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L'autorità romana

Ultimo Aggiornamento: 14/02/2007 15:53
07/01/2007 20:45
 
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Caro Luigi,


ho già sprecato abbastanza tempo della mia epifania a discutere coi brillanti antichisti di questo simposio di accademici



Direi che qui non servono antichisti, servono acrobati da uan parte e persone di buon senso dall'altra. Da un punto di vista di antichistica Polly non ha proposto molto di più di quanto dicono i manuali di apologetica cattolica.

Polly nasconde l'assenza di argomenti con la presunta impreparazione dei sui interlocutori. In realtà basta leggere, Clemente non parla che Pietro fosse a Roma nè ch vi fosse ucciso, lo stesso fa Ignazio. Che i due sono citati assieme può essere indicativo, ma non basta di fronte al silenzio di tutto il Nuovo Testamento, quasi contemporaneo ai fatti narrati.


Spero che non mi hai incluso anche me.



Beh, a meno che tu non sia un antichista...

Perchè nell'attesa del venerato maestro, le cui spiegazioni non mi pare che dicano nulla di nuovo, provi a fare un pò l'antichista rispondendo alle obiezioni che ho proposto?

Non è che ipotizzare l'assenza di Pietro a Roma farebbe cadere tutto l'edificio della tua chiesa?


Veramente singolare come la tanto amata, rispettata e difesa "Parola di Dio" tale da migliaia di anni cambi cosi' disinvoltamente da bocca a bocca, da luogo a luogo e da religione a religione



Caro Claudio, a me pare che basti un pò di buon senso in questi casi, e forse, sulla forzatura dei testi devo purtroppo darti ragione.

Perchè mentre Paolo parla tranquillamente di Roma nelle sue lettere Pietro userebbe invece un nome criptato, chiaramente ostile, in una lettera che di fatto ha un tono del tutto diverso, come si legge in 2:13-16?

Perchè userebbe in una lettera un termine usato più tardi nella letteratura apocalittica, un genere letterario completamente diverso? Chi poteva capirlo?

Perchè alla fine del II secolo quella lettera è ignorata e non è ritenuta canonica proprio a Roma, dove sarebbe stata scritta?

Perchè ignorare a priori tutte le altre opzioni? Babilonia in Mesopotamia, ricca colonia ebraica, Babilonia intesa come metafora di diaspora, sofferenza oppure Babilonia in Egitto?

A chi giova questo atteggiamento irrazionale e di scarso buon senso?

Shalom

[Modificato da barnabino 07/01/2007 20.46]

[Modificato da barnabino 07/01/2007 20.52]

07/01/2007 21:17
 
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Caro barnabino,
come ben sai sono ortodosso e certo non puoi pensare che se Pietro non fosse mai stato a Roma non faresto un piacere ad Alessio II. Pertanto non ho il movente del dolo circa l'accusa di parzialità che rivolgi ai tuoi interlocutori, polymetis in primis.
Pur non avendo questo movente (forse l'avrei al contrario!) il semplice "rasoio d'Occam" suggerisce che è praticamente certo che Pietro fu a Roma, giacché tutte le fonti sono univoche in tal senso. Per dimostrare che Pietro fu a Babilonia sei costretto ad asserire che tutte le fonti mentano, non avendo neanche uno straccio di prova a sostegno di questa bizzarria.
La spiegazione più facile è dunque che le fonti dicono che Pietro fu a Roma perché.... fu a Roma. Molto semplice.
Da questo poi a parlare di primato, trasmissibilità, esercizio etc, ce ne vuole. Ma che Pietro fu a Roma mi pare indiscutibile.

Sono comunque curioso di vedere l'elenco delle tue fonti che sosterrebbero che Pietro fu a Babilonia o dove vuoi tu.

Siamo tutt'orecchi.

Cordialità,
07/01/2007 21:26
 
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Sono in linea con il pensiero di Teodoro. Che Pietro fu a Roma credo che sia ragonevolmente certo, tutt'altra cosa invece è appunto il discorso del primato romano, papale ecc...

Quindi Barnabino, se ci concentrassimo su questi aspetti non credi che faremmo cosa gradita a tutti ?

Per quanto mi riguarda sto preparando la risposta al post di Polymetis in merito ai suddetti argomenti, ma purtroppo ultimamente e per i prossimi mesi sarò impegnatissimo sul lavoro a causa di un progetto davvero impegnativo, dunque non so quando potrò ultimare la mia risposta.

Ciao
Andrea

[Modificato da spirito!libero 07/01/2007 21.28]

07/01/2007 22:30
 
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Caro Teodoro,


Pertanto non ho il movente del dolo circa l'accusa di parzialità che rivolgi ai tuoi interlocutori



Io non rivolgo alcun movente di dolo, però, francamente, su certe asserzioni mi pare che diventare dogmatici vada oltre il normale buon senso.

Io posso capire benissimo che il fatto che Clemente parli di Paolo e Pietro nello spesso passo e lo stasso faccia Ignazio possa essere compatibile con la presenza di una tradizione che voleva Pietro a Roma, ma da questo a sostenere che quegli autori attestino che con certezza vi fosse stato il passo mi sembra lungo!

Se mi permetti di fronte a certe esagerazioni e chiusura nei confronti della tesi opposta non posso che pensare ad una posizione ideologica preconcetta.


semplice "rasoio d'Occam" suggerisce che è praticamente certo che Pietro fu a Roma, giacché tutte le fonti sono univoche in tal senso



Su questo sono d'accordo in parte, infatti le fonti più antiche, che pur ci danno informazioni su Pietro e il cristianesimo a Roma, tacciono questo fatto e la 1 Pietro di fatto non parla di Roma ma semplicemente di Babilonia, ed i motivi per cui è opinabile che Babilonia sia solo una maniera criptata per indicare Roma gli ho esposti poco sopra, al punto che autori come Conzelmann ipotizzano che quel Babilonia fosse solo una metafora e Pietro sarebbe in realtà morto nella "sua" Antiochia.

Certo, non nego che storicamente il peso della tradizione non possa essere ignorato, e non lo faccio di certo, ma neppure deve essere sopravvalutato come mi sembra che invece facciano Polymetis e Luigi. Tu sei più equilibrato, forse per il minor coinvolgimento emotivo che invece prende i cattolici, come se un dettaglio del genere potesse cambiare la fede cristiana!

Riguardo al Rasoio di Occam si dovrebbe usarlo anche per rispondere alla domanda: perchè Pietro a Roma? Non è infatti così ovvio che un pescatore galileo che parlava aramaico e qualche parola di greco andasse a Roma. La sua era una posizione ben diversa di quella di Paolo, cittadino romano, celibe, colto e poliglotta. Nel NT gli spostamenti di Pietro sono sempre molto limitati nell'area medio orientale: Antiochia, Gerusalemme, Cesarea. La presenza di Pietro a Roma non è certo molto probabile.


Per dimostrare che Pietro fu a Babilonia sei costretto ad asserire che tutte le fonti mentano, non avendo neanche uno straccio di prova a sostegno di questa bizzarria



Scusami, ma perchè devi esagerare i concetti? Qui non stiamo parlando di fonti che "mentono" ma stiamo parlando di autori che riportarono tradizioni che avevano appreso un centinaio di anni dopo che i fatti si svolsero, tradizioni che di fatto non sappiamo quanto fossero basate su dati storici reali e quanto su dati leggendari e fantastici e che, in mancanza di riscontri diversi, poteva poi essere accettate acriticamente e riprodotti altri autori.

Se Pietro morì in qualche area diversa da Roma, per esempio un'area di carattere giudeo-cristiano (come è logico aspettarsi visto che venne inviato ai giudei) oppure aree dove il cristianesimo non ebbe ulteriore sviluppo (come nell'area babilonese) sarebbe assolutamente normale l'assenza di memorie e testimonianza in merito (tranne la 1 Pietro che specificherebbe Babilonia come residenza tarda dell'apostolo).

Nel primo caso perchè i gudeo-cristiani, come gli ebrei, non erano interessati ai resti mortali dell'apostolo o al loro culto e nel secondo caso perchè la memoria sarebbe andata perduta con il dissolversi della piccola comunità cristiana di Babilonia. Di fatto proprio il silenzio sul luogo storico dove morì Pietro nel primo secolo testimonierebbe Babilonia o un area giudeo-cristiana e d'altronde lasciò spazio alla tradizione che in seguito lo volle a Roma.

