tanto dev'essere insignificante.
In definitiva contro il mito della completezza del nuovo testamento, si deve rispondere che se esso non parla della morte di Pietro a Roma è perché esso non parla affatto della morte di Pietro, né a Roma né altrove, eppure da qualche parte questo povero apostolo dev'essere pure morto. Il nuovo testamento non è dunque una fonte completa, e parlo di livello storiografico, checché ne dicano i fondamentalisti che scambiano la funzione spirituale dei testi sacri per una funzione cronachistica che essi hanno solo in secondo luogo. Non è affatto sensato dire che Pietro si sia recato a Roma solo dopo il 61 in quanto a quella data arrivano gli Atti degli apostoli e prima non è parlano, infatti come già detto Luca segue il criterio di esporre soltanto le parti delle missioni apostoliche che egli ha visto coi suoi propri occhi. Il tuo ragionamento parte ancora una volta dal mito che gli Atti degli apostoli seguono minuto per minuto la storia della chiesa, quando invece è il contrario, ci lasciano ampi spazi di tenebra sia sulla vita di Paolo sia su quella di Pietro, per non parlare di quella degli altri apostoli. Nessuno qui sta sostenendo un soggiorno ininterrotto di Pietro a Roma: è impossibile che il capo delle Chiesa primitiva stesse sempre nello stesso punto, probabilmente girava nelle comunità da lui fondate esattamente come Paolo.
La prima presenza di Paolo a Roma avvenne nell'autunno del 60, dopo che Paolo davanti a Festo si era appellato a Cesare. Nell'autunno del 60 abbiamo il viaggio di Paolo a Roma con la tempesta e l'inverno passato a Malta. Da 61 a 63 fu per così dire prigioniero nella città, mentre la prima lettera di Pietro è datata verso il 64, così come il suo martirio che si fa cadere nel medesimo anno o nel 67. La volta successiva che Paolo stette a Roma fu nel 67 dove fu prigioniero e poco dopo venne decapitato, ovviamente sempre che questo secondo soggiorno di Paolo nell’Urbe sia esistito, cosa di cui c'è ragione di dubitare. Alcuni studiosi parlano di 1 secondo viaggio di Paolo a Roma unicamente perché è ritengono autentiche 1 e 2 Timoteo e Tito, credono cioè che Paolo fu rilasciato dalla sua prima carcerazione (2 Tm 4,16-17) e che dopo un viaggio nell'oriente ritornò a Roma una seconda volta per esservi decapitato. Tuttavia siccome mi chiedo chi ancora sostenga l'autenticità delle lettere a Timoteo tutto ciò non ha ragione d'essere. Né del resto sappiamo quanto sia durata la prima carcerazione, la data tradizionale la fa andare dal 61 al 63, ma ad esempio se guardiamo il "dizionario della Bibbia" della Society of Biblical Literature essa viene datata fino al 62, con successiva morte. Se dunque Pietro non cita Paolo nei saluti finali della lettera può essere o perché l’apostolo dei gentili non era presente nella città (in quanto ricordo che 1Pt è del 64 e la I prigionia di Paolo era finita nel 63) o perché era già defunto (con la fine della I prigionia c’è anche la sua morte). In genere le tue argomentazioni sono tutte sull'idea che si possa stabilire se una persona in un determinato anno nel luogo x a seconda che venga o meno citata nei saluti, ma i viaggi di Paolo ci insegnano che lui non aspettava la fine di un anno per mettersi in viaggio: in una sola annata poteva essere in quattro posti diversi, e sarebbe ridicolo stabilire che siccome lo sappiamo in un posto allora le altre tre locazioni sono fasulle. Mi si cita poi il frammento di Porfirio di cui avevo già parlato nel mio messaggio a Spirito Libero, e io mi chiedo con quale coraggio si rigettino le fonti del secondo secolo e si accettino quelle del quarto, specie visto che vengono da un feroce oppositore ai cristiani, che faceva di tutto per calunniare le loro credenze. Il problema non è trovarlo interessante perché va controtendenza, il problema e chiedersi in che maniera Porfirio avrebbe potuto avere informazioni migliori nel quarto secolo rispetto alle nostre fonti del secondo secolo. Se un pagano conosce meglio la presenza di Pietro a Roma dei cristiani stessi di due secoli prima, viene da chiedersi come abbia potuto avere una simile informazione. Questa è quella che si chiama critica delle fonti: la prima domanda è chiedersi se la nostra fonte è nella posizione per essere informato, e la risposta qui è un sonoro no: se Porfirio è informato sul cristianesimo allora noi siamo discepoli di un mago falsario e sofista chiamato Gesù.
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Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
(Κ. Καβάφης)
01/02/2007 21:25
 
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Nel tuo messaggio a Luigi insisti poi nel dire che vogliamo dare più credito a testimoni del quarto secolo rispetto a quelli del primo (cosa che tu fai con Porfirio), e io mi chiedo se pensi ancora che qualcuno ti dia retta. Dici che nel secondo e nel terzo secolo si parla di Pietro in coppia con Paolo ma senza specificare il periodo e la città in cui avrebbero operato insieme. Questo è falso: appartengono infatti al secondo secolo fonti come Ireneo di Lione che specificano il luogo in cui i due avrebbero operato, per non parlare del terzo secolo dove la tradizione è indiscussa, come del resto lo era prima. Ed è falso che nel 170 si faccia strada l'ipotesi del martirio di Pietro a Roma, infatti come ripeto per l'ennesima volta una fonte scritta da un vescovo nel 170 non è una tradizione del 170, a meno che voi non vogliate seriamente dire che questo vescovo abbia scritto una tradizione appresa un mese prima, e non invece qualcosa che nella sua veneranda età sapeva essere solido. Per non parlare del fatto che per l'ennesima volta dimentichi Papia, che è morto 20 anni prima della data che tu indichi, dimentichi il fr. Rainer e l'Ascensio Isaiae. Ed è falso che solo nel terzo secolo Clemente Alessandrino affermi che Pietro avrebbe predicato a Roma, infatti in questo modo si dimenticano sia la testimonianza di Dionigi vescovo di Corinto, sia quella di Ireneo il quale dice che in virtù della tradizione che i romani hanno ricevuto da Pietro ogni Chiesa dev'essere d'accordo con loro, sia la testimonianza indiretta di Ignazio secondo cui Pietro e Paolo avrebbero dato ordini ai romani. L'unica cosa corretta che hai detto, è stato il domandare a Spirito Libero da dove abbia evinto che Pietro abbia soggiornato a Roma imprigionato, e per giunta deportato, affermazione che non riesco proprio a spiegarmi. Inoltre Eusebio non è un fervido difensore della presenza di Pietro a Roma, semplicemente ne parla, non aveva nessuno che mettesse in dubbio questa tradizione da dover smentire. Non siamo cioè di fronte a un silenzio del nuovo testamento e a delle informazioni frammentarie cent'anni dopo, come ci si ostina a dire: siamo dinnanzi a fonti che sin dal primo secolo ci raccontano del martirio dell'apostolo, sebbene in un genere letterario che non è quello della storiografia, cosa del resto piuttosto rara nella produzione della letteratura cristiana antica, che non conosce una vera storia ecclesiastica fino ad Eusebio. Io trovo veramente esasperante la faciloneria con la quale il mio interlocutore si accosta a questi argomenti, il come pretenda di parlarne e di capirli, non capendo quello che io ripeto da sempre: ossia che gli ingegneri costruiscono i ponti ed i grecisti parlano di storia antica. Assistiamo infatti a cose squallide, Barnaba che si permette di parlare di diritto romano e di asserire che per lui è strano vedere come Ignazio venga traslato a Roma per essere ucciso, e lo dice come se sapesse qualcosa di storia del diritto romano e dunque il suo stupore valesse qualcosa. O vogliamo prendere la mezza verità secondo cui la testimonianza di Porfirio per Harnack sarebbe credibile perché "pur riportata da un cristiano non segue la tendenza celebrativo/leggendari che si stava manifestando"? Vale a dire che bisogna ritenere attendibile la fonte in quanto viene citata da un cristiano, e se qualcuno cita qualcosa che va contro i suoi interessi allora è attendibile. Non è questo il senso del "pur riportata da un cristiano"? Ma ciò presume che colui che cita Porfirio sia d'accordo con lui, se lo cita infatti per confutarlo non ha senso dire che attendibile perché pur essendo cristiano ha ammesso qualcosa contro il suo interesse, infatti la fonte qualora sia contro la tesi di Porfirio diverrebbe, usando un simile metro, inattendibile, in quanto è un cristiano interessato a fare apologetica. Tuttavia chi sostiene che Macario Magnete cita il testo di Porfirio perché e d'accordo con lui, non ha mai letto il testo in questione, e dunque meglio che taccia, giacché l'Apocrithicus altro non è che una confutazione sistematica di tutte le calunnie di Porfirio contro i cristiani. Se si sostiene invece che la fonte è attendibile in quanto viene da un non cristiano, vale quanto ho detto prima, cioè come possibile che un pagano del quarto secolo conosca le tradizioni ecclesiastiche meglio dei vescovi del secondo secolo. Vorrei fare una riflessione generale…
Come ci si può accostare al mondo antico non avendo neppure le nozioni base che permettano di muoversi in questa realtà… senza conoscere la cultura e la società di quelle epoche,una cultura che sarebbe utile per capire che le tradizioni non spuntano come funghi e che ci sono dei precisi modelli di antropologia sociale del mondo antico che permettono di escludere che tradizioni così diffuse come quella di Pietro a Roma vengano inventate dal nulla, e sia in così poco tempo sia in una tale vastità geografica. Questa gente non sa cioè come muoversi, per questo è difficile rispondere alle loro argomentazioni, non perché siano puntuali e precise, ma perché sono così banali e ingenue che per rispondervi occorre fare un discorso larghissimo in modo da spiegare il contesto, e si perde una marea di tempo. Questa gente non sa e non si rende conto di non sapere.
Mi si obietta da ultimo a proposito dell'ascensione di Isaia che non ci si spiega come mai l'autore rimanga sul vago se la tradizione era sicura. Ma io mi chiedo seriamente se Barnaba mi stia prendendo in giro. Come già detto non abbiamo che fare con un testo di storiografia, e soprattutto l'autore non stava pensando a noi del ventunesimo secolo. Deve togliersi dalla testa che chiunque scriva lo faccia con lo scopo della Torre di Guardia, siamo davanti a testi che non hanno alcuna intenzione di difendere la presenza di Pietro a Roma, per la semplice ragione che non c'era una controversia sulla presenza di Pietro a Roma. Non ha senso dunque formulare frasi del tipo “non è stato preciso perché aveva paura di essere sbugiardato”. Questo è un testo apocalittico, io mi chiedo seriamente con quale intelligenza si possa pretendere che uno scrittore in un testo simile si metta a precisare in primo luogo di chi sta parlando, in secondo luogo addirittura quali sarebbero i suoi spostamenti e per quanto tempo sarebbe stato nei luoghi che a noi interessano. Lo scopo di quel testo è unicamente dire che Pietro è morto nella persecuzione di Nerone, e questo è un segno escatologico della pienezza dei tempi. Sarebbe come stupirsi del fatto che Giovanni nel descriverci “Babilonia la Grande” non si metta a dirci che il suo vero nome è ONU, o, per qualunque biblista serio: Roma imperiale .
Sarebbe, per fare un altro esempio, come aspettarsi che nella descrizione dell'agnello mistico fatta da Giovanni Evangelista, l'autore si mettesse a raccontare chi era il procuratore di Giudea quando venne ucciso, e narrando di come l'agnello sia stato sgozzato, l'autore precisi in nota a piè pagina che in realtà si è trattato di una crocifissione. Non passa il vizio, per arrampicarsi specchi, di pensare che tutti stiano scrivendo nella menzogna, che tutti abbiano scopi apologetici, e che tutti non siano in grado di dargli le prove che lui si aspetta. In realtà a questi autori del nostro Barnaba non frega assolutamente nulla, come non fregava nulla di noi moderni, a loro interessava soltanto, davanti a un pubblico pienamente preparato a quello che stavano scrivendo, di comunicare che la fine era vicina, e che essa era manifestata in terribili segni.
E’ ritornato fuori l'argomento di Aniceto, e io mi chiedo con che coraggio visto che l'abbiamo già trattato, ci si aspetterebbe che prima di ripetere le stesse cose si prendano in considerazione le argomentazioni del proprio interlocutore. Avevo già scritto che la data della domenica non è una questione dogmatica ma di tradizione ecclesiale, è della stessa importanza del digiuno del venerdì e del giorno di carnevale. Innanzitutto vediamo come questa sia solo l’ennesima conferma del primato d’auctoritas romano, infatti Policarpo va a consultare la Chiesa di Roma. Aniceto e Policarpo non riuscirono a trovare un accordo sulla questione quartodecimana e così riconobbero vicendevolmente valide entrambe le prassi ecclesiali. Il che era una soluzione saggia, nulla vietava che potessero coesistere insieme: celebrarono la comunione eucaristica e si separarono in pace (Dalla lettera di Ireneo a Vittore, in Eus, Storia Ecclesiastica, 24,16). Policarpo in quell’occasione si richiamò a Filippo e a Giovanni, di cui era allievo. Perché Roma non si richiama a Pietro? Aniceto non poteva gloriarsi, come Policarpo, di rapporti diretti con gli apostoli. Inoltre un mancato richiamo agli apostoli di Roma si può facilmente spiegare con la coscienza che la comunità di Roma aveva del fatto che la cerimonia pasquale di domenica era stata introdotta di recente e non risaliva all’età apostolica. (Per tutto questo si veda O. Cullmann, Il primato di Pietro, pag. 153). Non ci si è cioè richiamati a Pietro perché si sapeva che non fu lui l’iniziatore di questa tradizione. Se Barnaba vuole cioè usare contro di me il fatto che Aniceto non si richiami a Pietro nella controversia sulla domenica, dovrebbe postulare che Pietro fosse favorevole a celebrare la Pasqua in tale data. Ma noi sappiamo bene che non può farlo, infatti testimoni di Geova nelle loro riviste portano avanti la ridicola convinzione che la messa di domenica sia stata introdotta al tempo di Costantino nel quarto secolo, dunque perché mai si stupisce del fatto che Aniceto non si sia richiamato all'autorità di Pietro? Quest'obiezione ha senso solo se Barnaba crede che Pietro fosse d'accordo con la Pasqua di domenica, perché solo in quel caso è strano che non ci si richiami a lui come autorità.
Un giorno dovrò pure dire due parole sul povero Costantino e su Nicea, due argomenti assolutamente bistrattati nelle pubblicazioni dei testimoni di Geova, grazie a tutta una pseudo-letteratura, che vive nella mitologia secondo cui Costantino sarebbe il vero creatore della Chiesa e della divinità di Cristo, nonché dell'affermazione secondo cui egli sarebbe stato un pacchiano seguace del culto solare battezzatosi solo in fin di vita e per giunta ad opera di un vescovo ariano. Sarà il caso un giorno di far luce su tutta una serie di clichés, ma non oggi.
Si passa poi ad obbiettare che Giustino martire parli nella prima apologia di Simone il mago, ma non accenni a Pietro.
La domanda anche qui è perché mai dovrebbe parlarne, visto che stava semplicemente elencando all'imperatore degli uomini che si erano fatti divinità, e a tutti questi ciarlatani i romani hanno creduto, perché dunque arrabbiarsi con i cristiani che fanno la stessa cosa con un altro uomo?