A mio avviso alla metà del II secolo vi era già una tradizione in questo senso, ma da questo a dire che si tratta di un fatto certo, visto il silenzio di tutte le fonti più antiche e l'incertezza di quelle fino al 170 EV (con Diodoro di Corinto) mi pare, francamente, esagerato.

Shalom

[Modificato da barnabino 07/01/2007 22.56]

07/01/2007 22:51
 
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Caro Spirito,


Quindi Barnabino, se ci concentrassimo su questi aspetti non credi che faremmo cosa gradita a tutti ?



Mi pare che prima si debba stabilire i termini della discussione, uno di questi è come leggere le fonti e che valore dare alle diverse tradizioni: relativo o assoluto?

Se leggiamo che Clemente cita Pietro e Paolo assiame ma non specifica che Pietro fosse a Roma o morisse come martire possiamo fare delle ipotesi non possiamo trasformare quel silenzio silenzio nelle "nostre" certezze. I fatti, quello che si legge nel testo, sono questi: Clemente di fatto non dice che Pietro fosse a Roma, non dice che fosse vescovo di quella città e non dice che morì come martire. Certo, non dice neppure che Pietro non fu mai a Roma, ma perchè mai avrebbe dovuto dirlo?

Se poi riempiamo quel vuoto con nostre congetture possiamo farlo non possiamo parlare di certezze, come si sta facendo ignorando la tesi opposta, soprattutto quando le fonti precedenti, il NT, sono tutte contro la presenza di Pietro a Roma.

Shalom



[Modificato da barnabino 07/01/2007 22.54]

08/01/2007 09:52
 
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Caro barnabino, non avendo una confutazione che dice il contrario o che smentisca l’unanimità di questi uomini, sarebbe più facile, più obiettivo, e dimostreresti anche un certo tipo di dialogo senza intestardirti nell’impossibile.

Vedo che citi Clemente ed Ignazio, e gli altri?

Papia per esempio, discepolo di Giovanni e compagno di Policarpo.
Ireneo.
Lo stesso Dionigi di Corinto.
Clemente alessandrino (150-215) non stiamo poi troppo lontani con l’età.
Tertulliano (160-240) Non una ma più volte attesta che Pietro fu a Roma.
Origene (185-254) Che pure era quello che era per la chiesa.
Eusebio stesso (260-337) ci racconta dei particolari, e più volte cita Pietro a Roma.
Più tardi ancora Girolamo (347-420)

il fr. Rainer e l'Ascensio Isaiae che sono i più antichi.

Gli stessi riformati oggi in gran parte sono concordi.

Aldilà della confessione religiosa, giustamente come hanno riferito Teodoro e Andrea, dobbiamo ammettere quello che la storia ci dice, che sia lontana o vicina all’evento, che sia canonica, puramente storica, apocrifa etc., se non ci sono delle chiare smentite a questi fatti, dobbiamo semplicemente prendere atto che Pietro fu a Roma, altrimenti è inutile continuare la discussione negando tutti questi scritti, e nemmeno possiamo andare avanti.

08/01/2007 11:37
 
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caro barnabino,
le tue ipotesi si basano su congetture o al massimo su argumenta ex silentio, il che ne riduce drammaticamente il peso di probabilità verso lo zero. Se vuoi scalzare una tesi che gode di parecchie fonti piuttosto univoche, ancorché non contemporanee ai fatti in questione, dovresti avere qualcosa di più... concreto, o semplicemente qualcosa. Invece non hai nulla, e parli eclusivamente in ragione di una storia preconfezionata che ti senti costretto a difendere, come Franz quando andava in giro a cercare qualche sostegno per i conti sul 1914.
Non è così che si fa storia, non se si vuole essere presi sul serio.
Cordialità,
08/01/2007 15:12
 
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Caro Teodoro,

In parte sono d'accordo con la tua obiezione, ma ci sono delle precisazioni che vorrei fare


le tue ipotesi si basano su congetture o al massimo su argumenta ex silentio, il che ne riduce drammaticamente il peso di probabilità verso lo zero



Non mi pare ex silentio perchè per lo meno una fonte antica, 1 Pietro, dice chiaramente che l'apostolo verso la fine della sua vita non si trovava a Roma ma a Babilonia. Questa, di fatto, stando ai testi, è la tradizione più antica. Ti ho anche dimostrato perchè, a mio parere, l'identificazione Roma=Babilonia è molto controversa e basata su congettura poco attendibili.

Non credo che per quanto una tradizione sia diffusa permetta di ignorare questo dato. Tanto più che la presenza di Pietro a Roma presenta tutti i problemi che ho già esposto: perchè Pietro non cita Paolo e Paolo non cita mai Pietro se si trovavano a Roma assieme? Che ci faceva Pietro a Roma, un galileo che conosceva poco il greco e ancor meno il latino, sposato e già anziano a Roma quando nel NT lo vediamo spostarsi solo nell'ambito mediorientale? Perchè Luca, che tanto parla della missione di Paolo a Roma, tace sugli spostamenti romani di Pietro, una colonna della congregazione? Mi sembrano dubbi leciti e di buon senso.


dovresti avere qualcosa di più... concreto



L'ipotesi di Pietro a Roma sarà anche molto accreditata ma se mi permetti prima di dire che una tesi contraria ha una probabilità vicino allo zero mi aspetterei un pò più di evidenze.

Anche coloro che difendono la tesi di Pietro a Roma dovrebbero produrre qualcosa di più che "congetture" fonti della seconda metà del II secolo, sinceramente i testi di Clemente e Ignazio, per quanto li legga e rilegga, non mi sembra che possano dire nulla di preciso in questo senso.

Quello che io posso dire è che certo esisteva alla metà del II secolo una tradizione di presenza petrina a Roma, ma sulla storicità della stessa non mi sbilancerei alla luce delle molte obiezioni che si possono fare.

Shalom
08/01/2007 15:33
 
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Caro Luigi,


Vedo che citi Clemente ed Ignazio, e gli altri?



Ho citato loro perchè sono le fonti più antiche dopo il NT. In particolare Clemente era di Roma e dunque avrebbe saputo bene che Pietro era stato a Rome, vi era morto e ne era divenuto vescovo. Sinceramente i suoi riferimento a Pietro sono talmente aspecifici e generici da ipotizzare che sapesso ben poco su di lui.

Lo stesso vale per Ignazio, il fatto che sia citato insieme a Paolo non dice nulla di specifico.


Ireneo. Lo stesso Dionigi di Corinto



Siamo ormai nella seconda metà del II secolo, difficilemente si poteva verificare la storicità di certe affermazioni oltre 100 anni dopo i fatti, evidentemente vi era in corcolazione una tradizione che voleva Pietro a Roma, ma quanto attendibile potesse essere (visti i silenzi di testi precendenti) è difficile stabilirlo. Perfino Giustino alla metà del II secolo che risiedeva a Roma a parla della figura di Simone Mago (che a detta di Eusebio incontrò Pietro) tace completamente.

Per di più Dionigi e spreciso, parla infatti di Paolo e Pietro insieme a anche a Corinto, fatto di cui non abbiamo nessuna prova storica e che farebbero pensare che lo scrittore non utilizzasse fonti attendibilissime.

Gli altri autori sono di aree e periodi molto distanti per avere un vero valore storico, per di più introducono elementi chiaramente leggendari, come la crocifissione all'incontrario.


il fr. Rainer e l'Ascensio Isaiae che sono i più antichi.



A dire il vero l'ascensione di Isaia (datata variamente, ma prima del 140) non dice esplicitamente nulla, si parla di "uno dei dodici che sarà dato in sua mano" [Nerone] ma los tile apocalittico impedisce di giungere a conclusioni che non siano generiche. Secondo Gnilka "qui non si parla esplicitamente della morte violenta di Pietro" (Pietro e Roma, p. 115) ed il riferimento a Nerone non indica necessariamente il martirio a Roma, poichè Pietro poteva essere stato condannato da un qualunque procuratore in una qualunque località dell'impero, come accadrà a Policarpo.