Una tradizione vuole appunto che Pietro sotto l'impero di Claudio, quindi prima di Nerone, forse venuto a Roma per contrastare il mago, e questa tradizione è riportata da Eusebio, ma non è di nessuna rilevanza difenderla o confutarla infatti io sto difendendo il soggiorno petrino sotto Nerone, e di un ipotetico soggiorno sotto il precedente imperatore non me ne faccio nulla, posso anche negarlo. Quanto a Clemente ho già ricordato perché è citato, ossia per le strane coincidenze di quel testo. Infatti Clemente fa capire che l'invidia e la gelosia che portarono alla morte della “folla” di cui parla, sono la denuncia alle autorità romane fatta fra cristiani: e nella stessa situazione versava ora la comunità di Corinto a cui il vescovo di Roma si rivolge. Siccome prima della persecuzione di Domiziano, che è quella che ha in mente Clemente e lo scopo della lettera, c'è stata solo la persecuzione di Nerone, ed è stata solo a Roma, non è possibile attribuire a nessun altra comunità di il fatto che denunce di fratelli causino la morte se non a Roma negli anni 60 del primo secolo. Vale a dire che il quadro descritto per il martirio di Pietro e Paolo in quella lettera, guarda caso di nuovo accostati, non è compatibile con nessun altra comunità fuorché Roma.
Se c'è una cosa che non sopporto nei testimoni di Geova e come essi per darsi una parvenza di scientificità, per fare cioè passare la loro eruzione come una cosa seria, citino accademici, che loro non hanno tra le loro file, e perennemente a sproposito.
L'ultima truffa è la tua frase in cui si dice " Cullmann chiarisce il senso della frase, dice:" io non vi do ordini come farei se fossi Pietro Paolo" ma gli ordini dati dagli apostoli sono quelli scritti e contenuti nelle lettere e negli Atti".
Questo è un autentico caso di frode, giacché è l'esatto contrario, Cullmann cita davvero questa interpretazione, ma la cita solo per smentirla, e per l'ennesima volta mi chiedo se tu sei diventato masochista, perché sai benissimo che ho questo libro e dunque non ti conviene mentire come stai facendo, in poche parole la strategia teocratica non attacca. In più, ancora una volta, si tratta di un pezzo del libro di Cullmann che io ho citato, in cui autore dice giustamente che dà da pensare come proprio in questa lettera ci sia l'accostamento di Pietro Paolo, che non può essere definito affatto canonico e automatico alla data in cui fu scritta. Abbiamo una costante nelle lettere di Ignazio, egli cita gli apostoli soltanto nelle lettere rivolte a quelle comunità in cui essi hanno presieduto, motivo per cui ad esempio cita Paolo agli Efesini chiamandoli "coiniziati di Paolo", ma non lo cita ad esempio ai cristiani della Magnesia, che di fondazione apostolica non erano.
Egli dice giustamente che non esiste traccia nella letteratura cristiana antica di alcuna lettera di Pietro ai romani, e non si capisce dunque in che senso Pietro diA allora ordini, perché cioè, se si tratta di ordini risaputi in quanto generalmente apostolici, si citi lui e non uno qualunque degli altri apostoli.
Anche perché come giustamente è stato detto coloro che si oppongono alla presenza di Pietro a Roma sono avversari del primato, se dunque Pietro non era nessuno di speciale rispetto agli altri 12, perché accettarlo accoppiato a Paolo proprio in una lettera ai romani? Si dirà che è una comunque delle tre colonne, ma allora perché non citare Paolo ad esempio con Giovanni, che tra l'altro è l'autore di un Vangelo e dunque ha ammaestrato i romani sicuramente di più di un Pietro che non hanno mai visto? Per giunta c'è quel verbo, “dare ordini”, che non è esattamente una cosa neutra, non è un'esortazione per lettera, non è l'aver letto delle gesta di un santo in un racconto come gli Atti, è appunto un “dare ordini”. Ecco perché gli autori protestanti, e Cullmann in primis, vedono qui un cenno alla presenza e al martirio di Pietro e Paolo a Roma. E in questo punto del “dare ordini” Ignazio parla anche del suo martirio, ne parla proprio ai romani, e mentre parla del proprio martirio a questa comunità guarda caso cita Pietro e Paolo.
E’ proprio il caso di fare due più due. Dice di essi che ora sono liberi mentre lui è ancora schiavo, con evidente riferimento al lessico martiriologico. Ma di tutto ciò ho già parlato. Citi poi il post di Spirito dicendo di essere d'accordo con lui, ma il suo ragionamento è un cumulo di contraddizioni. Dice giustamente che a un vescovo di un'altra Chiesa era possibile comandare i cristiani di altre comunità, o più che comandare sarebbe corretto dire che poteva dar loro istruzioni, ma sempre in conformità con il vescovo locale. Vediamo infatti dalle lettere di Ignazio che egli non a fatto altro che impartire ordini ovunque, e tra questi ordini c'è quelli di obbedire al vescovo locale. Ma allora si pone il problema del perché non faccia lo stesso trattamento ai romani, perché non dà dei comandi anche loro, e anzi dice che non ha nulla da insegnare perché anzi sono stati loro che hanno sempre insegnato agli altri? Una cosa simile si spiega solo con una predicazione diretta del principe degli apostoli a Roma. Se come Spirito sostiene Ignazio stava semplicemente parlando del modus operandi degli apostoli di impartire le loro direttive a tutte le chiese indipendentemente da quale Chiesa fondarono o diressero, non si capisce perché solo con i romani lui si premure di non dare ordini mentre ad altre comunità come Efeso o Smirne né da eccome; anche queste infatti erano state dirette da apostoli, anzi erano di fondazione apostolica. Non si spiega cioè perché proprio ai romani dica che in ragione degli ordini di Pietro e Paolo non possa dare ordini a loro. Con la tua lettura riduttiva secondo cui si sta parlando dell'uso apostolico "di impartire le loro direttive a tutte le chiese" indipendentemente da quali diressero, se ne dovrebbe ricavare che non dà più ordini a nessuna comunità, infatti tutte avrebbero ricevuto ordini di questo tipo dagli apostoli, e invece non avviene nulla di tutto ciò che questo paradigma implicherebbe (cioè il non dare più ordini a nessuna comunità in quanto tutte sono state dirette da lontano dagli apostoli), avviene il contrario: cioè che in alcune, anche di fondazione apostolica diretta, dà ordini, mentre alla sola Roma dice di non poter dare ordini in virtù del fatto che a loro li diedero Pietro e Paolo .
Per di più non è affatto corretto sostenere che in età apostolica qualunque apostolo dirigesse qualunque comunità, un conto infatti è parlare di istruzioni generali e di correzione fraterna, ma quanto alla direzione diretta di altre comunità questa spettava all'apostolo che l'aveva fondata, infatti c'è un passo della lettera ai romani in cui Paolo si scusa esplicitamente di scrivere a quella comunità visto che non ha fondata.
Con la morte degli apostoli, nell’ età subapostolica, cioè al tempo di Ignazio, le cose cambiano: siamo all'interno di una koinonia cristiana in cui i vescovi sono i successori degli apostoli, una comunità unita dall'amore reciproco e dalla comunione intereccelsiale. Inoltre per l'ennesima volta nella lettura di Spirito non si spiega neppure come mai citi proprio Pietro e Paolo, se si riferiva semplicemente al fatto che gli apostoli dirigevano tutte le comunità, perché citare proprio Pietro per Roma e non ad esempio Giovanni o Filippo o chiunque altro? E ora una frase che non ho compreso. Non capisco cioè perché se Paolo e Pietro insegnarono a Roma, Ignazio allora non avrebbe dovuto specificare che non si trattava di una lettera di ordini alla comunità, è esattamente il contrario. Proprio perché sa dell'autorità dei due apostoli e della comunità, e tuttavia si tratta di un'autorità non ancora canonicamente definita, Ignazio specifica che non pretende di dare ordini a quella Chiesa, come invece fa alle altre, in ragione di Pietro Paolo. Non siamo ancora davanti ad un vescovo del XI secolo che scrive ad un papa, in questo caso infatti sarebbe strano trovare scritto: “Santità, non voglio darle ordini”.
Siamo nell’ambito non della canonistica ma del primato di fede e dottrina della comunità romana, nell’ambito mentale di Roma come pietra di paragone della retta dottrina. Quando Ignazio dice: “non vi do ordini come Pietro e Paolo” non si tratta di una sua difesa, semplicemente di un elogio, non ha cioè in mente scrupoli canonistici, unicamente sa che la comunità di Roma non ha bisogno del suo aiuto.
Pregherei poi Barnaba di astenersi dal fare commenti sulla teologia cattolica se non la conosce, è già abbastanza deprimente sentire i suoi fratelli in fede che cercano di confutare la Trinità quando invece hanno di mira il modalismo: nulla di più deprimente che sentirsi domandare dal proclamatore di turno: " se Gesù è Dio con chi stava parlando quando era sulla croce?". Allo stesso modo se non hai idea di cosa sia la tradizione per i cattolici evita di parlarne. Non sai ancora la differenza fra la Tradizione e le tradizioni, ci sono dei contenuti di fede che fanno parte della tradizione, mentre ci sono per l'appunto tradizioni che non fanno parte di questo corpus, ad esempio è Traditio che Pietro sia morto a Roma, mentre è una tradizione che sia stato crocifisso a testa in giù. Quanto parliamo di Tradizione infallibile e deposito di fede è la prima casistica. Questo fraintendimento delle modalità del magistero cattolico viene ai TdG dalla forma mentis che si sono fatti nella loro organizzazione, infatti presso lo Schiavo tutto ciò che viene scritto sulle riviste è dogma, sebbene nulla a questo nome. La strategia orwelliana di evitare le parole scomode ma di rifilare gli stessi concetti con un altro nome è assai conosciuta in sociologia. In questo caso non esiste per il TdG la possibilità di contestare neppure il più piccolo particolare degli insegnamenti dottrinali dello Schiavo, dunque credono che questo “o tutto o niente” sia anche il modus operandi della teologia cattolica.
Per finire occorre ribadire che al confronto di una del tutto ignota morte babilonese la morte in Itlia è una tradizione del tutto ecumenica. La incontriamo per la Grecia a Corinto con Dionigi, nell’Asia minore e in Gallia, a Smirne e Lione, in Turchia a Gerapoli con Papia, in Egitto e in special modo ad Alessandria con Clemente ed Origene, a Cartagine con Tertulliano, e nella stessa Roma ovviamente. Della serie: o questo è un inganno globale o la pretesa di Roma doveva avere qualche fondamento per poter fare così tanta strada.

E ora veniamo al post di Esprit Libre. Non so cosa sia più in irritante, se la pretesa di Spirito di aver capito qualcosa o il fatto che pretenda che il mondo accademico stia dalla sua parte. I suoi posto sono un cumulo di contraddizioni, prima mi dice che vuole sostenere che Roma ebbe un primato perché era la capitale dell'impero, poi alla fine del messaggio mi dice che non era questo il suo obiettivo e che intendeva semplicemente mostrare che la successione apostolica petrina non sta a Roma. Iniziamo dal principio.
La mia critica alla posizione del canone 28 di Calcedonia non ha ottenuto una risposta soddisfacente. Devo ricordare a tutti che non sei riuscito a produrre alcuna testimonianza antecedente a questa del quinto secolo in base alla quale si deduca che Roma deve la sua posizione in seno alla cristianità a qualcosa che abbia a che fare con l'economia, la politica, o la cultura imperiale in generale. Se ho detto che questa fonte è irrilevante è appunto perché si tratta di qualcosa scritto a secoli e secoli di distanza dai fatti di cui vuole parlare, e viene da chiedersi come è possibile che a fine post si rigetti un mio brano di Girolamo classificato come “tardo” perché del IV secolo, ed invece qui si proclami l’impossibilità di mentire di una fonte composta quando il santo dottore stava già nella tomba. Evidentemente non conosci la storia dei tentativi di emancipazione di Costantinopoli, perché altrimenti sapresti cosa si intende con cesaropapismo bizantino, cioè il fatto che Costantinopoli non tenta neppure di nascondere che deve tutta la sua legittimazione religiosa al fatto di essere la sede dell'imperatore, e che l'imperatore stesso fa di tutto per far sì che la Chiesa della sua capitale sia la più potente. In questo clima è oltremodo ovvio che l'unico modo per sentirsi alla pari di Roma era dichiarare che il potere della vecchia capitale aveva la sua origine nella stessa radice in cui risiedeva il potere della nuova capitale, cioè il potere imperiale. Tuttavia questa posizione del quinto secolo come già detto non trova alcun riscontro nei documenti precedenti, e dunque viene da chiedersi perché dovremmo accettarla, anche perché non a caso l'Occidente sapendo che non era questa l'origine del suo potere ha abrogato esplicitamente questo canone, e non si può dire ecumenico un canone che non sia stato votato da Roma, quindi non è infallibile (Per di più quel canone fu votato proprio in un giorno in cui i delegati dell’Occidente s’erano assentati, una faccia tosta colossale). Quel concilio in un certo senso ribalta la posizione del precedente concilio di Costantinopoli, fatto nel quarto secolo, in cui si diceva che la nuova Roma era la seconda e veniva subito dopo la prima Roma. Dici inoltre che se il motivo per cui Roma assunse la sua importanza fosse stato nella successione apostolica il concilio lo avrebbe dichiarato, ma così si dimentica che non a caso quella sessione era senza i delegati occidentali, e non a caso si è aspettato di votare in quella occasione. Vorrei inoltre ricordare che definire qualcosa con epiteti ironici, ad esempio acrobazie da trapezista, non è una confutazione degli argomenti stessi. Basterebbe conoscere la storia del concilio di Calcedonia per sapere che i padri orientali sapevano benissimo a cosa Roma dovesse la sua supremazia, e che solo in quella sessione se ne sono opportunamente dimenticati, infatti nella disputa sull'ortodossia circa le due nature di Cristo la controversia fu risolta dall'intervento, seppure a distanza, di Papa Leone Magno, e quando venne letta la sua famosa lettera dogmatica all'assemblea conciliare i padri esclamarono " Pietro ha parlato per bocca di Leone". Inoltre dici che confondono la polis con la comunità che vi predicava, e innanzitutto devo ricordargli che le poleis stanno in Grecia e non nel Lazio, inoltre questa non è una risposta alla mia argomentazione. Infatti onorare una comunità perché essa è sottoposta alle più dure prove, come già detto non nobilita colui che è l'autore di questo mettere alla prova, cioè il torturatore imperiale. Non ha dunque senso dire che si sceglie una comunità come guida perché è la città capitale dell'impero, a meno che questo non voglia dire che siccome sono coloro che hanno sofferto di più, allora sono coloro che meritano di più. Ma appare chiaro che in questo caso la ragione per scegliere la comunità di Roma non è il potere politico dell'impero, ma alla resistenza dei cristiani a questa oppressione. Mentre secondo il criterio del concilio di Calcedonia l'impero diventa un valore positivo e si sceglie Costantinopoli come comunità pari a Roma in quanto ha dalla sua parte l'intero, visto come fondamento dottrinale positivo. A nessun cristiano dei primi secoli poteva saltare in mente una cosa simile, cioè dire che una comunità deve il suo prestigio all'istituzione politica che vi sta dietro. Per di più mentre è sensato dire che i cristiani di Roma sono i più perseguitati nel primo secolo, ciò non assolutamente più senso dopo Domiziano, infatti l'unica persecuzione limitata a Roma è stata quella di Nerone. Si dice inoltre che Ireneo sarebbe smascherato come falsario nel momento in cui dice che la comunità di Roma è stata fondata da Pietro e Paolo, ma evidentemente si ignora il testo originale e si tenta di ragionare in italiano, cosa che a nessun antichista è permessa. Ireneo non era un idiota e sapeva benissimo che nella lettera di San Paolo ai romani l'Apostolo dei gentili dice che non è il fondatore di quella comunità, quindi o credeva di avere un pubblico demente, oppure la tua comprensione delle pretese di Ireneo è errata. Ho già scritto cosa vuol dire quella frase, bisogna infatti tener conto del testo originale, perché non sempre le sfumature semantiche sono rendibili in italiano, motivo per cui di storia antica deve parlare solo chi conosca le lingue dell'ambito geografico di pertinenza. Avevo scritto:" “Il sigillo che il martirio pone alla parola, la consumazione della testimonianza verbale nella testimonianza del sangue versato, ecco ciò che 'fonda e costituisce' la chiesa di Roma nella sua 'più eccellente origine', nella sua più salda autenticità apostolica, nella sua potentior principalitas. Quando la versione latina di Ireneo adopera il verbo fundare (in Adv. Haer. III, 3,1-2), sembra proprio che traduca il greco themelioô, che Ireneo usa subito dopo là dove possediamo l'originale greco. Ora, tra i vari sensi del termine, è "rendere incrollabile', 'fissare per sempre', 'consolidare con fermezza le fondamenta' quello che qui va ritenuto (dal Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Stuttgart, t. 3, 64). Pietro e Paolo, con la loro testimonianza di una Parola evangelica suggellata e glorificata nel martirio e nella morte 'gloriosa', hanno dato alla chiesa di Roma incrollabili fondamenta di una qualità particolare. Inoltre, la presenza dei loro “trofei” i loro corpi e le loro tombe - rende permanente, nella mentalità dei primi secoli, la loro appartenenza alla comunità di Roma. La loro testimonianza diventa il bene proprio della Chiesa che celebra l'Eucaristia sulla loro 'confessione'. Essi fondano così la sua potentior principalitas, che si edifica su di loro.”
Dunque dietro “fundare” sta themelioo, che infatti è il verbo usato dove c’è rimasto l’originale greco. Per di più anche la Vulgata traduce themelioo con fundare, e non c’è di che stupirsi visto che basta aprire un qualunque dizionario di latino per sapere che il secondo significato di “fundare” è “rendere stabile, rendere saldo, fissare” (Nuovo Campanini Carboni), “rendere stabile, rafforzare” (Castiglioni-Mariotti); ergo a prescindere dall’ipotetico testo greco, questa lettura è fondata anche col solo latino superstite.
Bisogna poi dire che è allucinante l'ingenuità con cui ti accosti agli strumenti di lavoro. Hai letto un manuale che serve a sostenere un esame di primo modulo, e pensi che sia in gotha degli studi su qualunque argomento in essa trattato, e quello che è peggio è che non capisci quello che c'è scritto. Ti avevo chiesto infatti dove starebbe scritto che Roma deve la sua preminenza alla sua posizione socio-politica, e oltre a non rispondermi hai detto che non è quello che vuoi sostenere, tuttavia all'inizio avevi difeso la posizione del canone 28 di Calcedonia, contraddicendoti. Il manuale di Filoramo, che per chi non lo sapesse è uno specialista di gnosticismo e non di ecclesiologia, si limita a dire che la frase di Ireneo ha funzione apologetica. Ma io non l'ho mai negato, anzi, uso lo stesso metodo anch'io oggi, egli afferma cioè che il criterio per l'ortodossia di una chiesa è la sua successione apostolica. Ma questo non è un criterio inventato da Ireneo, è qualcosa che esiste sin dal Nuovo Testamento, dove infatti è il concilio di Gerusalemme a riprendere alcuni cristiani che avevano turbato i convertiti di Antiochia in quanto il consiglio apostolico non aveva dato loro alcun mandato tramite l'imposizione delle mani, che è ben attestata sia per l'ordinazione dei diaconi e dei presbiteri che degli episkopoi. Sto cercando cioè di dire che difendere la propria causa non significa dire il falso, si sta cioè escludendo a priori che Ireneo abbia tutte le ragioni per difendersi, e visto il contenuto delle eresie che sta confutando nel Contra Haereses lo credo bene: queste eresie infatti sono delle autentiche cosmogonie gnostiche, e dunque a meno che non si voglia sostenere che Gesù credeva ad arconti e pleroma temo che avesse tutti i motivi di dire che costoro non derivavano dagli apostoli. Si sta cioè escludendo a priori che difendendosi si possa dire il vero, il che è una pregiudiziale incostituzionale. Finora hai solo mostrato che Ireneo avrebbe potuto avere un movente per mentire sulla fondazione della Chiesa di Roma, ma non hai dimostrato che esista una frode, bensì solo che avrebbe avuto un motivo per compierla. Siamo cioè di nuovo caduti nello schema della colpevolezza fino a prova contraria. Inoltre c'è una cosa che non è stata valutata, ossia che Ireneo dice chiaramente che per confutare gli eretici si serve di un esempio a tutti noto, cioè della Chiesa di Roma. La forza della sua argomentazione non sta nel fatto che deve creare una posizione alla Chiesa di Roma ma nel fatto che la Chiesa di Roma ha già questa posizione, altrimenti non avrebbe senso citarla contro gli eretici. Inoltre devo fare un serio appunto al tuo metodo storiografico. Se anche il Filoramo avesse sostenuto la tua posizione, e non è così, o tu mi dici che questo manuale è infallibile, e allora stai credendo ad un infallibilità papale laica, oppure ti decidi a scendere dal piedistallo e mi fai il santo piacere di rispondere quando ti vengono citate delle fonti. Si fa ricerca non parandosi dietro ad un nome e dicendomi che se fosse come dico io di sicuro questo esimio studioso lo saprebbe, perché in questo caso non c'è più nessuna discussione, e inoltre tu escludi la possibilità, e la escludi per ignoranza, che altri studiosi anche più qualificati su uno specifico argomento dicano l'esatto contrario. O un solo autore è diventato il metro di misura universale oppure cioè che non è detto da uno può essere stato affrontato e approfondito da altri (e anche con differenti posizioni, perché è questa la ricerca, altrimenti tagliamo i fondi ai ricercatori e stiamo a crogiolarsi nella conoscenza acquisita). Non si può avere una preparazione specialistica in tutti i campi, e anche conoscendo tutte le fonti su un determinato argomento non significa voler dare loro la stessa interpretazione degli altri studiosi, da qui la necessità di discutere, perché a volte si ragiona in base all'ideologia. Per di più devo confessare che a pagina 196 della mia edizione, quella a cui appartiene la frase da te citata, Filoramo non dice nulla contro questa testimonianza, si limita a fare la constatazione che difende la cosiddetta “grande Chiesa”, senza sbilanciarsi nel dire se avesse ragione o no nel farlo. Il problema come è stato giustamente detto di non conoscere o meno i fatti ma conoscere le categorie storiografiche in cui inquadrarli.
Si dice poi che la mia frase sul martirio non ha senso: intendevo semplicemente dire che quando il cristiano non è in pericolo non ha ragione di desiderare il martirio o di amarlo, mentre il martirio può diventare una cosa positiva quando stai per subirlo, in quel caso infatti la tua vita è finita e contempli il martirio come modo di passare alla gloria celeste.
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Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
(Κ. Καβάφης)
01/02/2007 21:30
 
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Si è poi veramente sorpassato ogni limite della decenza dicendo che Roma sarebbe diventata la sede più importante perché elargiva denaro(mi si trovi un solo stoprico che sostiene una boiata simile!). Tutto ciò che le fonti antiche invece ci dicono è che nei primi tempi la comunità di Roma era sollecita verso i bisogni degli altri fratelli. Anzi per essere precisi mi ricordo una sola testimonianza che lo dice, Dionigi di Corinto, che tuttavia non si sogna nella sua lettera di dire che il primato romano viene da questo, bensì come egli stesso afferma esso viene dalla “piantagione” che Pietro ha piantato a Roma. Il tuo è stato rozzo tentativo di cercare una spiegazione del perché l'Oriente avrebbe dovuto scegliere proprio Roma come comunità paolina guida invece di altre comunità paoline orientali come Efeso, e a meno che tu non abbia testimonianze di bustarelle, o per essere più seri di questo ipotetico " elargire a tutto spiano", e soprattutto finché non avrai una teoria logica del come questo sia in connessione con un primato dottrinale nei secoli, è meglio se eviti certe uscite ridicole. Inoltre io non ho detto che l'episcopato monarchico è presente sin dal primissimo cristianesimo, infatti i vescovi sono i successori degli apostoli, e dunque finché ci sono gli apostoli non c'è alcun episcopato monarchico. Quello che sto contrastando è idea che esso sia sorto nel secondo secolo. Una data molto più probabile stando alle fonti è la fine del primo secolo, cioè quando gli apostoli erano spariti e le comunità dovevano organizzarsi. Ho fatto questa deduzione poiché dalle lettere di Ignazio scritte nel 107 si evince che tale forma di governo era già diffusa in tutte le comunità a cui egli scrive, e sono comunità di primo piano come Efeso o Smirne; or bene Ignazio non è morto a vent'anni, era già vescovo, e per giunta vescovo di Antiochia, la prima cattedra di Pietro, una delle tre comunità più importanti di quel tempo insieme ad Alessandria e Roma. O si vuole seriamente sostenere che quegli episcopati di cui egli parla sono sorti nei sette anni precedenti, oppure si deve ammettere che già nel primo secolo esisteva l'episcopato monarchico. Se ci sono delle posizioni differenti è unicamente perché prima di Ignazio abbiamo un autentico buco. C'è ovvero chi ipotizza un'evoluzione e chi invece sostiene che questo modello si sia formato dopo la dipartita degli apostoli, magari sul loro esplicita richiesta. Non c'è modo di dirimere una simile questione, tutto quello che possiamo dire è che a fine primo secolo l'episcopato monarchico esisteva. Il buco che precede Ignazio infatti non attesta modi di governo alternativi, e dunque non è utilizzabile in alcun modo né per un partito né per la parte opposta. L'unico precedente sono gli Atti degli apostoli, ma come ho detto essendo i vescovi i loro successori è ovvio che non è possibile sostenere l'esistenza di un episcopato monarchico mentre erano ancora vivi i 12. Mi si dice poi che non c'è alcuna testimonianza coeva del fatto che Pietro lasciò a Roma un successore, eppure questa deduzione è logica una volta che si sia dimostrato che ha diretto quella comunità infatti è ovvio che alla sua dipartita abbai scelto chi doveva guidare la comunità al suo posto. Siamo di fronte all'ennesimo argumentum e silentio (fino a fine I secolo almeno, perché poi la predicazione di pietro a Roma è attestata). Non si è ancora cioè capito che non è che abbiamo storici che ci parlino dell'organizzazione ecclesiastica di Roma e che questi ci dicano di modelli alternativi a quello che sto proponendo, semplicemente non abbiamo nessuno che ci parli di come fosse organizzata la comunità di Roma negli anni 60, quindi non è rilevante che nessuno ci dica niente, infatti si parte dalla errata prospettiva che quella gente stesse pensando a noi del ventunesimo secolo e dunque avrebbe dovuto per forza commissionare a uno storico di scrivere un libro per parlarci di come stavano andando le cose in quella comunità. Vorrei ricordare che mettersi a scrivere opere letterarie non è una cosa che nel mondo antico riusciva a tutti, in una città che a quel tempo contava un milione di abitanti come Roma, abbiamo per quell’arco cronologico una quindicina di scrittori pagani di cui ci sono rimaste le opere (considero dal 60 al 180 d.C.), e nessuno scrittore cristiano fuorché Clemente Romano (i pagani sono Seneca, Lucano, Petronio, Persio, Giovenale, Stazio, Valerio Flacco, Silio Italico, Plinio il Vecchio, Marziale, Quintilliano, Plinio il Giovane, Tacito, Svetonio, Apuleio). Questo solo per fare una statistica, che sarebbe da abbassare ancora di più perché non ho citato solo storici ma anche poeti). Se su milioni di persone ci sono rimasti una quindicina di scrittori romani coevi, perché mai dunque dovremmo aspettarci che proprio uno storico cristiano dimorasse nella comunità di Roma del primo secolo e avesse voglia di raccontare quello che gli succedeva intorno? Anzi, non dico neppure che dovesse essere uno storico, anche la probabilità che tra la piccola comunità di Roma ci fosse uno scrittore generico è insignificante. Se ipotizziamo, puramente a caso, che la comunità cristiana di Roma fosse di mille persone, giacché la percentuale di scrittori è 15 su un milione, la probabilità che su quei mille ce ne sia uno sarebbe dello 0,015%, cioè praticamente inesistente. In quella comunità non avevano preoccupazioni di apologetica, non avevano nessun protestante del sedicesimo secolo da smentire. Era una comunità che banalmente viveva la sua fede. Stai pretendendo dalla storia antica un livello di certezza e di coerenza che nessun antichista pretenderebbe mai, e questo perché non sei abituato a lavorarci. Per di più uno la comunità cristiana primitiva era convinta dell’apocalisse imminente, ed è uno degli argomenti che si usano per posdatare i Vangeli, infatti come è stato giustamente osservato chi è convinto della prossima fine del mondo non si prodiga certo nell’arte di scrivere testi per i posteri. Non gliene fregava niente di scrivere un testo di storia, come se pensassero di essere qualcosa di particolare, un unicum da tramandare alle future generazioni. Gli unici generi letterari che possiamo aspettarci in una comunità convinta che la fine incomba sono quelli che servono nell’immediato, cioè lettere per comunicare ed esortare e anche letteratura apocalittica. Motivo per cui i Vangeli compaiono solo dopo il 70 (ovviamente con la datazione standard).
Quanto all'unica testimonianza che ci parli di Roma nel primo secolo, cioè Clemente, guarda caso nome proprio Pietro e Paolo (non è proprio l’unica, c’è anche Papia, ma questo dopo). Ma siccome non sta parlando della struttura della sua comunità, non c'è ragione di aspettarci nell'unica sua lettera che ci è rimasta parli di qualcosa di simile: si tratta infatti di una lettera esortativa per un'altra comunità cristiana perseguitata da Domiziano, e non si vede proprio perché dovrebbe mettersi a parlare di come funziona la gerarchia romana; e non c'è ragione di aspettarsi una descrizione del genere se tanto più i romani erano consapevoli che anche i corinzi avevano una struttura simile e dunque non c'era ragione di parlarne. Quello che si può ricavare da quella lettera è che Clemente dà degli ordini a Corinto e addirittura minacci l'ira di Dio per chi gli disubbidisce. Se questa voi la chiamate correzione fraterna a me va anche bene, ma la correzione fraterna si può fare sia da una posizione di altezza sia da una posizione di parità, e questo decisamente è il primo caso altrimenti non si spiega il tono. Non so poi cosa diavolo centri l'idea della letteratura antigiudaica creata ad hoc, né cosa c’entri la citazione di Filoramo circa questa letteratura.
Innanzitutto non so neppure se hai capito quello che hai letto, infatti l'autore non dice che questi scrittori cristiani mentano sapendo di mentire, spero che tu sappia la differenza tra finzionalità, che secondo la teoria dei generi è tra l'altro la caratteristica di qualunque testo narrativo, e la menzogna. La letteratura finzionale è quella che presenta situazioni, persone, oggetti, e fatti inventati, e come tale fanno parte di essa i romanzi con una storia inventata di qualunque genere o anche dialoghi filosofici come quelli di Platone dove s'inventano situazioni per il dialogo. Quando Filoramo dice che questi testi sono funzionali non sta dicendo che mentano su qualcosa ma che inventino situazioni, ad esempio Giustino immagina di avere un interlocutore e di passeggiarci insieme mentre discute, esattamente come Platone inventava i dialoghi e gli ambienti in cui si svolgevano i suoi dialoghi. Una definizione di “finzionalità” aggiornata si può trovare nel saggio “Finktionalität und poetizität” di Lutz Rühling in “Grendzüge der Literaturwissenschaft”, Munchen 1996, traduco un passaggio dall’introduzione su www.amazon.de : “I testi finzionali formano una determinata classe di testi che trattano di figure, oggetti, e avvenimenti inventati”. Questa definizione è sintetica, precisa, perfetta. Punto.