Shalom


11/01/2007 12:13
 
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“Il rifiuto del soggiorno romano di Pietro è un errore oggi chiaro come il sole per ogni studioso che non s’accechi volutamente. Il martirio romano di Pietro è stato contestato in base a pregiudizi tendenziosi prima protestanti e poi critici” (A. Harnack, Die Cronologie der altchristlichen Literatur bis Eusebius, I, pag. 244)


Il metodo di Barnabino consiste nel non rispondere alle obiezioni scomode e nel continuare imperterrito a riproporre le stessi tesi senza neppure discutere la metà delle osservazioni che gli vengono fatte (si veda ad esempio l’insistenza maniacale nell’affermare che i brani apocalittici citati con Babilonia=Roma sarebbero “più tardi di 1Pt” quando invece gli è già stato risposto, e non c’è sognato di replicare, che sono invece contemporanei, cioè di fine I secolo). Lo scopo di questo post è fargli presente tutte le mancanze e soprattutto i tarocchi che ha saputo donarci.

“E' proprio per evitare di dire banalità e per affrontare i temi in modo serio che ti chiedo di approfondire un argomento per volte”

Infatti per approfondire questo specifico argomento, la venuta di Pietro a Roma, è necessaria l’analisi di molte fonti, motivo per cui in genere, per questa tematica e per molte altre, gli gli articoli nelle riviste del settore superano le dieci pagine. Non si può trattare un argomento simile in due paginette.


“Abbiamo anche detto che”

Il pluralis majestatis che usi per parlare di te stesso è dovuto a qualche titolo accademico? E sì quale? In caso contrario noi continueremo a pensare che non tutti abbiano il diritto di usarlo. [SM=g27987]

“il passaggio è piuttosto controverso”

Non esiste alcun testo, neppure una lista della spesa, per la quale il circolo ermeneutica non sia infinito. Ergo questa prima riga non vuol dire nulla.

“come ho detto non ci sono traccede fatto che prima del 70 ci fosse l'abitudine di identificare Roma con Babilonia”

Infatti ho citato testi che sono esattamente coevi. Sia l’Apocalisse di Baruch che IV Esdra sono apocrifi del I secolo, per non parlare dell’Apocalisse di Giovanni ovviamente. (E non ne parlo per pietà giacché l’interpretazione dei TdG a tal proposito sta, guarda caso, solo nei loro libri.)
Abbiamo cioè la prova grazie a questi apocrifi del tardo giudaismo che presso gli ebrei contemporanei di Pietro il modo di dire era in auge, e, lo ripeto, questa è la più antica interpretazione anche cristiana. Se tu pensi di saperne di più di uno che nel I secolo c ‘è vissuto tanti auguri, il metodo storico-critico sta altrove.

“testi che citi sono posteriori a tale data”

No, e, se per pura ipotesi lo fossero, nulla vieta che questa sia la prima attestazione di un significato largamente attestato immediatamente dopo.

“e per di più di carattere apocalittico”

E con ciò? Si è semplicemente voluto dimostrare che tale modo di dire è contemporaneo a Pietro, e diffuso per giunta, arriva fino al Talmud (coordinate già citate). I modi di dire sono trasversali ai generi letterari.

“inoltre sono di area orientale piuttosto che latina.”

E allora? La tua lingua e i suoi modi di dire li impari nella tua madrepatria, e Pietro era orientale.

“Inoltre non credo davvero che la lettera abbia un carattere anti romano tale da giustificare quella chiusa così negativa”

Non occorre essere nel tono dell’invettiva per parlare di qualcosa in maniera negativa. Come già detto Pietro non era contro l’autorità in sé ma contro il sistema che Roma rappresentava, quel sistema di lussi, meretricio, guerra, persecuzione, che nella mente del giudeo sotto la dominazione Roma fa appunto trasporre l’antica sottomissione ai babilonesi nella sottomissione ai romani. Roma appare come una capitale del vizio, e non c’è alcun bisogno d’essere intenti a scrivere un libro si satira per usare un simile modo di dire.

“non c'era davvero ragione alcuna di non esplicitare il nome di Roma usando un nome criptato”

Perché pensi che sia criptato? Criptato viene da krypto, nascondo, e suppongo che tu voglia dire che l’autore stesse tentando di non farsi capire da chissà quale Grande Fratello imperiale. Non ho affermato nulla di simile. Pietro usa la parola Babilonia esattamente per lo stesso motivo per cui io anziché “vivo a Venezia” posso dire “vivo nella Serenissima”, ossia che i due termini nella mente dello scrittore e del lettore sono intercambiabili.

“asta pensare che la II di Timoteo (1:17) non esista affatto a parlare esplicitamente di Roma.”

Ma ditemi voi cosa diavolo c’entra. Avrebbe senso solo se il motivo per usare Babilonia fosse appunto quello di nascondere il nome “Roma” per paura di persecuzioni, ma se così non è e si tratta banalmente di un modo di dire usato dai giudei a sottolineare la peccaminosità di Roma, allora non c’è ragione perché debba venire usato sempre e comunque quasi che i Vangeli fossero un cifrario della CIA e dunque avessero paranoie di segretezza. Non si voleva celare nulla, motivo per cui il modo di dire può convivere accanto al linguaggio standard. Per di più confronti testi diversi di autori diversi, ergo se anche io avessi sostenuto che Pietro usa Babilonia per motivi di sicurezza, ciò non implicherebbe che questa sia anche l’abitudine di un altro autore come nel nostro caso Paolo, e per essere più esatti neppure lui.

“Altra anomalia, la I di Pietro è di fattoo sconosciuta a Roma (almeno a Clemente)”

Ma cosa diavolo vuol dire questa frase? Clemente Romano fa forse un elenco dei libri canonici che mi sono perso? E io che pensavo ci fosse rimasta una sua sola misera opera. Vogliamo vedere quanti testi attualmente canonici non cita? Non ho mai fatto questa verifica ma per quanto ne so potrebbe non citarne che un paio, infondo per quale oscuro motivo in un testo una persona dovrebbe essere obbligata a citare simultaneamente tutti i libri che ritiene ispirati? La mania dell’argumento e silentio impera sempre di più. Ma c’è di più.

“e non è accettata neppure nel canone muratoriano, probabilmente scritto a Roma alla fine del II secolo.”

Questa è l’unica osservazione sensata che ho letto nei tuoi post, l’unica cioè che dica qualcosa di valore e che meriti d’essere discussa. Tra l’altro grazie di avermi ricordato il canone muratoriano, giacché è utile per un doppio scopo. Sia perché è una fonte datata al 180 d.C. che testimonia il martirio di Pietro a Roma, sia perché ci spiega che Luca non ha raccontato, negli Atti degli Apostoli, che ciò che era avvenuto sotto i suoi occhi, da cui la sua “omissione della passione di Pietro”. Cito il testo del canone muratoriano:

“Gli Atti poi di tutti gli Apostoli sono scritti in un unico libro. Luca raccoglie per l’ottimo Teófilo le singole cose che sono state fatte in presenza sua e lo fa vedere chiaramente omettendo la passione di Pietro e anche la partenza di Paolo dall’Urbe (si riferisce alla prima prigionia di Paolo N.d.R.)”

Questa motivazione ovviamente completa quella che avevo già esposto. Ma torniamo a noi, giacché a differenza di qualcuno io non mi limito a tralasciare le domande scomode. E’ corretto affermare come tu hai fatto che “la I di Pietro è di fatto sconosciuta a Roma”? Manca nel canone muratoriano ma basta analizzare altri autori romani di quel periodo per rendersi contro che era conosciuta nell’Urbe, e dunque l’omissione deve avere un’altra ragione. Inoltre a fine II secolo che senso ha dire che una lettera non è conosciuta in una delle sedi episcopali più importanti dell’impero? Non a caso si parla di ecumene cristiano, ed è impossibile che una lettera così testimoniata in altre comunità non sia mai stata sentita a Roma. Si può certo discutere se fosse canonica o meno per tale comunità, ma non certo arrivare a postulare che ne ignorassero l’esistenza a fine II secolo come fai tu, ciò implicherebbe un’idea di localismo ecclesiale che non è sostenibile a questa data, le varie sedi apostoliche infatti erano in rapporti di reciproca comunione e queste non sono informazioni da poco. Ma volendo restare agli autori romani coevi al canone muratoriano che testimoniano la canonicità di 1Pt si possono citare sia Sant’Ippolito Romano sia Tertulliano (http://www.christianismus.it/sezscritti/doc0020/pgfisscanone.html), quest’ultimo lo cito perché com’è noto la Chiesa d’Africa era nell’orbita di quella di Roma e l’autore stesso visse nell’Urbe facendo l’avvocato. Ireneo stesso è del periodo, ed è mai possibile che colui che afferma di basare il metro della sua ortodossia sulla Chiesa di Roma porti un parere non conforme alla Chiesa “con la quale” a suo dire “deve necessariamente essere d’accordo ogni comunità”? Tanto più che essendo vescovo di Lione anch’egli era nell’orbita romana.