Riguardo poi al fatto che gli argumenta e silentio non valgano nulla, mi si obietta che in una lettera simile se Clemente avesse conosciuto Pietro ne avrebbe parlato. Ora, a parte che trovo molto presuntuoso il pensare di poter essere nella mente di qualcuno, il sapere gli scopi per cui scriveva con precisione, e quindi poter stabilire matematicamente se gli sarebbe passato per la mente di nominare qualcuno; a parte tutto questo come dicevo, Pietro Paolo sono nominati, e si dice appunto che divennero un grande esempio fra di loro. Chi si aspetta altro deve ricordarsi che questa lettera è per consolare di una persecuzione, non per dare una descrizione di come funzioni la comunità romana. Chiedo poi di nuovo dove avresti appreso che Pietro passò il suo soggiorno a Roma in cattività, veramente non riesco a spiegarmelo. Mi si dice inoltre che quanto ho scritto non significa alcunché se non che Corinto avesse a cuore la comunità di Roma, ma si dimentica volutamente che in quella lettera di Dionigi non c'è scritto solo questo, bensì che dopo aver predicato a Corinto pietre Paolo lo fecero anche a Roma, e per questo le due chiese sono in un certo senso sorelle, perché gli apostoli hanno piantato la stessa vite in entrambe: Roma ha un surplus dato dal fatto che in essa l'apostolo morì. Quanto alla disputa di Aniceto abbiamo davvero toccato il fondo, mi si sta cioè dicendo che se Pietro fosse stato il capo della comunità di Roma allora il Papa, pur sapendo che è un'usanza non era riconducibile a lui, avrebbe dovuto mentire. Io francamente mi sentirei un po' offeso fossi in Aniceto.
Invece ritengo che se San Pietro è stato veramente il capo della comunità di Roma qualcosa di buono deve aver pur insegnato, è tra le cose di sicuro c'è anche il fatto che il diavolo e il padre della menzogna, come dice Gesù. Per di più non stava parlando con un idiota ma con San Policarpo, discepolo di Giovanni. In definitiva se anche Aniceto fosse stato un disonesto, non avrebbe funzionato una menzogna in cui si sosteneva l'origine apostolica di un'usanza che non era apostolica, perché il suo interlocutore gli apostoli li conosceva di persona. Da ultimo si afferma che molte volte nella storia ci si è richiamati all'insegnamento di Pietro affermando cose che Pietro non avrebbe mai detto: ma siccome di Pietro ci è rimasta soltanto una lettera, giacché la seconda non è sua, viene da chiedersi come tu possa sapere cosa pensasse Pietro soltanto da poche righe. Sarebbe un modo di ragionare da Sola Scriptura, del tutto incompatibile con la predicazione orale del cristianesimo primitivo. Inoltre quando il papa di Roma parla in nome di Pietro lo fa intendendo qualcosa che nulla ha a che fare con una rivendicazione che Pietro avrebbe detto proprio quella cosa nella comunità di Roma, l’autorità del Papa infatti è di discernimento per le sfide della fede anche nel futuro, discernimento in problemi che al tempo di Pietro non erano neppure ancora ipotizzabili né erano stati aperti. Lo Spirito Santo e gli apostoli per la teologia cattolica assistono il successore di Pietro non nella mera ripetizione della catechesi orale del I secolo ma nella capacità di decidere in base allo Spirito apostolico quale posizione avrebbe preso Pietro di fronte alle sfide del presente se fosse nato nella nostra epoca. E’ cioè del tutto diverso dire che in quanto successore di Pietro si riconosce che c'è stata una maturazione teologica di una dottrina e che tale dottrina dunque può definirsi ortodossa con l'avallo del successore di Pietro, e invece l'affermare che una dottrina nella sua stessisima formulazione risalga all'apostolo. Il successore di Pietro non ha il compito di fare da pappagallo del Pietro storico, né Pietro né Paolo sono la Chiesa, e Gesù stesso disse che lo Spirito avrebbe condotto la Chiesa ad una maturazione successiva alla sua morte. Si tratta del famoso pezzo in cui si afferma " molte cose ho ancora da dirvi ma per il momento non siete ancora in grado di portarne tutto il peso, quando verrà lo Spirito Santo egli vi guiderà alla verità tutta intera".
Inoltre è stata del tutto scavalcata, limitandosi a dire che non è convincente, la mia confutazione di una presunta contraddizione tra Tertulliano ed Ireneo, dimenticandosi evidentemente che usare aggettivi contro le teorie del proprio interlocutore è segno che si è rimasti senza sostantivi, Voltaire docet. Nel brano di Tertulliano infatti non si dice che Clemente succedette a Pietro ma che Clemente era stato consacrato da Pietro. quindi o si vuole sostenere che Pietro abbia consacrato una sola persona nella sua vita, oppure il fatto che ci sia un Clemente consacrato da Pietro ma non succedutogli, non è assolutamente strano. Devo inoltre rammentare che se abbiamo testimonianza dell'imposizione delle mani di Pietro ad Antiochia non è per la pur pregevole importanza di questa comunità, che in seguito fa parte della pentarchia, ma unicamente perché ne parlano gli Atti degli apostoli. Perché ne parlano? Per la banale ragione che Luca non ha raccontato i viaggi apostolici più importanti ma i viaggi apostolici a cui ha assistito, e solo quelli. Per saperlo basterebbe aver letto il canone muratoriano.
Quanto alla tua analisi di Ignazio, è stata citata da Barnaba e quindi ho risposto ad essa nel post che ho indirizzato a lui, che spero vivamente tu abbia già letto. È veniamo a trattare uno degli ultimi punti. Si afferma che Pietro non aveva la carta " 1000 miglia" dell'Alitalia, e che dunque non poteva andare e venire da Roma in pochi giorni quando gli pareva e piaceva. Innanzitutto io non ho affermato che andasse e venisse in pochi giorni, infatti mentre i nostri aerei impiegano 2 h per andare in Grecia a quel tempo ci si metteva una settimana. Abbiamo le testimonianze scritte sulla velocità dei tabellarii e ci è rimasta ad esempio la notizia che una nave che partiva da Corinto arrivava nel porto di Pozzuoli in una settimana, 5 giorni per la precisione. Né ho inteso affermare che si assentasse da Roma una settimana ogni tanto, per quanto mi riguarda può essere mancato anche con intervalli di anni, a seconda di dove era necessaria sua opera. Un'estrema mobilità del principe degli apostoli non è contestabile. A chi fa una facile ironia sui viaggi vale la pena di ricordare un personaggio come Paolo: lo sappiamo in diverse comunità all'interno di un medesimo anno. Ad esempio nel 46 era ad Antiochia, Cipro, Antiochia di Pisidia, Listra, poi di nuovo Antiochia di Siria. Negli anni che vanno dal 49 al 52 stette a Listra, in Frigia, in Galazia, a Filippi, a Tessalonica, ad Atene. E’ sempre all'interno di questo arco di tempo nel 51 era a Corinto, nella primavera del 52 era davanti a Gallione sempre in Acaia, e l'estate di quell'anno era a Gerusalemme, poi di nuovo ad Antiochia. Potrei andare avanti con gli altri anni ma ho pietà, addirittura di una permanenza ad Efeso nel 54 sappiamo la durata precisa perché ci viene detta: 2 anni e tre mesi.
In teoria dovrei incollare qualche cartina con i viaggi di Paolo, così ci si farebbe un'idea di quanto gli apostoli potevano muoversi. È volendo elencare le località in cui sappiamo che l'apostolo è stato dovremmo dire: Gerusalemme Cesarea, Damasco, Tiro, Sidone, Mira, Patara, Rodi, Creta, Malta, Siracusa, Pozzuoli, Foro di Appio, Tre Taverne, Roma, Antiochia, Gerapoli, Efeso, Smirne, Troade, Asso, Filippi, Tessalonica, Berea, Atene, Corinto, Seleucia, Salamina, Pafo, Attalia, Perge, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra, Derbe, e mi fermo perché mi sono rotto di elencare.
Mi si accusa poi di essere incoerente nell'affermare da una parte che Roma non può dovere il suo primato dottrinale all'impero, e dall'altra ritenere che essa in quanto capitale avrebbe potuto richiamare Pietro quale capo della missione giudeo cristiana. Un po' di sana istruzione antichistica avrebbe insegnato che le due cose non c’entrano minimamente. Nel primo caso infatti si ipotizzerebbe che dei cristiani attribuiscano il potere dottrinale a una città in virtù del potere politico che in essa risiede (Calcedonia docet), mentre quando dico che Pietro era attratto da Roma quale capitale intendo semplicemente dire che essa ospitava una delle due più grandi comunità della diaspora nell'impero. Paolo è stato richiamato in quella città non perché ci stesse un imperatore ma perché ci stavano degli ebrei; e non sta a te giudicare l'obiettività di qualcuno in merito a questioni di storia antica, non ha gli strumenti per farlo.
Inoltre suppongo che anche tu ti voglia suicidare. Ti avevo accusato di aver copiato le tue coordinate da Internet, ed era seguita la mia richiesta di non disturbarti a citare le coordinate dal sito evangelico che avevo linkato, in quanto erano di una obsoleta edizione critica del 1911. E tu che cosa fai? Mi riporti esattamente le stesse coordinate del sito da cui ti avevo accusato di prenderle. Quel sito è ben noto per la sua incompetenza, copia a sua volta da un noto libercolo finito in rete opera di Fausto Salvoni, ex-cattolico arrabbiato diventato protestante che si diede alla composizione di notissimi libelli anticlericali. Ora a me non interessa se hai copiato quella citazione dal sito evangelico o dai pamphlets di Salvoni , ovviamente trovati anche questi in Internet, basta che non pretendi di dare a bere a qualcuno di averli trovati su un supporto cartaceo, da uno "studio serio" come tu l'hai definito. Non vorrei inoltre sottolineare che non si vede proprio come un pagano di fine terzo secolo dovrebbe saperne di più dei cristiani del secondo secolo. Ma soprattutto la domanda è come avrebbe potuto saperne di più, visto che questo tipo di informazioni sulla morte degli apostoli erano tramandate all'interno delle comunità cristiane e dunque nessuno meglio di queste ultime avrebbe potuto saperlo? Per fare critica delle fonti occorre chiedersi quale sia la fonte di Porfirio, visto che la sua unica fonte avrebbero potuto essere i cristiani che tuttavia a fine terzo secolo non si sognavano di mettere in dubbio il ruolo di Roma. Per di più come tutti gli opportunisti pagani Porfirio è del tutto disinformato sul cristianesimo. Per chi non lo sapesse l'edizione critica dei cui oggi gli studiosi citano Porfirio è la seguente "Porphyrius fragmenta", ed. di Andrew Smith, Leipzig, 1993.
Lo dico unicamente perché un'edizione che ha più di cent'anni oltre a essere impossibile da reperire non può competere quanto ad accuratezza con una edizione che ne ha solo 14.
Quanto all'obiezione che sia difficile il fatto che a Pietro sia stata affidata la missione giudeo-cristiana in tutto l'ecumene basta replicare che la missione in parallelo, quella di Paolo verso i gentili, non ha conosciuto limiti geografici e si è protesa fin a Roma, ed essi erano ben più numerosi dei giudei; non si vede dunque perché una missione ecumenica di San Pietro dovrebbe fare problemi, specie perché le fonti in nostro possesso non ci dicono di alcuna limitazione di sorta.
Il problema successivo è quello dove mi si chiede di quale coro io stia parlando, e vorrei ricordare che in quel frangente non stavo parlando del primato petrino ma della presenza di Pietro a Roma, e credo proprio di avere prodotto un coro polifonico. A futura memoria "ex" va davanti alle parole latine che iniziano per vocale, "e" davanti a quella che iniziano per consonante. E lo dico non perché voglia mostrare che non sai il latino, è un errore comunissimo che faccio anch’io molto spesso perché raramente coloro che scrivono libri conoscono la grammatica latina e dunque la mia mente si è assuefatta a questi errori, bensì lo dico perché in futuro potrebbe capitarti che un latinista legga i tuoi post, ergo " e silentio". Ad ogni modo non hai capito il senso del testo che avevo citato, quando ho scritto che non c'è bisogno in una lettera mandata alla comunità tramite il capo di nominare il capo stesso, intendevo dire Paolo avrebbe spedito la sua lettera ai romani facendola arrivare alla comunità tramite San Pietro e che dunque avrebbe potuto o avergli dato la lettera di persona e dunque averlo salutato faccia a faccia, oppure aver fatto consegnare la lettera da un messaggero a cui aveva affidato un messaggio verbale a parte per Pietro. Ma come già detto non c'è alcun bisogno di sforzare la testa con queste ipotesi, basta rispondere che Paolo sapeva che Pietro non era Roma in quel momento.
Alcuni studiosi invece hanno preso come un paletto cronologico l'assenza di saluti a Pietro per dedurne che non era ancora arrivato a Roma, e siccome ci sono due date possibili per la lettera ai romani, ossia il 52 e il 57, qualora ci si volesse attenere a questa linea di pensiero si dovrà dire che Pietro è venuto a Roma dopo la prima o la seconda data.
Quanto poi al tuo accostamento con le procedure diplomatiche moderne è del tutto infondato, vorrei proprio sapere in quale testo della letteratura antica avresti trovato in parallelo di quello che dici, cioè che qualcuno scriva ad uno stato e pur sapendo che il suo sovrano era assente lo saluta. E se anche lo trovassi non vedo cosa c’entri, non stiamo parlando di un capo di Stato eletto, stiamo parlando di un servitore di Dio nella sua opera di evangelizzazione. Se Paolo sapeva che non era lì, e visti gli scambi di notizie tra le comunità di sicuro lo sapeva, a che pro salutarlo?
Inoltre vorrei che fosse chiaro cosa si intende con argumentum e silentio: quando si dice che non si può negare che Pietro abbia designato un successore per il semplice fatto che mancano fonti coeve, non si sta affatto chiedendo una fonte del primo secolo che sbugiardi un futuro falso storico, cioè una fonte che dica " Pietro qui non ha ordinato nessuno". parlare di argumentum e silentio significa dire che dalla mancanza di fonti non si può dedurre una prova in negativo. Vale a dire che da un silenzio non si può dedurre né una tesi né il suo opposto, infatti gli argumenta e silentio come già spiegato valgono solo qualora ci sia un'assenza di menzione a qualcosa in un testo che parli dell'argomento che ci interessa. Se cioè, per fare un esempio inventato, in un secolo di letteratura latina non c'è rimasto per ipotesi alcun testo che ci parli della guerra presso i Parti, è inutile rigettare una fonte di due secoli dopo che ci dà il nome di quel generale che combatté contro i Parti solo perché nessuna fonte coeva alla guerra ha fatto il suo nome: infatti noi non abbiamo alcuna fonte coeva che parli di quell'argomento quindi è inutile stupirsi che quel nome non salti fuori. Ci si può stupire che manchi la genealogia dell'episcopato Romano solo qualora avessimo un testo del primo secolo che ci parli dell'organizzazione della Chiesa di Roma, non per smentire una menzogna che ancora non sapevano sarebbe venuta, bensì un testo che ci faccia sapere di un modello alternativo. L'obiezione secondo cui Ireneo potrebbe dire quello che vuole ma bisogna vedere se le altre chiese sono d'accordo con lui, dimentica quale sia la struttura di quel testo.
Non cita Roma contro gli eretici nel tentativo di crearle una fama, al contrario ha bisogno della città contro gli eretici perché ha già una fama.