“Se fu scritto dopo il 70 è strano che non accenni al martirio di Pietro e se venne concluso prima è strano che non faccia comunque alcun riferimento all'opera congiunta di Paolo e Pietro a Roma.”

Quest’argomentazione non vuol dire un emerito nulla. Cosa diavolo c’entra la data di commozione di un’opera? Quello che conta è l’arco cronologico che quell’opera tratta. O pensi forse che chiunque scriva un libro di storia della farlo arrivando sempre per forza a parlare dei suoi giorni? Non posso forse scrivere un libro sulla rivoluzione francese e solo su quella? E allo stesso modo, visto che gli Atti degli Apostoli finiscono con la prigionia di Paolo, e dunque quando quest’ultimo non era ancora morto, per quale assurdità ci si dovrebbe aspettare che trattino della morte di Pietro visto che quest’ultima è successiva a quella di Paolo? Non arriva a trattare la morte dell’apostolo dei gentili, figurarsi la morte dell’Apostolo dei circoncisi. Secondo il tuo ragionamento dovremmo concludere che siccome non parla della morte di Paolo essa non sia avvenuta!

“Questo potrebbe essere un indizio che Pietro morisse in "Babilonia" inteso letteralmente, in quanto l'assenza di uno sviluppo del cristianesimo in quell'area impedì il nascere di leggende o l'appropriarsi di paternità apostoliche da parte della comunità.”

Veramente ridicolo, siamo al culmine delle ipotesi ad hoc per salvaguardare il nocciolo duroi del ragionamento. Vale a dire che si sparano in continuazione spiegazioni alternative, non supportate neppure da indizi, pur di non far traballare il nocciolo del nostro pensiero. Facciamo due raffronti e vediamo chi postula più “entia” per fa filare la sua spiegazione, e alla fine applichiamo il rasoio di Ockham. Da una parte abbiamo Babilonia in Italia, con l’esistenza di questa nomenclatura attestata in documenti giudaici coevi e tutta la tradizione successiva che concorda, a ciò si aggiunga che nessun altra città pretende di far concorrenza a Roma, per la banale ragione che tutti sapevano come stavano le cose. Dall’altra parte dobbiamo postulare un viaggio non attestato altrove di Pietro a Babilonia, dobbiamo altresì postulare che qui ci fosse una comunità cristiana quando non ve n’è traccia fino al terzo secolo, e poi, per spiegarci come mai non faccia concorrenza a Roma, dobbiamo postulare che questa comunità (che lo ripeto è fantasma), dopo essersi creata sia anche di lì a poco misteriosamente sparita, per poi riapparire nel III secolo e non ricordarsi che l’apostolo era stato in quelle regione (viene da chiedersi perché allora si sia conservata la memoria della predicazione di Filippo in quei luoghi). Inoltre Pietro, avrebbe predicato a questa comunità fantasma di Babilonia quando invece sappiamo da Giuseppe Flavio che non c’era nessuno a cui potesse predicare in quanto i giudei a metà I secolo s’erano trasferiti da Babilonia a Seleucia(Ant. Giud. XVIII,9.8 ). E su questo particolare non ho avuto ovviamente risposte. Avevo scritto: “questo giocare alle ipotesi controfattuali ha dimostrato come il tuo sia il semplice rimanere fisso su una posizione tentando di smontare i ragionamento altrui con indimostrate ipotesi ad hoc. Quod gratis adfirmatur, gratis negatur, basterebbe replicare” Quando poi sarebbe sparita questa comunità babilonese? Era già bella e finita pochi decenni dopo la predicazione petrina? Pare di sì se vuoi sostenere la tua ipotesi, giacché la tradizione di Pietro a Babilonia/Roma è già attesta a fine I secolo e inizio II secolo con Papia e i due testi apocalittici già citati, e neppure allora abbiamo traccia di concorrenza o protesta alcuna, anzi abbiamo la prova che già a fine I secolo si sapeva del martirio romano (e infatti su Papia hai smesso di rispondere, hai detto due balbettii sull’Ascensio Isaiae e hai tralasciato il fr. Rainer). Il tuo metodo è cioè quello di inventare una spiegazione alternativa qualsiasi, senza neppure disturbarti a fornire indizi o prove, e questo perché i fatti vanno piegati alle teorie precostituite anziché le teorie ai fatti. Meglio inventarsi una comunità a Babilonia mai attestata che prendere atto di una comunità in una Roma chiamata Babilonia (e questa volta non un’ipotesi ma una certezza testuale). Inoltre se Pietro fosse morto a Babilonia, perdono completamente senso tutte le testimonianze apocalittiche di fine primo secolo citate, che parlano chiaramente di una persecuzione romana, anzi neroniana. L’impero romano a Babilonia non s’è neppure mai insediato! La mesopotamica in quest’epoca non era neppure sotto Roma, fu conquistata da Traiano. Prendiamo un manuale universitario di storia romana e facciamo un po’ di lezione. In giallo le zone in cui è attestata la presenza cristiana prima del duecento, in arancio quelle in cui è attestata nel 300. Come si vede siamo molto lontani da Babilonia:


(Adam Ziolkowski, Storia di Roma, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pag. 500)