Il suo argomento contro gli eretici non avrebbe senso, non avrebbe appiglio se ciò a cui si sta appellando non avesse alcuno charme su di loro. Infatti la chiama la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, ed è proprio perché lo è che può usarla, altrimenti tanto valeva citare qualunque altra Chiesa. Tuttavia è bene ricordare che Ireneo benché vescovo francese era originario dell'Asia minore, discepolo di Policarpo, e dunque rappresenta anche il punto di vista orientale. Tuttavia giacché mi si chiedono altre fonti, orientarli ovviamente, non avrò problemi a citarle. Per ora mi basti dire di quanto sia contraddittorio dire che non si ritiene che Roma sia diventata la comunità più importante in virtù della città di Roma ma in virtù della comunità che vi abitava, e poi sostenere che il canone 28 di Calcedonia ha visto giusto, infatti in esso si dice che i privilegi furono accordati a Roma perché "era la città imperiale", e ripeto, la città imperiale. Vale a dire che per Calcedonia il fatto che la città sia la sede della capitale dell'intero è un valore positivo, e non per niente hanno un imperatore che gli para il culo da dietro; penso sia inutile spiegare perché questa non poteva essere la posizione dei primi secoli, non si poteva ammirare una città in quanto sede dell'impero che li perseguita. Occorrerà ritornare brevemente su cosa significhi argumentum e silentio, infatti non è un argumentum e silentio dire che se qualcosa non è nominato non vuol dire che non esista, è un argumentum e silenzio dire che se qualcosa non è nominato allora non esiste.
Infatti nel primo caso dal silenzio non si ricava niente, cioè non si ricava né che qualcosa esista né che qualcosa non esista, mentre dal secondo caso si ricava qualcosa, cioè che quella cosa non esista, siamo cioè di fronte ad un argumentum per derivare qualcosa. Questo lo dico unicamente come precisazione perché non sia mai che chi ci legga si faccia delle errate idee sulla logica deduttiva e la sua terminologia, ci tengo troppo al fatto che si possa imparare qualcosa di positivo leggendo questo forum… Chiamatela deformazione professionale.
Vorrei inoltre pregarti non scambiare la tua ignoranza manualistica per il parere della comunità scientifica. Sull'episcopato monarchico ci sono ben tre scuole di pensiero, e se tu hai scambiato una di esse per dogma non è un mio problema. Se vuoi una bibliografia aggiornata per ciascuna delle tre posizioni, e ovviamente parlo delle principali, basta che me lo fai sapere. Tra parentesi il problema non è se durante il periodo apostolico ci fosse un episcopato monarchico, perché chiunque sa che non c'era e basta leggere gli Atti degli apostoli per saperlo. Il problema sta in quei trent'anni che vanno dalla scomparsa degli apostoli all'inizio del secondo secolo. Siccome all'inizio del secondo secolo abbiamo Ignazio che ci descrive una situazione già ì definita e assai diffusa io propendo nel dire che alla morte degli apostoli le singole comunità, nel loro collegio di presbiteri, avessero eletto un capo. È non c'è alcun modo di sapere se in questi trent'anni, soprattutto perché non sappiamo se le comunità fossero omogenee, ci sia stato o questo modello appena enunciato, cioè i presbiteri locali che eleggono un vescovo, o un semplice governo di presbiteri e magari di più vescovi. Quello che vorrei far notare è che Ignazio ha una teologia così rigida a inizio secondo secolo che viene proprio da chiedersi come abbia fatto a svilupparsi nella sua mente nei primi soli sette anni che lo separavano dall'anno 100. È evidente, visto che per di più si tratta di comunità molto importanti, e che Ignazio era nientemeno che amico di Policarpo di cui c'è rimasta pure una lettera a lui indirizzata, che egli ne sapeva qualcosa di più degli storici moderni. Un parere a mio avviso illuminante, e che tanto per essere chiari rappresenta la terza scuola di pensiero, è quella del grande biblista McKenzie. Nel suo dizionario biblico egli commenta così l'episcopato: "Probabilmente il supremo governo di ogni comunità continuava a rimanere nelle mani dell’apostolo che l’aveva fondata, sotto la direzione del quale i vescovi locali dovevano amministrare gli affari. Dato che sia prima della fine del I secolo si trovano chiese sotto un unico vescovo (ad es. Ignazio) si può presumere che uno dei membri del collegio fosse eletto a succedere all’apostolo, dopo la morte di lui, come capo monarchico della Chiesa” (John L. Mckenzie, Dizionario Biblico, Assisi, 1981, Cittadella Editrice, pag. 1032). Questo è tutto quello che si può dire dai dati, il resto è interpretazione libera su un arco di tempo di trent'anni di cui sappiamo poco o nulla e di cui francamente mi importa poco o nulla. Temo che dietro queste manie contro la gerarchia che sia il pregiudizio protestante che vuole un rapporto con Dio senza mediazioni, ossia tutta la retorica della presunta ingombrante mediazione del clero che sarebbe da scavalcare. Come ho già avuto occasione di scrivere, da parte mia ritengo che siano stati gli apostoli stessi, non certo malati di cripto-anarchia come i protestanti, a stabilire nelle comunità che fondavano gli episkopoi che loro volevano. Da un punto di vista meramente organizzativo o i dodici erano dei meri sprovveduti e volevano che alla loro morte la Chiesa piombasse nel caos con nessuna voce in grado di dire che cosa fosse giusto, oppure avevano lasciato il potere in mano a della gente in grado di dirigere il gregge al posto loro. Questo passaggio di consegne tra apostoli e vescovi è avvenuto nell’epoca della disillusione, quando ci si pose il problema della continuità e della permanenza perché la tanto agognata fine del mondo non era giusta, è lo stato di disillusione che si registra nelle lettere deutero-paoline. E vi assicuro che la democrazia nella gestione delle cose di fede non è mai stata una buona idea, infatti oltre ad una critica filosofica che le potrei fare in quanto la verità non si decide a colpi di maggioranza, resta il fatto che non è per nulla attestata nel mondo giudaico quale forma di scuola rabbinica.. In questa chiave di retta trasmissione del deposito di fede ad esempio Clemente d’Alessandria ci dice che Giovanni si trasferiva di città in città per fondare comunità e “stabilirvi dei vescovi” (Quis dives salvetur, 42) Paolo stesso ci parla della trasmissione della Traditio accanto allo scritto: “le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri.” (2 Tm 2,1) ed è proprio perché il nuovo testamento presenta molto spesso i caratteri di una scuola rabbinica che alcuni si sono messi a chiamare Gesù "rabbi" (ed è il NT stesso ad attestarlo).
Di tutto ciò parlo molto spesso con gli amici protestanti, e sto a dir poco faccendo delle discussioni clone anche questa volta: trovo tutto ciò noiosissimo.
Quanto alla questione di presunte altre lettere che sarebbero giunte alla comunità di Corinto oltre a quella di Clemente, purtroppo sappiamo solo di quella che le venne da Roma, coi suoi bei toni. Non si tratta cioè solo dell'assenza della fonte diretta, cioè le presunte lettere delle altre chiese non pervenuteci, infatti è più che ovvio che, qualora vi siano state, siano anche andate perdute, ma il fatto è che non abbiamo neppure notizie indirette di queste lettere. Questo ovviamente non vuol dire che non siano esistite, ancora una volta dal silenzio non si può dedurre alcunché, e io mi sono limitato a dire questo. Poi è ovvio che il salto della fede lo fa solo chi vuole, io mi limito a dire che Roma scrive ad una comunità orientate, e che si può certamente chiamarla correzione fraterna ma che quella lettera contiene degli ordini e delle minacce, quindi è una correzione fatta dall'alto. Inoltre non capisco davvero cosa sia tutto questo insistere sul fatto che Clemente parla a nome della sua comunità. Ciò è del tutto ovvio in quanto ancora oggi i vescovi parlano a nome della loro comunità, anzi a norma di diritto canonico antico un vescovo può essere eletto dal capitolo dei canonici della cattedrale metropolitana. Tuttavia non vedo come il fatto che una Chiesa si è radunata intorno al suo vescovo, diminuisca il potere di quest'ultimo. Come dirà Ignazio 11 anni dopo " dove c'è il vescovo, lì ce la Chiesa". Ho trovato poi particolarmente divertente come si consideri Girolamo non istruttivo perché del quarto secolo, mentre si pende dalle labbra di un canone di un concilio del quinto secolo. Incoerente vero? Qualcuno poi mi deve spiegare cosa diavolo sarebbe questa predicazione paolina e in cosa differirebbe dalla predicazione di San Pietro (Pietro infatti era molto più vicino a Paolo che non a Giacomo, e Paolo ad Antiochia non rimprovera a Pietro la dottrina ma la coerenza, anzi gli dice che egli normalmente vive come un pagano, ma oggi a causa dei suoi confratelli giudei “bigotti” si mette a fare l’osservante. “Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?” (Gal 2,14). Come già detto sono stanco di sentirmi citare dei modelli se poi non li si sanno contestualizzare, e soprattutto se li si applica male. Facciamo un sunto della questione: avevo chiesto perché mai la comunità di Roma dovrebbe essere preminente sulle altre in quanto di comunità paoline era pieno l'impero, e mi si è risposto prima che era causa del potere imperiale di Roma, poi ci si è rimangiati tutto ed è diventato a causa della bravura nel martirio dei romani. A tutto ciò io ho replicato che sin dal primo secolo Roma non è stata l'unica sede di martirio, infatti l'unica persecuzione esclusiva di Roma è quella di Nerone, già a fine primo secolo come vediamo a Corinto c'è la terribile persecuzione di Domiziano che pretendeva di essere chiamato "dominus et deus", immaginate con quale gioia dei cristiani…
Passiamo ad un argomento squisitamente teologico ossia come sia possibile che se 12 apostoli erano guidati dallo spirito Santo fossero in disaccordo su temi di fondamentale importanza dottrinale. Innanzitutto vorrei sapere quali sono questi termini, ma temo di sapere la risposta: quali pratiche giudaiche debbano osservare i convertiti provenienti dal paganesimo. La risposta è che lo spirito Santo non ha concesso l'infallibilità ai singoli ma alla Chiesa, che ricordo è insieme dei fedeli, motivo per cui è nel concilio ecumenico che si ha lo strumento di infallibilità. Se si legge il decreto del concilio di Gerusalemme tenuto dagli apostoli si vedrà infatti che esso inizia con " abbiamo deciso lo spirito Santo e noi che…". Tanto per essere precisi quando ho detto che Dio non ha concesso l'infallibilità ai singoli, sarebbe utile leggersi il testo del concilio Vaticano I "Pastor aeternus" dove fu definita l'infallibilità papale, e in cui si spiega chiaramente che l'infallibilità non è del papa ma è l'infallibilità della Chiesa. Il papa serve da sentinella, e parla come interprete della tradizione viva e dinamica, essa è lo scrigno da cui estrarre cose vecchie e cose nuove per affrontare i tempi: e serve una sentinella perché come già detto la democrazia ha dei limiti, si può eleggere anche Adolf Hitler. Motivo per cui un Concilio per essere ecumenico deve avere rappresentata Roma e le sedi della pentarchia, che primeggiano. Ovviamente non ho alcuna intenzione di parlarne in questo messaggio, è teologia di alto livello e se vorrete discuterne aprite un messaggio a parte. Vorrei poi ricordare che qualcuno ho parlato del martirio degli apostoli come fondamentale per il prestigio di Roma non ho escluso la successione apostolica, semplicemente quest'ultima non è l'unica causa del primato di Roma, e forse non è neppure la più importante.
Ti ricordarti inoltre, dinnanzi alle tue recriminazioni, che non hai citato degli storicI bensì uno storico, di cui non hai capito due tesi su tre, e vorrei capire quale monografia mi avresti citato visto che sostiene di averlo fatto. Vorrei poi dire che quando parlo della portata intellettuale delle persone lo faccio per lunga esperienza, so cioè che gli anni di liceo e di università preparano le categorie mentali per apprendere e per capire determinate questioni, senza di essi i testi vengono puntualmente fraintesi ed io mi trovo nella situazione in cui si trova uno storico delle religioni che cerca di parlare dell'Islam a un leghista, semplicemente è impossibile. Non si discutono i dati se non si conosce il contesto, lo sfondo in cui sono inseriti, e quello sfondo si chiama impero romano, uno dei mondi più complessi che esistano e che si apprende in anni ed anni di sforzi.
Un ultimo accenno alla questione di Clemente in quanto sostieni che " fra noi" voglia dire "in mezzo a noi cristiani" e non "fra noi romani". Non ho intenzione di escludere matematicamente la tua ipotesi perché non è possibile, la scuola ermeneutica di filosofia dell'Università di Venezia ha proprio come sua tesi portante che l'interpretazione non può finire, e io sono un fedele discepolo di questa scuola. Io mi limito a far osservare alcuni dati che a mio avviso rendono questa tua ipotesi improbabile, poi ognuno decide per sé. Bisogna tener conto di tutto il contesto del testo. Clemente scrive alla comunità di Corinto perseguitata al fine di darle forza, in questo senso l'esempio dei romani che hanno già subito una cosa simile è di conforto e di edificazione. Clemente dunque non può che parlare dell'esperienza che era loro capitata, e paragona i martiri di Roma ad esempi mitologici tipici della cultura dei suoi destinatari, cioè le Dirci e le Danaidi. In questo contesto in cui la comunità di Roma dev’essere di esempio a quella di Corinto Clemente scrive: "osserviamo dunque i nostri gloriosi apostoli", e in seguito descrive e tormenti di Paolo e di Pietro. Il problema è cosa significhi quel nostri, in quanto potrebbe essere un primo indizio che intenda "nostri" come "della comunità di Roma". Questo è tanto più probabile se ci si ricorda che il suo destinatario, "nostri" infatti era doppiamente valido visto che Clemente si rivolgeva ai corinzi, discepoli anch'essi di Pietro e Paolo. Non a caso Dionigi commemorando la lettera di Clemente parla proprio di questo, ossia dell'esempio di Pietro e Paolo portato alle due comunità. Quell' "emon" (di noi\nostri) è in rapporto diretto col "tes geneas emon" che precede, e con il "en emin"(fra noi) che segue. Tanto più che come ho già detto con Cullmann non c'è stata alcuna altra persecuzione a cui Clemente avrebbe potuto riferirsi se non quella di Roma sotto Nerone, che non ha coinvolto altre comunità. Se ne deduce dunque che Clemente può parlare di "nostri apostoli" e del fatto che siano diventati un esempio fra di loro in quanto subirono il martirio in quella comunità (en emin). Per Paolo nessuno ne dubita ovviamente, e il fatto che venga accostato a Pietro in una lista di patimenti che avrebbe subito la comunità di Roma e che può dunque edificare Corinto, significa che ci vuole poco a fare due più due. Un altro indizio seppure indiretto è che quando dice "osserviamo i nostri apostoli" letteralmente c'è un "lathômen pro ophtalmôn", “gettiamo gli occhi su”, come se parlasse di una cosa su cui il suo sguardo è caduto in prima persona, ma tale suggestione linguistica è difficilmente rendibile in italiano. Il problema che ci resta da affrontare è quello della prima venuta di Pietro a Roma che secondo la cronologia tradizionale è del 42 e su che tipo di presenza fu. C’è testimonianza di una predicazione di Pietro a Roma o vi venne solo per subirvi il martirio? Anche nella seconda ipotesi, o lo hanno catturato un minuto dopo che varcò la soglia di Roma oppure per qualche tempo ai romani dovrà pur aver predicato, fossero anche dei mesi. Ma qui si segue il primo indirizzo, c’è una predicazione di anni, sebbene non contigui. La testimonianza più antica di questo è del I secolo: Papia vescovo di Gerapoli (70-150) ci dice che Pietro venne a Roma e vi predicò, su richiesta della comunità primitiva che voleva conservare le parole dell’apostolo dalla trascrizione della sua catechesi orale nacque il Vangelo di Marco. Per i contesti e gli studi sulla venuta dell’apostolo a Roma e sul tipo di comunità ci si basa su quella che da decenni è opera di riferimento, di recente uscita in nuova edizione, “I cristiani e l’impero romano” di Marta Sordi, Milano, Jaka Book, 2004, pag. 31 ss. Occorre chiedersi cioè quali tracce abbiamo della comunità di Roma e se essa presenta i caratteri della predicazione petrina. Siccome Pietro fu ucciso dai romani bisogna indagare quand’è stata la fine del periodo di tolleranza verso i cristiani al fine di poter datare il suo martirio e anche i motivi che lo spinsero a venire a Roma, nonché se si ciò resti traccia nello stesso Nuovo Testamento e a che data questo avvenne. Conosciuti molto presto dal governo romano come una delle sette in cui era diviso il giudaismo palestinese e individuati fin dall'intervento del 36/37 da Vitellio (se non già prima a Roma nelle discussioni del senato nel 35) con il nome di Christiani, i seguaci di Cristo furono considerati favorevolmente, sia in Giudea che nella diaspora giudaica, da quello stesso governo che, almeno fino al 62, manifestò apertamente la sua intenzione di non permettere azioni violente contro di essi e che vide forse nel messianismo senza implicazioni politiche che caratterizzava la predicazione degli apostoli uno strumento da utilizzare per la pacificazione della Palestina, turbata da messianismi politicamente rivoluzionari e apertamente antiromani.