Ecco perché, cari miei, giocare a fare gli antichisti senza una preparazione accademica alle spalle che ti permetta di conoscere il contesto storico è estremamente rischioso, una formazione classica infatti solitamente riesce ad impedire l’articolazione di ipotesi farlocche, perché si conosce il mondo in cui ti muovi. Ma qui tutti sembrano ritenere d’aver diritto di parola, e come già detto è assurdo che esista un albo degli avvocati e non una cosa simile per i grecisti. Nessuno tollera i praticoni, mentre al contrario se un matematico scrive un libro di, ad esempio, storia del cristianesimo primitivo, si pensa che la cosa sia normale. Ora, non si può certo negare la libertà di parola, esattamente come non si può negare il diritto a una persona che voglia farsi curare da un mago ciarlatano di rivolgersi a lui, tuttavia si deve imporre a tale dilettante di affiggere una targa nel suo studio con scritto “non sono un medico”. Allo stesso modo le esternazioni di tutti questi profondi antichisti e conoscitori della storia imperiale andrebbero timbrati con un “scritto da un dilettante” a piè pagina. Su quest’argomento è utile riportare le già citate parole di Cullmann:
Mi pare sia la spiegazione più probabile, considerare Babilonia come designazione esoterica di Roma: se infatti l’autore scrive da Roma, può aver avuto, proprio come l’autore dell’Apocalisse Giovannica, una ragione per sostituire Roma con Babilonia, sia che volesse evitarne il nome per timore delle autorità imperiali romane, sia che – ed è più è più probabile- la cittàn di babilonia, così importante nella profezia veterotestamentaria, carica di tutto il significato che aveva per il popolo d’Israele, fosse divenuto un concetto teologico che nell’attualità in cui viveva l’autore si poteva applicare a Roma. (…)Siccome, trattandosi di una formula di saluto, si deve pensare a iuna città concreta e definita, al tempo dell’autore non v’era altra comunità se non Roma, alla quale si potesse applicare l’immagine carica di significato dell’antica Babilonia. Naturalmente si deve presupporre che il termine sia usato qui con questo suignificvato simbolico; il che trova conferma nel fatto che tale applicazione, in feriferimento a Roma, si trova con sicurezza in altri documenti: anzitutto nell’Apocalisse giovannea, dove ai capp. 18,4;16,19; 17,5 ss.;18,2 ss con “Babilonia” si intende indubbiamente Roma; forse anche l’espressione “Sodomia e l’Egitto”(11,8 ) adombra ugualmente Roma. Pure nella letteratura pseudoepigrafa del tardo giudaismo troviamo “Babilonia” quale designazione allusiva di Roma: così in Sib. Or. V,59, ove è detto che arderanno anche il profondo mare e la stessa Babilonia e la terra d’Italia); v. pure in Apoc. Bar, 11,1 e Iv Esdra 3,1 ss.;28,31. E’ vero che sia l’Apocalisse Giovannica sia i testi del tardo giudaismo sono documenti che non possono essere più antichi della nostra prima lettera di Pietro, tuttavia essi appartengono all’incirca al medesimo periodo. Inoltre il termine “mysterium” che in Ap 17,5 si riferisce alla dichiarazione su Babilonia-Roma, sembra indicare che tale espressione esoterica era già nota ai cristiani. Per tutte queste tachioni Roma è dunque l’interpretazione più naturale del termine “Babilonia” in 1Pt 5,13, se leggiamo il testo senza preconcetti e senza tener conto della controversia sul soggiorno di Pietro a Roma. Già Papaia spiegava così il versetto. (…) Questa possibilità (la Babilonia in mesopotamica) non può essere totalmente esclusa, ma non è affatto verosimile né si appoggia alla tradizione cristiana posteriore, la quale non conosce in quelle regioni attività missionario di Pietro bensì solo dell’Apostolo Tommaso; si aggiunga il fatto che anche il Talmud babilonese menziona soltanto a partire dal III secolo la presenza di cristiani in questa regione. Alcuni hanno pensato che l’autore che ha attribuito a Pietro la propria lettera non sapesse nulla di preciso circa le località in cui si svolse l’attività dell’apostolo e che perciò abbia ha scelto la lontana a e un po’ favolosa Babilonia; ma tale interpretazione non può essere provata in alcun modo e non è affatto probabile, specie tenendo presente la concreta menzione di Marco. Perciò deve essere respinta anche l’ipotesi recente secondo la quale il termine non designerebbe alcuna città concreta ma- come discopra nel cap. 1,1- dovrebbe essere inteso solo figuratamene nel senso di “senza patria”(Heussi). In linea di principio dovrebbe essere presa in considerazione ancora un’altra Babilonia: il campo militare egiziano nei pressi dell’attuale Cairo menzionato da Stradone e da Giuseppe. Ma è inaccettabile l’assurda ipotesi che in 1Pt 5,12 si tratti di questa più o meno oscura Babilonia. (pag. 109-114)

I tdG cioè non conoscendo lo statuto epistemologico della storia antica, pretendono da essa delle prove che essa per gran parte dei fatti che stanno suoi nostri manuali non può fornire. Qui non siamo in un esperimento di chimica e quando abbiamo a che fare col mondo antico non si può ottenere la certezza su nulla, qui si vuole solo sottolineare che non c’è alcun motivo per respingere la tradizione di un soggiorno romano di Pietro, anzi, una serie impressionante di elementi convergenti la affermano, e sono un pregiudizio partigiano può respingerla, chiedendo delle prove che per è impossibile avere anche per un fatto avvenuto 400 anni fa, figurarsi 2000. Scrive sempre Cullmann:
Sembra provato con sufficiente probabilità che il martirio di Pietro a Roma può in definitiva essere accettato come un fatto, se non assolutamente, almeno relativamente accertato nel quadro storico della Chiesa antica, sia pure con la naturale riserva con cui consideriamo molti altri fatti dell’antichità generalmente riconosciuti come storici. Se volessimo raggiungere un maggior grado di probabilità per tutti i fatti della storia antica, dovremmo stralciarne una gran parte dai nostri testi di storia. (…) Se non dovessimo conservare delle riserve nei confronti di ogni argomento e silentio, potremmo anzi considerare il fatto che titta l’antica letteratura cristiana tace totalmente circa la morte dell’apostolo, come un indizio del martirio romano di Pietro: non abbiamo infatti la minima traccia di un’indicazione di località che possa essere considerata come il luogo della sua morte. A favore di Roma stanno indicazioni importanti, seppure indirette, che possono a buon diritto essere intese in questo senso; anzi la loro forza provante viene appunto accresciuta dal loro carattere indiretto, puramente allusivo. Si deve inoltre considerare che nel II e III secolo, quando si manifestava ormai una certa rivalità fra varie comunità e quella di Roma, neppure una di queste contestò la pretesa di Roma di essere la sede del martirio di Pietro; anzi, proprio in Oriente, come lo attestano le pseudo-clementine e le leggende petrine, la tradizione del soggiorno di Pietro a Roma era profondamente radicata (pag 153-154)

“Secondo Conzelmann(Le Origini del Cristianesimo - I risultati della critica storica) potrebbe essere morto nei pressi della "sua chiesa" ovvero nei pressi di Antiochia di Siria”

Iniziano le citazioni delle mummie, Heussi in primis, e il fatto che il mio interlocutore non possa far altro che citare gente morta a favore delle sue tesi è indicativo di quanto siano aggiornate e condivise le sue idee dai biblisti protestanti di oggi. Stavamo appunto dicendo che oggi gli studiosi di qualsiasi confessione non contestano più la venuta di Pietro a Roma, e quando dico studiosi non intendendo i poveri settari protestanti che scrivono in rete ignorando finanche l’alfabeto greco. Certi siti “evangelici” della rete hanno la scientificità dei telepredicatori americani della bible belt. Ma non pensiate che Barnabino abbia letto qualcosa degli autori che vi sta citando, sta infatti scopiazzando dalle note del libro di Cullmann e di quello di Gnilka sul primato un po’ di nomi citati dai due studiosi, e ovviamente costoro nel contesto sono citati per dimostrare quando siano superati. Sulla tesi “Antiochia” torno in seguito.

“che sia in questa regione che in Babilonia non vi siano luoghi di memoria di Pietro è failmente spiegabile con il fatto che per i giudeo-cristiani ignoravano ogni forma di culto delle tombe dei martiri e evitavano di toccare spoglie umane.”

Il culto dei martiri non c’entra un emerito nulla. L’ipotetico portare in pompa magna la “bara” di un apostolo ed edificarvi un mausoleo non ha nulla a che fare con questo problema-. Se che gli abbiano tributato culto o meno a Babilonia, questo non ha nulla a che fare con la notizia della sua morte in quel luogo che avrebbe comunque dovuto girare ed essere diffusa nel cristianesimo orientale. Possibile che a fine I secolo ci fosse già la tradizione della morte di Pietro a Roma e nessuno in medio-oriente li abbia sbugiardati? Com’è possibile che il luogo del martirio(Gv 21) del principe degli apostoli, della persona cui sono dedicati metà degli Atti, una delle tre colonne della Chiesa, non venga risaputo in giro e dalla Siria o dalla mesopotamica non si sappia in tutto l’Oriente, anzi fino allo stretto di Gibilterra? Ciò presuppone un immobilismo delle comunità cristiane insostenibile. Inoltre la Chiesa di Antiochia, in cui ora supponi la morte dell’apostolo, non è mai scoparsa a differenza della tua fantomatica comunità babilonese, anzi è stata una delle cinque sedi della pentarchia, e secondo te ad Antiochia si sarebbero dimenticati che l’apostolo Pietro è morto lì da loro?
E tanto per tornare al “culto”, anche se come abbiamo visto non c’entra nulla, fatti un giro alla casa di Pietro a Cafarnao e scoprirai sulle pareti della domus ecclesia una moltitudine di graffiti in tutte le lingue (siriaco compreso), per invocare la protezione di San Pietro. Che cosa pagana vero per la vostra mentalità settaria americana?