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Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
(Κ. Καβάφης)
01/02/2007 21:32
 
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In Giudea, l'unica persecuzione «statale» che la Chiesa subì dopo il processo di Stefano e prima del 62, si verificò nel periodo in cui la regione fu affidata ad un re locale, Erode Agrippa I, tra i1 41 e il 44, e sottratta al governo romano: il re «colse l'occasione», fece uccidere di spada Giacomo fratello di Giovanni e «visto che ciò faceva piacere ai Giudei» fece arrestare Pietro (At 12,1-3). Gli Atti raccontano che Pietro, liberato miracolosamente dal carcere, «se ne andò in un altro luogo» (At 12,17). Frase che lì per lì, da sola. Lascia alquanto interdetti e ci si chiede perché è stata scritta visto che di primo acchito non vuol dire nulla. Ho già sostenuto in uno dei miei post a Barnaba che in realtà qui si parla del viaggio dell’apostolo a Roma, e con solidi argomenti sia biblici che patristici.
In uno studio recente F. Grzybekl, riprendendo una proposta del Thiede, ricorda che i commentatori antichi e moderni vedono in questo «altro luogo» Roma ed accosta questa espressione a quella identica di Ezechiele 12,3 e 12,13 in cui, «un altro luogo» è Babilonia. Il nome di Babilonia per indicare Roma torna nei saluti finali della 1Pt 5,13, inviati ai Cristiani dell'Asia Minore dalla «comunità degli eletti che è in Babilonia, insieme a Marco, mio figlio». Lo Grzybek spiega che qui non si tratta, come nell'Apocalisse, di una designazione simbolica di Roma, ma di un crittogramma: come Pietro nella sua lettera, così Luca negli Atti, ricorre al medesimo stratagemma per non svelare la presenza e la venuta di Pietro a Roma. Ora non occorre concordare con Grzybekl nel pensare ad un crittogramma per proteggere Pietro, infatti usare un nume simbolico può essere fatto anche perché è un modo di dire conosciuto.
Agrippa I morì nel 44 e questo è il terminus ante quem per la partenza per Roma di Pietro; la data del 42 per l'arrivo dell'Apostolo a Roma si trova nella traduzione latina di Gerolamo del Chronicon di Eusebio, ma le testimonianze più importanti, riferite dallo stesso Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica, sono quelle di Papia di Gerapoli (vissuto fra l'ultimo quarto del I secolo e la prima metà del II), di Clemente di Alessandria e di Ireneo, ambedue della seconda metà del II secolo. Vale a dire che giacché quel “Pietro se ne andò in un altro luogo” parla di un episodio avvenuto sotto Agrippa I, che ricordo imperversò dal 41 al 44, questo coincide magnificamente con la prima venuta di Pietro a Roma nel 42 tramandata dai Padri. La testimonianza di Papia è conservata da Eusebio in due citazioni distinte: nella prima (H.E. 11,15), dopo aver detto che Pietro predicò a Roma all'inizio del regno di Claudio e che i suoi ascoltatori chiesero a Marco di mettere per iscritto l'insegnamento che avevano ascoltato a voce e che essi furono così responsabili (aitious) della stesura del Vangelo detto di Marco, osserva: «Dicono (phasi) che Pietro, avendo conosciuto il fatto per rivelazione dello Spirito (apokalypsntos auto tou pneumatos), godette dell'entusiasmo di quegli uomini (te ton andron prothymia) e confermò lo scritto facendolo leggere nelle chiese (kyrosai te ten graphen eis enteuxin tais ekklesiais». Ed Eusebio aggiunge che la vicenda è raccontata da Clemente nel VI libro delle Ipotiposi e da Papia vescovo di Gerapoli. La seconda citazione di Papia è invece testuale (III,39,15): «Marco interprete di Pietro scrisse con esattezza (akribos) le cose che ricordava, ma non in ordine (ou mentoi taxei), ciò che il Signore aveva detto e fatto. Egli infatti non aveva udito il Signore né lo aveva seguito, ma più tardi, come ho detto, aveva accompagnato Pietro. Egli dava gli insegnamenti secondo i bisogni, ma non come se facesse una raccolta sistematica dei discorsi del Signore. Cosicché Marco non sbagliò (ouden emarten), avendo scritto alcune cose così come le ricordava».
Qui Papia sembra voler rispondere alle critiche fatte ai suoi predecessori da Luca nel prologo del suo Vangelo: lo rivela la ripresa quasi testuale di alcune parole (Lc. 1,3: akribos... kathexes), con cui Papia vuole giustificare il «disordine» di Marco, che (diversamente da Luca, consapevole del metodo storiografico greco e delle sue esigenze) non aveva la pretesa di anataxasthai diegesin peri ton pragmaton, ma solo di dare tas didaskalias secondo i bisogni e come ricordava, preoccupandosi solo di non tralasciare nulla di ciò che aveva udito e di non falsificare nulla.
Anche la testimonianza di Clemente è conservata da Eusebio in due citazioni. La prima l'abbiamo già vista; la seconda (VI,14,6), che Eusebio attinge allo stesso passo delle Ipotiposi, sembra parzialmente diversa: «Avendo Pietro proclamato pubblicamente demosia(i) la Parola a Roma... i presenti che erano molti, invitarono Marco, che lo accompagnava e che ricordava le cose che aveva detto, a metterle per iscritto. Egli lo fece e consegnò il Vangelo a quelli che lo chiedevano. Pietro conosciuto il fatto protreptikôs «non lo impedì né lo incoraggiò». Al posto dell’oscuro protreptikôs (in modo da persuadere), si è soliti pensare ad un errore del copista e leggere pneumatikôs (per ispirazione dello Spirito)
Dello stesso passo del VI libro delle Ipotiposi ci è giunta, per via indipendente, questa volta in latino, un'altra citazione (cfr. 9 Staehlin): Marcus, Petri sectator, praedicante Petro, evangelium palam coram quibusdam Caesarianis equitibus et multa Christi testimonia proferente, petitus ab bis, ut possent quae dicebantur memoriae commendare, scripsit ex his, quae a Petro dicta sunt, evangelium, quod secundum Marcum vocitatur. Anche qui dunque una memoria di una predicazione catechetica estesa di Pietro a Roma.
Come capita spesso nelle citazioni, quando sono fatte a memoria, anche questa contiene delle varianti; ciò che sembra con certezza attestato nel testo originale è che secondo Clemente la predicazione fu pubblica [ [palam, demosia(i) ] e che fu stesa su richiesta dei Romani (dopo che Pietro non era più presente a Roma, ma era ancora vivo) e che egli fu informato di tale stesura. La memoria di Eusebío sembra invece più incerta sull'atteggiamento di Pietro: secondo la prima citazione egli ebbe piacere della messa per iscritto del Vangelo e lo fece diffondere nelle Chiese; secondo la seconda citazione, invece, egli non la incoraggiò, ma neppure l'impedì. Su questa presunta differenza si tornerà in seguito. Infine in ambedue le citazioni Eusebio non si preoccupa di identificare gli ascoltatori romani di Pietro e si limita a dire che erano molti (VI,14,6: pollous ontas); nella citazione latina, invece, si parla di cesariani e di cavalieri.
Oltre a Papia e a Clemente anche Ireneo (Adv.Haer, III,1,1 cfr. Eus.H.E.V,8,3) ricorda che Matteo aveva scritto il suo Vangelo, mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e osserva che meta ten toutôn exodon, cioè dopo la partenza degli apostoli, Marco, discepolo e ermeneutes di Pietro trasmise anche lui per iscritto to upekeinou keryssomenon euanggelion. Ireneo, associando la predicazione di Pietro e di Paolo si rivela sui fatti più generico e meno preciso di Papia e di Clemente; il termine exodus, inoltre, aveva fatto pensare che egli collocasse il Vangelo di Marco dopo la morte di Pietro e di Paolo. Ma exodus, come è stato dimostrato alcuni anni fa, non significa in Ireneo morte, ma partenza (e tra parentesi è il primo significato del termini, morte sarebbe un senso figurato di “uscita” dal mondo). Secondo Ireneo, dunque, Marco e Luca, di cui si parla subito dopo, scrissero i loro Vangeli seguendo rispettivamente la predicazione di Pietro e Paolo, e dopo la partenza dell'uno e dell'altro da Roma. Così intesa la notizia di Ireneo, per quel che riguarda Marco, conferma pienamente la notizia che Eusebio ricava da Papia e da Clemente, secondo cui il Vangelo di Marco fu scritto a Roma, mentre Pietro era vivo, ma dopo la sua partenza. L'identificazione di un frammento papiraceo in lingua greca scoperto nelle grotte di Qumran (l'ormai famoso 7Q5) con un passo del Vangelo di Marco (6,52/53), la datazione di questo frammento in base ad un'analisi della scrittura, fatta quando non si pensava affatto di trovarsi davanti ad un passo del Nuovo Testamento, agli anni prima del 50 d.C., la provenienza del frammento da Roma suggerita dalla presenza, nella stessa grotta, di un coccio di giara con una scritta semitica indicante Roma, hanno stimolato, nonostante le molte contestazioni, la ricerca storiografica che, accogliendo l'identificazíone come utile ipotesi di lavoro, ha riesaminato il problema della prima venuta di Pietro a Roma e la formazione della più antica comunità cristiana dell'Urbe, riconoscendo l'aderenza della scoperta relativa al frammento di Marco a testimonianze antiche e autorevoli come quelle di Papia e di Clemente, che l'ipercritica ottocentesca, ancora pienamente attiva quando si tratta di notizie relative al Cristianesimo delle origini, aveva a torto accantonato. Questa è una datazione molto alta per i Vangeli, e si scontra con l’idea prima espressa che una comunità che s’aspetta la fine imminente non si mette a scrivere testi per i posteri. Il problema però qui non sussite: il Vangelo di Marco non è progettato per un’esigenza ecclesiale di far sapere qualcosa alle future generazioni, bensì come uno strumento mnemonico per avere sempre con sé le parole di Pietro anche mentre questo s’era allontanato.
Una conferma della data molto antica della composizione del Vangelo di Marco ci è fornita dalla conoscenza che di esso sembra avere Petronio nel Satyricon, scritto nel 64/65 d.C.: le analogie quasi verbali riscontrate fra l'unzione di Betania ricordata da Marco (14,3) e l'unzione che, con un'ampolla di nardo, Trimalcione fa durante una cena che assume stranamente carattere funebre (Satyr.77,7 «putate vos ad parentalia mea invitatos esse») rivelano un intento parodistico, da parte del consigliere di Nerone, che si inquadra bene nel clima ormai persecutorio di quegli anni, ma che si può spiegare solo con una conoscenza del testo scritto: diversamente dagli accenni alla crocifissione, alla resurrezione e all'eucarestia, che Petronio e i suoi contemporanei pagani potevano apprendere dai rumores e dalle notizie che la gente diffondeva sui Cristiani, l'unzione di Betania è un episodio più marginale e tale da sfuggire alle dicerie popolari.
Si è visto che, secondo il frammento latino di Clemente, la predicazione di Pietro si era svolta coram quibusdam Caesarianis equitibus e che erano stati proprio questi a chiedere a Marco di mettere per iscritto le cose che Pietro aveva detto.
Anche il Vangelo di Luca sembra dedicato a un cavaliere: kratistos, il titolo che egli dà a Teofilo, a cui dedica il suo Vangelo (1,4), corrisponde al latino egregius ed è il titolo che spettava ai cavalieri romani. La lettera ai Romani 16,11 parla di fedeli nella casa di Narcisso, il più celebre dei liberti imperiali (Caesariani) del tempo di Claudio. Tacito pone nel 42/431a conversione a una superstitio externa, che è certamente il cristianesimo (Ann.XIII,32), di Pomponia Graecina, moglie di Aulo Plauzio, che proprio nel 43 condusse per Claudio la spedizione in Britannia. Negli Atti di Pietro, un apocrifo asiatico della fine del II secolo, Pietro fu ospite a Roma in case di senatori, e, in particolare, in casa di un certo Marcello: vale la pena di notare che Marcello è il nome di colui che L. Vitellio - nella missione affidatagli da Tiberio a Gerusalemme nel 36-37, che culminò con il rinvio a Roma di Pilato e con la deposizione di Caifa (Flavio Giuseppe, Ant. XVIII,89ss.,95), e che, presumibilmente assicurò la pace ai Cristiani nelle regioni sotto il controllo romano (At 9,31) - aveva lasciato in Giudea per sostituire Pilato. Quello stesso L. Vitellio, che aveva avuto modo di occuparsi dei Cristiani negli anni dopo i135 per conto di Tiberio e che aveva probabilmente portato in Siria il nome Christiani, era nel 43 console e si trovava certamente a Roma, dove Claudio lo aveva lasciato con poteri straordinari durante la sua assenza in Britannía. Questo potrebbe spiegare l'interesse che una parte dell'aristocrazia romana provò nel 42/43 per la predicazione di Pietro: la richiesta rivolta a Marco, proprio da personaggi della classe dirigente, di mettere per iscritto ciò che avevano ascoltato a voce, potrebbe non essere nato solo da entusiasmo religioso, ma anche dal desiderio di valutare attentamente l'atteggiamento che la nuova «setta», che stava diffondendosi in seno al giudaismo (tale doveva apparire ancora il cristianesimo), aveva verso Roma.
Dobbiamo ora ricordare un piccolo fatto, il primo incontro di Paolo prigioniero nel 56 con i capi della comunità giudaica di Roma (At 28,17ss.).il fatto che i notabili della comunità giudaica di Roma abbiano risposto all'appello di Paolo prigioniero e si siano recati presso di lui, non deve sorprendere nessuno, se si tiene conto che a Gerusalemme Tertullo aveva presentato Paolo come il capo della setta dei Nazorei (i cristiani) e che Paolo stesso rassicura i suoi interlocutori dicendo di non essersi appellato a Cesare per accusare il popolo (ibi, 28,19).era dunque nell'interesse stesso dei capi della comunità giudaica di Roma di essere informati sulle prospettive di un processo che si sarebbe svolto a Roma e che avrebbe rischiato in qualche modo di coinvolgerli (per via della nota confusione tra giudei e cristiani che sono una setta dei primi). E' a questo punto che diventa interessante la loro affermazione secondo cui essi sanno peri... tes aireseos tautes (il cristianesimo) oti pantachou antilegetai (che questa setta è dovunque contrastata). Dovunque, ma non a Roma: ed essi chiedono a Paolo di informarli in proposito.