“Babilonia, e questa è tesi di Huessi seguita anche da Boismard, potrebbe anche essere solo una metafora per indicare la difficile condizione del cristiano in esilio in questa terra di dolori, come lo erano i santi che vivono forestieri nella diaspora, senza dunque nessun riferimento a qualche città reale”

E suppongo che le prove letterarie che sia attestato questo modo di dire, ossia che dire “sono a Babilonia” voglia dire “sono in esilio” non le avremo mai, mentre le prove di “Babilonia” che sta per Roma le abbiamo viste. Siamo dinnanzi all’ennesima ipotesi ad hoc creata senza prove pur di rimanere nella propria posizione. Ma s’è già spiegato perché non ha senso. In primis Pietro non sta parlando di se stesso, come se in preda ad un misticismo si sentisse solo in questa terra di sventura, ma sta riportando i saluti di una chiesa (cioè di un gruppo di persone) e persino i saluti di Marco. Tutto ha l’aria della concretezza. E poi, chi ha il coraggio di citare Heussi? Ma sapete chi è e qual era il suo metodo d’indagine, ben noto ai suoi contemporanei? Si trattava di un’irriducibile negatore della presenza di Pietro. Il suo modo di fare storia era così partigiano che K.Aland (e sappiamo tutti che grande filologo fosse), dovette scrivere un’opera per smascherare l’assurdità del suo metodo, del tutto uguale a quello di Barnabino, ossia l’inventare a go go ipotesi ad hoc per respingere le obiezioni altrui, non importa quanto fossero fantasiose. (Il testo di K. Aland è Der Tod des Petrus in Rom, Bemerkungen zu seiner Bestreitung durc Karl Heussi,1959). K. Aland, che tanto per cambiare era protestante, concluse questo suo studio con l’affermazione: “che cosa rimane da fare, metodologicamente, se non accettare il martirio di Pietro a Roma come un fatto?... A mio avviso questa conclusione è inevitabile, se ci si serve dei metodi e degli angoli visuali validi nell’ambito dello studio storico critico del I e del II secolo dell’era cristiana) (cit. in Cullmann, op. cit. pag, 101)
Tra l’altro è divertentissima la descrizione che Cullmann fa di Heussi e dei suoi metodi, tanto per avere un’idea del personaggio:

“Lo stesso Heussi si ripresentò con nuovi lavori, prese posizione sui recenti scavi e cercò di fondare la propria tesi sull'imperfetto di Gal. 2, 6. [Quando Paolo scrisse la sua lettera ai Galati, Pietro non sarebbe già più stato in vita (Gal 2,6: chi essi erano N.d.R.] In contrapposizione alla prima edizione del mio saggio su Pietro (1952) e, più tardi, all'importante articolo di K. Aland : Petrus in Rom, pubblicato nell'« Historische Zeitschrift » (1957) -lo Aland, come già altri prima, si era sforzato di dimostrare l'impossibilità di quell'interpretazione di Gal. 2, 6- lo Heussi ha mantenuto fino a ieri la sua posizione in una nuova serie di articoli polemici, con una sicurezza di sé e con una prevenzione ancora maggiori di quelle mostrate nella fase precedente della discussione suscitata dal Lietzmann. In un articolo del tutto infondato e senza prendere nella minima considerazione i miei argomenti, egli cerca anzitutto di screditare il mio libro: Oscar Cullmanns Petrusbuch, in « Deutsches Pfarrerblatt », 1953, pp. 79 s. Nel suo opuscolo Die rómische Petrustradition in kritischer Sicht, 1955, è quasi esasperante vedere come lo Heussi, abusando del termine « critico », gratifichi tutticoloro che non condividono la sua opinione su questa questione puramente scientifica, del giudizio di essere « prigionieri di una tradizione » e di « mancare di senso storico-critico ». Come se un vero senso critico non dovesse esercitarsi anche verso i dogmi scientifici e specialmente nei confronti delle proprie tesi stesse! K. Aland ha esposto in modo completo il contenuto e il metodo della polemica dello Heussi in uno studio più ampio: Der Tod des Petrusin Rom, Bemerkungen zu seiner Bestreitung durc Karl Heussi (1959)(...)[Segue un brano che tratta della lettera di Clemente nel brano sul martirio di Pietro. Heussi nega che parli del martirio di Pietro a Roma, tuttavia sembra rendersi conto che invece effettivamente ne parla visto che si affretta a dichiararlo interpolato. Ma lascio la parola a Cullmann. N.d.R.] Già per questa ragione va rifiutata la tesi posteriore che K. Heussi ha stranamente sostenuto nel suo secondo scritto in contrapposizione a H. Lietzmann, Neues zur Petrusfrage, 1939: che, cioè, il passo relativo a Pietro (i par. 3 e 4) potrebbe essere un inserto posteriore; infatti in questo modo verrebbe svuotato di senso tutto il laborioso sforzo ordinatore di Clemente.
A parte ciò, questa tesi tardiva dello Heussi attesta una certa insicurezza di questo studioso di fronte agli argomenti da: lui stesso addotti nell'opera precedente: War Petrus in Rom?, con i quali egli si era appunto sforzato di dimostrare che Clemente in quel passo del capitolo centrale riferiva le vacue e insignificanti genericità che sapeva intorno a Pietro e che martyresas non si riferiva al martirio. Ed ecco che nello scritto del 1939 egli scrive, ; in modo per lo meno singolare: nel caso che il paragrafo relativo a Pietro fosse un inserto, si dovrebbe intendere il martyresas, in corrispondenza di quello riferito a Paolo, nel senso del martirio vero e proprio! [Cioè se è un’interpolazione, allora parla del martirio perché diventa comodo dire che è stata inventata da un bugiardo per apologia N.d.R]
Più avanti egli spiega però: chi non può accettare la tesi dell'interpolazione, dovrebbe attenersi agli altri risultati messi in evidenza nella sua analisi precedente ! Si ha così la penosa impressione che debba essere provato a qualunque costo, che l'epistola di Clemente non può essere considerata una prova del martirio di Pietro a Roma!”

Credo basti come esemplificazione. In realtà Cullmann nel suo libro commenta uno dietro l’altro tutti i pietosi argumenta ad hoc di Cullmann, ma non essendo questo l’argomento del post rimando alla lettura dell’opera integrale chi volesse approfondire. Inoltre era doveroso che sapeste da dove Barnabino ha tirato fuori quel nome, cioè dal libro di Cullmann che ha davanti, c’è il rischio altrimenti che ve lo raffiguriate come un raffinato filologo che si va a leggere anche la produzione filologica tedesca non tradotta in italiano.



“Guarda io non ho tesi preconcette”

La tua “tesi preconcetta” si chiama Torre di Guardia, il tuo schema mentale è di quelle riviste che trasudano di citazioni da vetero-protestantesimo. Smettila di cercare di passare per una persona moderata e aperta di mente, non esistono tdG non integralisti circa le posizioni dello Schiavo perché qualunque sgarro fuori dallo schema mentale insufflato dalla Torre è sinonimo del satanico pensiero indipendente, tutto ciò che bisogna fare è sottolineare quelle magiche riviste e imparare le rispostine per le domande a fondo pagina. Io sono un cattolico critico verso diverse posizioni della sua Chiesa, ad esempio sono d’accordo con l’uso del profilattico all’interno del matrimonio, esiste forse qualcosa detto dalla WTS con cui tu non concordi in pieno? No? E allora come puoi sostenere di non avere idee preconcette, voi che rappresentate tutto quello che i manuali di sociologia definiscono come fondamentalismo cristiano e settarismo, voi che per l’adesione alla lettera fate morire della gente, voi che credete in un Dio sterminatore da mitologia giudaica, voi che credete a giardini dell’Eden e ad angeli che s’accoppiano, voi che credete di essere i soli futuri salvati, voi insomma che siete la quintessenza di ciò che viene considerato assenza di apertura mentale, come osate dire che non avete tesi preconcette?

“solo ridicolo il tuo atteggiamento di chiusura su tesi alternative”

Io non chiudo niente, io smonto.

“considerando la vaghezza delle fonte che porti.”

E siccome tutti gli accademici del pianeta sono giunti dopo secoli di discute ad un’altra conclusione rispetto alla tua non posso che augurarti di fare qualche progresso e di renderti conto di quale sia l’immane concerto delle fonti.

“Polly non ha proposto molto di più di quanto dicono i manuali di apologetica cattolica.”

Non ho citato alcun manuale di apologetica cattolica né ne conosco. Ho citato studiosi anche protestanti per la semplice ragione che oggi nessun antichista mette più seriamente in dubbio la venuta di Pietro a Roma.

“olly nasconde l'assenza di argomenti con la presunta impreparazione dei sui interlocutori.”

Presunta? Di grazia, in cosa sei laureato? In biologia?