La dichiarazione dei notabili della comunità giudaica di Roma a Paolo rivela che nel 49 non c'era stato nessuno scontro fra Ebrei e Cristiani a Roma e che nessuno scontro era avvenuto fra le due comunità dal 42/43, quando la prima comunità cristiana era stata fondata, al momento dell'arrivo a Roma di Paolo, nel 56. La conclusione dell'incontro negli Atti rivela però che gli scontri cominciarono subito dopo e la stessa cosa conferma, con l'accenno al rinnovato slancio missionario della comunità romana e ai contrasti con esso collegati, la Lettera ai Filippesi (1,12ss.) scritta durante la prima prigionia romana di Paolo. Fu l'impostazione data da Paolo alla predicazione a cambiare la vita e lo stile della comunità romana: vale la pena di domandarsi perché, fino a quel momento, non ci fossero stati, a Roma, scontri con l'elemento giudaico.
Si è visto che, secondo le fonti cristiane del II secolo, la decisione di Marco di scrivere il suo Vangelo era venuta dalla richiesta degli ascoltatori romani di Pietro al tempo di Claudio: Clemente spiegava anzi che tra questi ascoltatori c'erano cavalieri e cesariani, Romani dunque di rango elevato e dell'ambiente della corte. Anche il Vangelo di Luca sembra indirizzato ad un cavaliere. Un ricordo dei rapporti avuti in Roma da Pietro con ambienti romani elevati è rimasto negli Atti apocrifi di Pietro, che appartengono alla fine del II secolo e che, pure in mezzo a particolari evidentemente leggendari, insistono sulla presenza di Pietro in case di senatori (Marcello cap. Vlllss. Nicostrato cap. XXVIII): prescindendo dalla leggenda, mi sembra che una conferma di questi rapporti venga dalla notizia già ricordata di Tacito (Ann. XIII,32) che colloca il mutamento di vita di Pomponia Graecina, proprio nel 42/43, col pretesto della morte di Iulia Drusi, la nipote di Tiberio, uccisa dolo Messalinae. Sposata ad Aulo Plauzio, generale di Claudio, Pomponia apparteneva ad una famiglia che sin dal tempo di Livia era vicina alla corte imperiale. Fin dai primi anni di Claudio il Cristianesimo ebbe dunque a Roma una accoglienza ed una diffusione non solo negli ambienti giudaici della città, ma anche nell'aristocrazia romana: la comunità a cui Paolo si rivolge nella lettera ai Romani è una comunità composita, in cui sono certamente presenti Cristiani provenienti dal giudaismo e Cristiani provenienti dal paganesimo, ma in cui non sembrano esistere le tensioni violente che lacerano altre comunità; in cui il problema del rapporto fra legge e fede può essere affrontato in chiave teologica e non disciplinare, in cui la giustificazione che viene dalla fede e non dalla circoncisione può essere oggetto di una teorizzazione coerente e lucidissima come nella lettera ai Romani, e non di appassionati divieti come nella lettera ai Galati.
Il cap. 16 della lettera ai Romani, di cui non si disconosce ormai l'appartenenza alla lettera stessa, distingue nei saluti almeno cinque gruppi di Cristiani, probabili chiese domestiche: colpisce fra tutti l'accenno a tous ek ton Aristoboulou (ibi, 16,10) cioè gli schiavi e i liberti di Aristobulo, figlio di Erode di Calcide, che nel 54, al momento della morte di Claudio, fu inviato da Nerone a governare la piccola Armenia (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, 11,13,252), e a tous ek ton Narkissous tous ontas en kyrio(i) (ibi 16,11), cioè gli schiavi e i liberti del celebre Narcisso, liberto e collaboratore di Claudio, morte pochi mesi dopo di lui, verso la fine del 54.
La presenza nella comunità cristiana di Roma di questi cesariani e di personaggi vicini alla corte è confermata del resto dai saluti dei Cristiani «della casa di Cesare», trasmessi ai Filippesi da Paolo nella lettera a questi indirizzata (Paul. Phil. 4,22 oi ek tes Kaisaros). L'accoglienza che il cristianesimo ebbe a Roma sin dall'inizio in ambienti «ufficiali», tra schiavi e liberti imperiali, ma anche, a quanto sembra dal caso di Pomponia Graecina e dell'ignoto cavaliere Teofilo, amico di Luca, nella aristocrazia romana senatoria ed equestre, si accorda con l'estraneità di questa comunità alla vita della comunità giudaica locale, rivelata dalla dichiarazione dei notabili Ebrei di Roma a Paolo in Atti 28,17ss. Raccolti per le riunioni di culto nelle case che liberti imperiali e nobili convertiti o simpatizzanti e semplici fedeli avevano messo a disposizione, i Cristiani di Roma, di cui Paolo nella lettera ai Romani loda la fede nota in tutto il mondo (1,[SM=g27989], l’amore e la sapienza (15,14), si comportavano con molta riservatezza e prudenza nella loro propaganda religiosa: questo spiega a mio avviso la probabile assenza di conseguenze che ebbe per i Cristiani l'espulsione degli Ebrei da Roma decisa da Claudio nel 49, ma anche l'indiretto rimprovero che fa a loro Paolo nella lettera ai Filippesi (1,1214) quando parla dello slancio e dell'ardire che solo con la sua venuta aveva acquistato a Roma la predicazione cristiana.
Lo stile della comunità di Roma sembra corrispondere a quello che sappiamo dello stile petrino: Pietro era stato il primo, secondo gli Atti degli Apostoli (10,1ss.), a battezzare dei Gentili, nell'incontro col centurione Cornelio ed era stato ancora Pietro, al tempo del cosiddetto concilio di Gerusalemme, a parlare per primo per impedire che si imponessero ai Gentili convertiti al cristianesimo, la circoncisione ed altre pratiche giudaiche (At 15,7ss.). Tuttavia, dopo le decisioni di Gerusalemme, recandosi ad Antiochia (Gal II, 10ss.), si era comportato in maniera che Paolo aveva giudicato contraddittoria: finché non erano stati presenti gli inviati di Giacomo (tinas apo Iakobou) Pietro aveva pranzato liberamente con i Gentili; quando quelli erano venuti si era appartato, phoboumenos tous ék peritomes («per timore di quelli della circoncisione»). Quello che Paolo giudicò timore e rispetto umano fu probabilmente volontà di evitare scontri: il comportamento di Pietro rivelava che egli era ben consapevole che «Dio conoscitore dei cuori aveva reso testimonianza ai Gentili dando ad essi lo Spirito come a noi» (At 15,[SM=g27989] e che lui stesso era stato scelto affinché, per la sua bocca akousai ta ethne ton logon euanggeliou kai pisteusai («le genti ascoltassero il Vangelo e credessero» ibi, 7), con un evidente ricordo non solo, forse, dell'episodio di Corinto, ma anche, a mio avviso, della sua prima predicazione romana: egli riteneva però opportuno, per motivi di prudenza e non di principio, pastorali si direbbe oggi e non teologici, evitare provocazioni e procedere con gradualità. Uno stile analogo a quello adottato verso gli Ebrei sembra essere stato adottato, nella primitiva comunità petrina di Roma, verso i pagani. è lo stile di Pomponia Graecina così coraggiosa da sfidare l'ira di Messalina e da suscitare l'ammirazione di Tacito, ma così riservata nella sua professione di fede da coprire per quarant'anni la sua conversione al cristianesimo con la motivazione ufficiale del lutto per un'amica.
Un ultimo rilievo, che ci riporta, anch'esso, alle caratteristiche petrine della prima comunità romana e alla sua grande antichità: è stato osservato da più parti (J. Daniélou) il carattere «giudaizzante» della antica chiesa di Roma, che non comportava peraltro il mantenimento della circoncisione e le osservanze rituali, sostenute da alcuni giudeo-cristiani del seguito di Giacomo, ma che è rivelato soprattutto dal modo di pensare presente in alcuni antichi scritti della cristianità romana, come il Pastore di Erma e le Lettere di Clemente romano. Uno scrittore del IV secolo, l'Ambrosiaster, dice che i Romani susceperunt fidem Christi, ritu licet iudaico. (CSEL, LXXXI, Vienne 1966, pag. 6 ed, Vogels) Una caratterizzazione di questo tipo si capisce assai bene se cristianesimo di Roma deriva direttamente, in una data molto alta, da quello di Gerusalemme: esso rifletteva l'esperienza di Pietro, che senza pensare ancora ad un distacco dal giudaismo, aveva sperimentato, nella conversione di Cornelio, l'adesione e l'accoglienza nella fede li pagani, senza che essi fossero passati attraverso la circoncisione e le pratiche legali.
Queste caratteristiche del cristianesimo romano si ritrovano al tempo di Domiziano nelle accuse mosse agli aristocratici romani convertiti al cristianesimo di «ateismo e costumi giudaici». Il cristianesimo vincente a Roma non è dunque quello strettamente paolino ma quello petrino.
Si può approfondire ulteriormente la prima venuta di Pietro a Roma e il perché questa non venga citata negli Atti approfondendo la psicologia di Luca e il contesto socio-politico alle spalle del periodo interessato. Il papirologo luterano dell’Università di Ginevra C. P. Thiede nella sua ultima monografia su Pietro non solo ha dimostrato la perfetta compatibilità coi dati del Nuovo Testamento di una venuta di Pietro a Roma nel 42, ma ha anche accettato che sia stato vescovo di questa chiesa. Vale la pena di fare partecipe il pubblico del forum di alcune sue conclusioni raggiunte in “Simon Pietro dalla Galea a Roma”, Milano, 1999 pag. 228ss. Stralci di quest’opera si possono trovare anche on-line in questo sito: www.storialibera.it/epoca_antica/vangeli_e_storicita/pietro_a_roma/simon_pietro_dalla_galilea_a_r...
Purtroppo il curatore della pagina web ha deciso si omettere le note a piè pagina, che invece spesso sono il fulcro del lavoro di uno storico che lavori con le fonti ma non vuole appesantire il testo principale. Per vostra fortuna ci sono io col libercolo originale in mano e dunque vi posso garantire che non vi perderete un solo dato (pagg. 228-235,258-260). Per la datazione alta dei Vangeli che Thiede propone ovviamente ci si rifà alla corrente che sta prendendo piedi da vent’anni, in Italia ad esempio con Paolo Sacchi, e che deve la sua messa a punto scientifica nelle opere di Robinson e di Carmignac. In particolare Thiede seguendo queste datazioni, che hanno il pregio di non rigettare le testimonianze dei Padri della Chiesa. Il papirologo è sostenitore della tesi secondo cui se Luca non menziona i viaggi di Pietro a Roma è per motivi di sicurezza, e francamente sebbene questa tesi sia possibile io ritengo che ciò sia invece dovuto a quando riporta il frammento muratoriano, cioè che Luca scrisse solo dei viaggi apostolici in cui era presente. Al contrario Thiede ritiene che se egli non accenna nemmeno alle peregrinazioni di Pietro fino alla sua ricomparsa in occasione del Concilio apostolico degli Atti 15, doveva avere delle buone ragioni. L'ipotesi che egli avesse perso interesse nel seguente ruolo di Pietro perché voleva favorire Paolo è troppo semplicistica, ed è in ogni caso contraddetta dal ruolo determinante che Pietro gioca negli Atti 15. E' comprensibile che Luca non voglia nominare il luogo (o i luoghi) dove Pietro si recò. Il motivo è lo stesso che causò l'omissione del nome di Pietro nel racconto di Luca e Marco (ripreso anche da Matteo) della mutilazione dell'orecchio del servo al Getsemani (in effetti dà da pensare di come sparisca stranamente il nome di Pietro). Scrivendo mentre Pietro era ancora vivo, e a un alto funzionario romano, Luca vuole evitare qualsiasi cosa che possa compromettere l'attività dell'apostolo nei confini dell'Impero romano. Luca sapeva dove era andato Pietro e dove si trovava nel momento in cui scriveva, ma rimase zitto. Anche Pietro cerca di essere vago a questo proposito, quando manda la sua prima lettera da Roma usando lo pseudonimo topografico di «Babilonia» al posto di Roma (1Pt 5,13). Ed è qui il problema: semplicemente un modo di dire tipico dell’epoca o una segretezza voluta? Come già detto propendo per la prima ipotesi ma anche così facendo è proprio l'uso di «Babilonia» che ci dà la chiave per identificare l'«altro luogo» di Luca.
Sebbene non si possa determinare quando Babilonia fu usata per la prima volta come crittogramma al posto di Roma, una tale identificazione è indiscutibile . La scelta di Babilonia (invece, per esempio, di Sodoma o Gomorra) era immediata poiché implicava sia il simbolo del potere e del male, dell'arroganza e della corruzione che sarebbero stati sconfitti dal Signore (cfr. Is 13,1-14,23), sia l'«esilio» della Chiesa cristiana nel centro del paganesimo. Ma qualunque fosse la somma di ragioni che indusse la scelta di Pietro, i suoi lettori sarebbero stati ben consapevoli dei riferimenti della Scrittura a Babilonia. Ce ne sono molti, ma uno è particolarmente illuminante: Ezechiele 12,1-13. Vi sono qui dei riferimenti all'«esilio», alla fuga da Gerusalemme a notte fonda (12,7) e a Babilonia (12,13). Anche se tutti questi elementi sono presenti in questo passo (che contiene, naturalmente, un significato e una profezia molto più ampi e complessi), tuttavia è un altro verso che offre la chiave all'«indovinello» di Luca: «(...) preparati a emigrare; emigrerai dal luogo dove stai verso un altro luogo», recita Ez 12,3. E di questa lettura di Thiede s’è già parlato nel post di Barnaba ma per chi non l’avesse letto ripropongo nuovamente il testo. La Bibbia dei Settanta usa l'espressione eis heteron topon, la stessa usata da Luca per indicare la destinazione di Pietro. L'«altro luogo» di Ezechiele era Babilonia, e Babilonia è Roma.
I tempi erano maturi, pare, per l'uso simbolico di «Babilonia» per significare Roma fra i cristiani che vivevano o si trovavano nella capitale dell'Impero alla fine degli anni 50 o all'inizio degli anni 60, e i regni di Claudio e Nerone offrivano abbastanza materiale esemplificativo.

Prove testuali indicano quindi chiaramente che la destinazione di Pietro era Roma. Una conferma ulteriore proviene dalla storia della Chiesa, in un suggestivo particolare riportato da Eusebio e da Girolamo. Pietro arrivò a Roma durante il regno di Claudio, più precisamente nel secondo anno di regno, l'anno 42 (Eusebio, HE 2,14,6, con il Chronicon ad loc, e Girolamo, De viris illustribus 1, dove egli è il «soprintendente» o episkopos per venticinque anni, cioè fino alla sua morte sotto Nerone) . Questo fatto è confermato dal Catalogus Liberianus, del quarto secolo, un elenco di papi dall'inizio della diocesi romana fino a papa Liberio (352-66), e dal Liber Pontificalis, pubblicato (nella forma conservata) nel sesto secolo (per la maggior parte si basa sul Catalogus Liberianus, ma contiene alcune informazioni indipendenti e della varianti nei dettagli).
E' interessante notare che queste fonti datano dall'epoca in cui la Chiesa cominciò a catalogare la sua storia (non ce n'era stato evidentemente bisogno prima che acquisisse autorità ufficiale e sicurezza durante il regno di Costantino) . Ma è ugualmente degno di nota il fatto che queste fonti storiche in nessun caso contraddicano le informazioni o la plausibilità storica del Nuovo Testamento. Anche se è forse inevitabile una certa imprecisione nei particolari di secondaria importanza, lo schema generale e la successione delle date e dei dati coincidono perfettamente.
Pietro lasciò Gerusalemme subito dopo la fuga dalla prigione nell'anno 41 o 42. La seconda data concorderebbe anche con un ordine apocrifo di Gesù, strano e non molto plausibile, secondo il quale gli apostoli non avrebbero dovuto lasciare Gerusalemme per dodici anni: Atti di Pietro 2,5; Clemente Alessandrino, Stromata 6,5,43 (che cita il perduto Kerygma Petrou, «Predicazione di Pietro»); Eusebio, HE 5, 18,14 riconduce questa affermazione ad Apollonio, uno scrittore antimontanista (HE 5 18,1), ma precisa aggiungendo l'ironico commento hos ek paradoseos, «come se per tradizione».
Pietro si dirige quindi verso Roma, ma non direttamente. Potrebbe avere visitato Antiochia, e forse molte città nell'Asia Minore (cfr. 1Pt 1,1; Eusebio, HE 3, 1,2), forse Corinto (cfr. 1Cor 1,12-14; 9,5: probabilmente una traccia della presenza di Pietro a Corinto con la moglie, che non fa altre apparizioni dirette nel Nuovo Testamento - cfr. Mc 1,29-31 - e muore da martire sotto gli occhi di Pietro, come riporta Clemente Alessandrino, Stromata 7,63,3, ed Eusebio, HE 3,30,2). Nell'inverno del 42 arriva a Roma. Non fu il primo evangelizzatore ad arrivare in città (i romani citati negli Atti 2,10 avrebbero diffuso la buona novella prima di lui), ma fu il primo apostolo ad avallare e fondare ufficialmente la Chiesa. Il suo arrivo e l'inizio della sua opera è il punto di partenza del suo «episcopato», che, come quello ad Antiochia, continua anche durante la sua assenza, rimanendo egli il capo titolare o il «soprintendente» ufficiale.
L'importanza dell'opera di fondazione di Pietro a Roma è riconosciuta persino da Paolo, che ritardò la propria visita a Roma finché non poté includerla come breve tappa di passaggio nel viaggio verso la Spagna, perché non voleva «costruire su un fondamento altrui» (Rm 15,20 e 23-24). Ciò che Paolo dice, alla lettera, è che la «prima pietra» era già stata posta da qualcun altro, e apparteneva a costui. Non era una comunità anonima, ma una persona, che aveva posto questa pietra. I romani sapevano chi era costui: non c'era bisogno che Paolo menzionasse il suo nome in questo contesto; non è neppure il caso di supporre un atteggiamento anti-petrino a causa di questa “omissione”. A parte il fatto ovvio che Paolo non aveva bisogno di dire ai Romani che avesse fondato la loro Chiesa, non si può fare a meno di notare una certa idiosincrasia di Paolo nel citare i nomi in determinati contesti: cfr. 1Cor 1,14-16, dove egli non è del tutto certo di chi abbia battezzato a Corinto e persino si corregge; Romani16,3; 2Tm 4,19; mentre la Priscilla degli At 18,2, 18 e 26 e della 1Cor 16,19 ha perso il suo diminutivo ed è semplicemente “Prisca”(nella 1Cor 16,19, solo una minoranza di manoscritti riporta in effetti la variante Prisca, ma la testimonianza della maggioranza, in parte indipendente, corrobora la versione “Priscilla”); Galati 2,7-9 dove non sa decidersi se chiamare Pietro “Cefa” o “Pietro”; e Galati 1,19 e 2,9 , dove Giacomo è passato dall’ultimo al primo posto. E’ inutile dire che vi sono a volte dei buoni motivi, a volte no, per queste ricorrenze(si potrebbe, ma non si deve, argomentare, pe esempio, che nel caso Galati 2,9, Paolo voglia mettere in evidenza l’accresciuta autorità di Giacomo dopo la prima partenza di Pietro), ma, anche tenendo in considerazione questi casi particolare, anche un altro esempio, cioè l’omissione del nome di Pietro nella Romani 15,20, non assume alcun significato. e Quando Paolo scrive che non vuole «costruire su un fondamento altrui», a parere di molti stava appunto alludendo al lavoro fatto da Pietro prima di lui nella comunità giudeo-cristiana del luogo alla luce dell’accordo di Gal 2,7 secondo cui a Cefa era stata affidata l’evangelizzazione dei giudei.
Paolo aveva tutte le ragioni per riconoscere la preminenza di Pietro a Roma: la sua priorità si manifestava nella missione fra i pagani (cf. Gal 1,16; 2,7-9), e la comunità di Roma cui si rivolgeva era decisamente ebrea, anche se in prevalenza di lingua greca.
Era questo, in effetti, il «terreno di caccia» ideale per un uomo con l'esperienza di Pietro, piuttosto che quella di Paolo. Grazie alla sua opera rivoluzionaria in Cesarea, Pietro era pronto a entrare in contatto con i romani (Cornelio potrebbe persino avere ricambiato l'insegnamento di Pietro informandolo sulla situazione a Roma e sulla mentalità dei romani), ma la sua esperienza fino a quel momento si era formata con gli ebrei e i sostenitori degli ebrei, pagani «timorati di Dio» (proprio il genere di persone che avrebbe incontrato e che lo avrebbe bene accolto al suo arrivo a Roma). Con una popolazione ebraica di circa cinquantamila persone (per la cifra J. Juster, Les juifs dans l’empire romain, pag. 209-210), inclusi i timorati di Dio e i proseliti pagani, c'era molto lavoro da fare. Persino al tempo della Lettera di Paolo ai Romani, nell'anno 57, quando le comunità si erano ricostituite dopo la morte di Claudio e la fine definitiva delle espulsioni, l'elemento giudeo-cristiano era ancora più forte e più importante di quello strettamente pagano-cristiano (cfr. Rm 1,16; 2,9-10; 7,1; 11,13-21). Il semplice fatto, tuttavia, che ci fosse un considerevole gruppo di pagani (cfr. Rm 1,13-15) dimostra ancora una volta l'intento di Pietro di svolgere anche la missione fra i pagani.
Pietro non era solo a Roma. Marco andò con lui o direttamente dalla casa della madre o lo raggiunse non molto tempo dopo: per quanto concerne la cronologia degli Atti, la presenza di Marco a Gerusalemme non era più richiesta già da quando Paolo e Barnaba lo portano con loro ad Antiochia (At 12,25) nel 46, dopo la «visita per la carestia». Inoltre, sentiamo parlare di lui come interprete di Pietro (come scrive Papia), e se Pietro bilingue dall'infanzia (cfr il testo di Thiede sul bilinguismo in Galilea da me citato nel precedente post a Barnaba), ebbe mai bisogno di un interprete per risparmiare alle sensibili orecchie dei romani l'affronto del suo rozzo greco non colto, che si combinava con uno scoraggiante accento di Galilea, questo accadde all'inizio del suo primo soggiorno, piuttosto che verso la fine del secondo, o forse l’interprete serviva per via del latino. Eusebio (HE 6,14,6, citando l'opera perduta di Clemente Alessandrino, Hypotyposeis), nota che Marco aveva seguito Pietro per molto tempo, un'allusione al lungo rapporto fra i due, del quale 1Pietro 5,13, dove Pietro chiama Marco figlio suo, non è l'inizio, ma il punto culminante. Sebbene nessuna delle fonti affermi in così tante parole che Marco rimase con Pietro a Roma dal 42 in poi, le prove raccolte suggeriscono questa possibilità più di qualsiasi altra.
Se si volesse datare la catechesi orale petrina che Marco trascrisse non con la seconda venuta di Pietro a Roma ma con la prima, allora il ritorno di Marco a Gerusalemme entro il 46 coincide con un altro dato: la scrittura del suo Vangelo. Thiede ha sostenuto con prove papirologiche e storiche che il Vangelo doveva essere datato a prima dell'anno 50, una conclusione cui portano anche prove indipendenti non papirologiche raccolte dal già citato Robinson. All’interno di questo paradigma la data più plausibile, considerando ciò, sarebbe da collocarsi fra la partenza di Pietro da Roma (subito dopo la morte di Erode Agrippa nel 44, quando poté programmare senza grossi rischi un ritorno in Palestina; la cronaca di Eusebio lo vede ritornare, via Antiochia, nel 44) e l'arrivo di Marco a Gerusalemme nel 46 al più tardi. Questa corrispondenza fra le prove papirologiche e quelle storiche ha inoltre il vantaggio di essere corroborata da commenti, altrimenti di difficile interpretazione, dei Padri della Chiesa. Tuttavia per chi non segue Thiede in questa sua analisi, che non è riuscita a scalzare la cronologia tradizione la quale pone il Vangelo di Marco negli anni 60’, ma benissimo che l’uscita di Pietro da Roma cui alludono le fonti sia la seconda. Non starò certo a fare la predica ai sostenitori di questa ipotesi visto che sono la maggioranza e a me è indifferente quale delle due sia corretta, resta il fatto che da una fonte del I secolo come Papia abbiamo la testimonianza di una predicazione romana di Pietro da cui addirittura venne fuori un Vangelo, quindi niente “toccata e fuga”.
Ireneo, che conosceva la nota di Papia, è il primo a commentare i Vangeli dopo di lui. Egli inizia con l’affermazione già commentata secondo cui Pietro e Paolo fondarono la comunità di Roma, con la traduzione di themelioo usata allo stesso modo in cui viene impegata in 1Pt 5,10, dove significa «rafforzare», «confermare»; in questo senso, l'affermazione di Ireneo è naturalmente vera sia per Pietro sia per Paolo.
Riferendosi all'epoca in cui Matteo scriveva il suo Vangelo «fra gli ebrei» «nella loro stessa lingua», egli afferma che Marco, il discepolo e l'interprete di Pietro, trascrisse su carta il suo insegnamento dopo la loro (cioè di Pietro e di Paolo) “morte” (Haer. 3, 1,1), e s’è visto di come questo sia problematico per exodos è solo “morte” quando è usato in senso figurato. La traduzione con morte non èsopportata dalla affermazione precedente di Papia. Papia dice semplicemente che Marco aveva scritto accuratamente tutte le cose così come le ricordava (hosa emnemoneusen akribos egrapsen). Ma ricordare l'insegnamento di qualcuno certamente non presuppone la morte di costui (sarebbe sufficiente la sua partenza, e questo è precisamente ciò che dice Ireneo).
Exodos può naturalmente significare «morte» (come nel Nuovo Testamento: Lc 9,31; probabilmente 2Pt 1,15). Innanzitutto, però, la parola greca ha il semplice significato di partenza/uscita, dai tragici greci fino all'Antico Testamento in greco, dove viene usata a proposito della partenza degli israeliti dall'Egitto nel secondo libro del Pentateuco, che non a caso si chiama Esodo (cfr. Sal 104,38; 113,1; Eb 11,22 et al.). Il significato «morte» è un significato acquisito, di alto valore simbolico, ma il suo uso in questo senso deve risultare ovvio dal contesto diretto (una condizione chiaramente presente in Lc 9,31, ma non altrettanto inequivocabile in 2Pt 1,15). E poiché la fonte (o le fonti) di Ireneo non presuppone o implica la morte di Pietro, non dovremmo interpretare così il suo testo . Pietro è partito da Roma prima che Marco scriva il suo Vangelo: questo è tutto ciò che vuole dire.

Questo è completamente compatibile con i commenti di Origene e di Clemente Alessandrino. Origene dice che Marco scrisse come Pietro l'aveva istruito o gli aveva insegnato (hos Petros hyphegesato auto, Commentario al Vangelo di Matteo, citato in Eusebio, HE 6, 25,5). Questo significa che egli seguì l'esempio posto dal metodo e dai contenuti della predicazione di Pietro. Infine, Clemente ricorda che Marco, che era stato compagno di Pietro per molto tempo, fu sollecitato dai cristiani (romani) a trascrivere ciò che Pietro aveva detto, e così fece. La reazione di Pietro fu neutrale: «Egli né impedì né incoraggiò ciò» (mete kolusai mete protrepsasthai: Hypotyposeis, in Eusebio, HE 6, 14,7).
E qui veniamo alla spiegazione di un nodo cruciale che avevamo anticipato all’inizio del messaggio. In un altro passo, parafrasando il resoconto di Clemente, Eusebio conclude con una nota differente: Pietro era contento, egli scrive, e ratificò l'opera perché fosse studiata devotamente nelle chiese (HE 2, 15,2). Queste due affermazioni, naturalmente, non si escludono a vicenda: mostrano piuttosto un progresso da un inizio cauto, quando Pietro ancora predicava, al momento in cui l'opera era stata stesa nella sua forma finale. Il verso di 2 Pietro 1,15 potrebbe riflettere quest'ultimo stadio, la ratifica e la raccomandazione del Vangelo. Non si dovrebbe dare troppa importanza al fatto che nella versione parafrasata (HE 2,15,2) lo Spirito informa Pietro su ciò che era stato fatto: il testo è semplicemente un modo di dire per affermare che lo Spirito fece capire all’apostolo ciò che era stato ottenuto, cioè gli fornì delle buone ragioni per passare dalla neutralità a un aperto incoraggiamento nel momento opportuno. E’ Eusebio stesso a darci le due testimonianza e non era uno stupido, se i due racconti erano in evidente contrasto, sarebbe stato il primo a notarlo. Se non lo fa è perché a differenza dei critici moderni che partono sempre da presunzioni colpevolezza, egli ne sapeva più di noi. Troppe volte nella ricerca storica apparenti contraddizioni nelle fonti si sono sciolte come burro una volta saltate fuori altre fonti che chiarivano un contrasto che prima pareva insanabile. A causa della nostra ignoranza, della presunzione di giudicare in base al poco materiale che ci rimane, troppe volte abbiamo attribuito errori agli antichi quando invece l’unico problema era la nostra cieca ignoranza che non ci permetteva di capire il discorso per mancanza di dati. Quante volte per fare un esempio si sono accusati gli evangelisti di non conoscere la geografia di Gerusalemme e di descrivere spostamenti irreali quando poi il piccone dell’archeologia a portato alla luce uno ad uno tutte le cose di cui avevano parlato e che nella mente dei nostri ipercritici erano invece favole? Troppe volte la piscina dei cinque portici di Giovanni è stata trasformata in boiate come un’allegoria delle cinque dita di YHWH o chissà che altro, e ci sono voluti gli archeologi per buttare nel dimenticatoio i volumi dei critici di metà novecento che non erano mai usciti dalle loro biblioteche universitarie per paura che i sassi della Terra Santa potesse smentirli. La lezione della storia del metodo è che prima di accusare gli antichi siamo a noi a doverci fare un esame di coscienza. Tra l’altro faccio notare en passant che il fatto che gli evangelisti, ed in particolar modo giovanni, conoscano così bene la geografia gerosolimitana del I secolo è una prova che abbiamo davanti testi scritti da gente che è vissuta nella città prima del 70. Né c’era bisogno di dubitarne per gente come Marco o Giovanni, visto che da tutta una serie di riferimenti incrociati con la letteratura paolina di prima del 70 e con la patristica dei primi due secoli sappiamo perfettamente chi erano e a quale cerchia appartenevano: ruotavano tutti intorno alla cerchia apostolica dei dodici e ne erano collaboratori. Ma perché parlo dell’archeologia? Sappiamo che Gerusalemme fu incendiata e rasa al suolo due volte, nel 70 e nel 135, sopra di essa fu costruita una nuova città pagana che stravolgeva il trattato geografico della precedente, Aelia Capitolina, dove fu addirittura proibito agli ebrei di entrare. I Vangeli in molte parti dimostrano di conoscere la geografia di com’era Gerusalemme prima del 70, e alcuni edifici di cui parlano, come il Litostroto o la piscina dai cinque portici, che per secoli erano stati interpretati come simbologie mitiche perché senza riscontro archeologico, sono effettivamente saltati fuori con gli scavi degli ultimi decenni, ciò dimostra che l’autore conosceva Gerusalemme prima della sua distruzione e che non si tratta di creazioni tarde (ma ormai chi lo crede più alla favola delle creazioni tarde? Le datazioni canoniche dell’accademia vanno dal 64 al 100, quelle che stanno prendendo piede ultimamente vanno a date ancora più alte, verso gli anni 50. E’ una tendenza ormai stabilita, le datazioni universitarie standard potranno al massimo diventare più antiche e non certo più recenti).

Ad maiora
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Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
(Κ. Καβάφης)
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