“In realtà basta leggere, Clemente non parla che Pietro fosse a Roma nè ch vi fosse ucciso”

Questo è un argomento secondario, e comunque s’è cercato di dimostrare sulla scia di Cullmann che (pag 128 e ss.) la descrizione dei fatti narrati si staglia a pennello solo sulla comunità di Roma. Come dice giustamente l’autore a pagina 152: A proposito del martirio romano di Pietro, abbiamo due testi che valgono come testimonianze indirette; 1Clem 5 e Ign. Rom. 4,3. Né l’uno né l’altro dicono esplicitamente che Pietro sia venuto a Roma; tuttavia in entrambi i casi, e specialmente per la I Clem, che presuppone una situazione comunitaria applicabile soltanto a Roma, sembra provato con sufficiente probabilità che il martirio di Pietro a Roma (pag. 152-153)
Le argomentazioni sono state esposte altrove.

“Caro Claudio, a me pare che basti un pò di buon senso in questi casi,”

Mio caro, se per dissertare di storia antica bastasse il buon senso io non avrei dovuto dare esami del tipo: storia greca, storia romana, storia delle chiese cristiane, ecc. Sfortunatamente nelle università la pensano diversamente da te su quali siano i requisiti dell’antichista, e il buon senso non è quello determinamene.
Inoltre se bastasse il buon senso per sapere che Pietro non è stato a Roma, dote di cui tu ti ritieni evidentemente fornito, allora hai appena decretato che quasi tutti gli storici del cristianesimo primitivo oggi viventi e di qualunque confessione, sono senza “buon senso”, giacché il soggiorno romano di Pietro non è più contestato. Congratulazione per questa sopravvalutazione delle tue capacità, non posso che inchinarmi dinnanzi a colui il cui buon senso supera le facoltà di discernimento dei filologi di Tubinga.

“che Clemente parli di Paolo e Pietro nello spesso passo e lo stasse faccia Ignazio possa essere compatibile con la presenza di una tradizione che voleva Pietro a Roma, ma da questo a sostenere che quegli autori attestino che con certezza vi fosse stato il passo mi sembra lungo!”

Pregasi mostrare dove avrei affermato che questi testi hanno il grado di “certezza”. Come già detto la certezza non appartiene allo statuto epistemico e gnoseologico della storia antica.

“Non è infatti così ovvio che un pescatore galileo che parlava aramaico e qualche parola di greco andasse a Roma.”

Questa perla dimostra ignoranza sugli studi ormai decennali circa il bilinguismo in Terra Santa. S’ dimostrato che il greco era la lingua internazionale più del latino e che tutti in Palestina la parlavano, anche perché avevano la Decapoli a due passi, s’è anzi evidenziato archeologicamente di come persino gli ultra-nazionalisti ribelli zeloti di Masada durante l’assedio si dilettassero con poesia greca, e addirittura col latino di Virgilio! In più la tua posizione secondo cui Pietro non sapeva il greco annienterebbe la possibilità che sia lui l’autore della lettera chiamata 1Pt. C’è di più, uno degli argomenti più ricorrenti in passato per negargli la paternità dell’opera era che non solo era in greco, ma addirittura in un greco raffinato. Ciò è stato appunto superato con gli studi sul bilinguismo nel mondo giudaico del I secolo di cui ho parlato (sì sapeva già per Roma, dove tutti dall’età del circolo degli Scipioni parlavano greco). Un riassunto della questione si può trovare nell’introduzione alla lettera della TOB:
“Alcuni specialisti hanno messo in dubbio l'autenticità petrina della lettera. Ecco i principali argomenti da essi addotti e le risposte che si possono dare:
a)Il greco in cui è scritta la lettera è così qualificato che sembra difficile poterlo attribuire a Pietro, il pescatore di Galilea. E non basta, per risolvere la difficoltà, affermare che Pietro avrebbe scritto il suo testo in aramaico e l'avrebbe fatto tradurre in greco da un'altra persona (Silvano, 5,12): in questo caso, infatti, non si spiegherebbe perché, nella lettera, le citazioni dell'AT sono tratte direttamente e senza eccezioni dal testo greco. Ma l'argomento non è decisivo. Da una parte si è fatto notare che, al tempo di Gesù, il greco veniva parlato correntemente in Palestina, come è provato da documenti scoperti di recente; Pietro, perciò, poteva benissimo conoscere questa lingua. D'altra parte, nulla impedisce che Pietro si sia valso della collaborazione di Silvano per la redazione del suo testo; e ciò spiegherebbe la pregevolezza dello stile.” (pag. 2814)

Il mito dei “poveri pescatori analfabeti” serve solo ai TdG e a chi come loro non ha una preparazione accademica per crogiolarsi nel cliché “Gesù parlava ai semplici” e gloriarsi della propria ignoranza rivendicandola come un diritto, quando è vero come l’oro che confondono la semplicità con la dabbenaggine, e l’impossibilità di studiare con l’ostinato rifiuto a farlo, confondono cioè l’ignoranza incolpevole con un’ignoranza che si fa arrogante e pretende addirittura di gloriarsi.

Un articolo sul bilinguismo in Palestina del nostro amato Carsten Thiede (se non hai intenzione di contestarmi ulteriormente questo punto puoi anche saltarlo) :

L’uso diffuso della lingua greca

Ci possiamo chiedere come mai Gesù, nato a Betlemme e cresciuto a Nazaret, abbia deciso di andare la cercare i suoi discepoli sul mare di Galilea. La risposta è semplice. E che lì poteva trovare uomini veri, non ancora «corrotti» dal lusso della città, già abituati agli affari internazionali e che, inoltre, conoscevano almeno una lingua straniera.
La regione fra Cafarnao e Betsaida, sulla o vicino alla via maris, la più importante arteria commerciale da nord verso sud-ovest, era una specie di crocevia del «mercato comune». La gente che abitava in quella regione, dedita al commercio o alla pesca, non solo era abituata a incontrare persone di moltissime altre regioni ma parlava comunemente anche la lingua franca del tempo e cioè il greco. Pietro, che era di Betsaida, una città in cui erano molto forti gli influssi della cultura greca, assieme alla lingua materna, 1'aramaico, molto probabilmente parlava anche il greco. Del resto; anche il suo nome e quello del fratello Andrea lo fanno supporre. Andrea è un nome greco, e il vero nome di Pietro, Simone, è sia ebraico che greco. Lo si trova infatti nella letteratura greca a partire dal. V secolo a.C.
Che cosa cercare dunque di più adatto per la missione mondiale cui erano destinati di questi uomini, cresciuti in contesto internazionale e che conoscevano diverse lingue, fra cui la lingua internazionale del tempo?
Recenti scavi nella fortezza di Masada, vicino al Mar Morto, hanno apportato alcune sorprendenti conferme a quest'ipotesi. E noto da tempo che Masada non fu una comune fortezza. Era stata l'ultimo baluardo dei ribelli ebrei contro i romani, il loro ultimo rifugio dopo la caduta di Gerusalemme nel 70 d.C., il luogo dell'assedio degli ebrei più valorosi, disperati e nazionalisti. Infatti la fortezza cadde in mano ai romani solo nel 73 d.C. e il suicidio in massa dei suoi difensori è una delle pagine più gloriose della storia nazionale di Israele, al punto che ancora oggi è là che pronunciano il loro giuramento le reclute di alcuni reparti dell'esercito israeliano.
Nella fortezza di Masada sono stati recentemente trovati frammenti di papiro e cocci con nomi, somme, note relative alla distribuzione del grano ecc. Le scritte sono sia in aramaico che in greco, il che significa che persino quei difensori disperati, che avevano tutte le ragioni per disprezzare e rifiutare quella lingua internazionale, accettavano e usavano il greco con grande naturalezza. Si trattava dunque di persone assolutamente bilingui, contemporanee dei discepoli e degli apostoli, degli autori dei primi scritti del Nuovo Testamento.
In passato, molti teologi hanno guardato con scetticismo alla conclusione cui erano giunti gli storici, e cioè che, nella Palestina del tempo di Gesù, anche le persone «comuni» conoscevano più di una lingua. L'esistenza di pietre tombali scritte in greco ed ebraico, le iscrizioni delle sinagoghe e molte altre testimonianze raccolte qua e là confermano le scoperte di Masada. In Palestina, in mezzo a un popolo estremamente geloso del suo rapporto con Dio, nazionalista ad oltranza nel suo fervore politico e religioso, c'erano senza dubbio persone che conoscevano e praticavano le due lingue. Se persino gli zeloti nazionalisti di Masada, nella loro ultima difesa contro i romani, usavano il greco e l'aramaico, è difficile dubitare che non facessero l'o stesso persone come i primi discepoli, che vivevano e lavoravano lungo una strada commerciale internazionale.
Un ultimo esempio. A Seffori, c'era una scuola dove si parlava greco e c'era soprattutto un magnifico teatro. Situata a soli 6 km da Nazaret, la cittadina, che doveva avere allora circa 25 mila abitanti, era stata la capitale della Galilea fino all'anno 18 d.C. circa (e cioè fino al tempo della fanciullezza e della prima educazione di Gesù). Il teatro poteva contenere fino a 5.000 spettatori a sedere. Basandosi proprio sull'esistenza di un simile teatro, all'archeologo e studioso del Nuovo Testamento, Benedict Schwank, è parso molto ragionevole concludere che nella Galilea del I secolo non erano solo le classi alte a comprendere il greco, se questa era la lingua delle rappresentazioni teatrali.
Molto prima dell'invenzione della televisione, infatti, la maggior parte della gente della regione, a qualunque strato sociale appartenesse, doveva conoscere abbastanza greco da potersi divertire andando a teatro. E a giudicare dalla capienza di quel teatro non dovevano essere in pochi a farlo. E molto probabile allora che lo stesso Gesù, cresciuto nella città di Nazaret, abbia subito l'influsso culturale della vicina capitale.
Possiamo ragionevolmente pensare che anch'egli si recasse là e prendesse parte a quello che vedeva e apprezzava la sua gente, quella gente alla quale, anni più tardi, avrebbe rivolto il suo messaggio? I discepoli di Gesù potrebbero aver frequentato i teatri, a Seffori o altrove? La struttura del Vangelo di Marco, che alcuni pensano rifletta la struttura della tragedia greca, potrebbe essere stata influenzata dalla partecipazione dell'evangelista alla vita culturale della Palestina, prima di diventare uno scrittore cristiano? Seffori è il posto giusto per far nascere domande del genere.
La Palestina del tempo di Gesù era una regione fiorente e poliglotta. Del resto il teatro di Seffori non era l'unico. Giuseppe Flavio ricorda l'esistenza di altri tre importanti teatri in quel tempo, tutti costruiti da Erode il Grande: a Cesarea, ora completamente portato alla luce e molto ben ricostruito; a Gerico; a Gerusalemme.
E troppo azzardato pensare che le frasi-chiave delle opere teatrali siano entrate nel linguaggio? Negli Atti c'è un passo molto interessante, là dove Paolo racconta al re Erode Agrippa Il il suo cammino per giungere alla fede in Gesù Cristo. Ricorda l'esperienza sulla via di Damasco e quello che Gesù gli disse in quell'occasione: «Saulo. Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo » (At 28,14). Abbiamo qui, messa in bocca a Gesù, un'espressione che probabilmente viene dalla tragedia greca. Si trova quasi alla lettera nell'Agamennone di Eschilo e, in forma molto simile, in una sua opera precedente, il Prometeo liberato.
La versione del Prometeo è particolarmente interessante, dal momento che quelle parole sono pronunciate da Oceano, uno degli «dèi» greco-romani, ora soppiantato da Gesù, come Paolo spiega agli ateniesi nel capitolo 17 degli Atti. «Perciò prendimi come tuo maestro e non ricalcitrare contro il pungolo», dice Oceano. Paolo fa il suo racconto non solo davanti a Erode Agrippa II, buon conoscitore della cultura greco-romana, ma anche davanti al procuratore romano della Giudea, Porzio Festo. Un'allusione così esplicita a quella scena, che essi certamente ben conoscevano, non doveva mancare il suo effetto. Del resto, l'espressione era ben presto diventata popolare nella letteratura greca, essendo stata usata anche da Pindaro ed Euripide, dove, ancora una volta, era un dio, Dioniso, a parlare. Diciamo, per inciso, che Paolo si riferisce a uno scrittore greco di teatro anche in un'altra occasione. Scrive ai Corinti: «Non lasciatevi ingannare: "Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi"» (1Cor 15,33). La frase si trova in una commedia di Menandro, ma potrebbe essere stata inizialmente nella tragedia di Euripide, Eolo, ora perduta.
Per ben tredici volte nei Vangeli si pone in bocca a Gesù il termine «ipocrita». Ora, «ipocrita» significa «attore», ed è stato proprio Gesù a rendere popolare il termine nel suo senso metaforico. E stato influenzato in questo dal teatro? Naturalmente non si può provare per nessuna di queste espressioni che si tratti di citazione diretta da un'opera teatrale. Dato che erano ben presto diventate quasi proverbiali, queste possono essere state adoperate come espressioni a tutti note; tanto più che le tragedie o le commedie classiche, dopo la fine del I secolo, erano rappresentate molto raramente, essendo state sostituite, come forma di trattenimento popolare, dai mimi e dalle pantomime.
Ma pensiamo a un predicatore che debba preparare una predica, per esempio, sulla tentazione. Usando la famosa battuta di Oscar Wilde: «Posso resistere a tutto, eccetto che alla tentazione», saprebbe (e lo stesso penserebbe anche della maggior parte dei suoi ascoltatori) chi è l'autore di questa battuta spiritosa. Non è dunque improbabile che ci siano autentiche citazioni dalla tragedia greca nei testi del Nuovo Testamento. Sarebbero pienamente giustificate da quello che sappiamo della Palestina del I secolo.
Gesù, che parlò in greco con la donna sino-fenicia vicino a Tiro (Me 7,26), con il centurione romano a Cafarnao (Mi 8,5-13) e con Ponzio Pilato (Gv 18,33-38; 19,8-11), era talmente padrone di questa lingua da poter fare addirittura un efficace gioco di parole. Il famoso detto «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mc 12,17), riportato anche da Matteo e da Luca, gioca sull'iscrizione che si trovava sulle monete dell'imperatore Tiberio, in corso a quel tempo, e in particolare su quelle fatte coniare da Ponzio Pilato, le quali recavano in greco, su entrambe le facce, la scritta «Cesare». Fra il 37 e il 67 d.C. non fu coniata in Palestina alcuna moneta che recasse lettere o parole ebraiche o aramaiche. Le iscrizioni sulle monete erano in greco e si supponeva che tutti le comprendessero. Ora, è appunto su tali monete con quella precisa scritta che Gesù basa il suo insegnamento. Ciò ha fatto dire allo studioso Benedici Schwank che, in quel caso, non solo Gesù usò il greco, ma si aspettò anche che i suoi ascoltatori afferrassero il gioco di parole e la sottigliezza del suo ragionamento. Si tratta in realtà di un detto che è praticamente impossibile tradurre in modo soddisfacente in aramaico, come invece si può fare con moltissimi detti di Gesù, anche perché la moneta alla quale si riferisce non è mai esistita con una scritta aramaica.
In questo caso Gesù, non solo riconosce l'autorità dello stato in materia fiscale e insieme afferma l'autorità di Dio che resta al di sopra di quella dei cesari, ma pone anche una netta distinzione fra l'autorità dello stato, che è limitata, e la sola autorità che meriti una venerazione illimitata, quella di Dio. Per quante effigi e iscrizioni gli imperatori possano aver coniato sulle loro monete, per quanto possano essersi dai i da fare per farsi chiamare sommi sacerdoti e figli di padri innalzati al rango degli dèi, la suprema autorità è unicamente quella di Dio. Discutere di tutto questo, prendendo spunto da una moneta. e in greco, suppone molto più di una semplice conoscenza approssimativa in fatto di teologia, politica e lingua da parte di Gesù. E non per nulla alla finn della scena si dice che i suoi avversari «rimasero ammirati di lui».
Gesù aveva bisogno di discepoli che fossero in grado di vivere e agire in un mondo così, e qualunque cosa avesse in mente quando li scelse, sapeva che stava scegliendo gente abituata a condurre attività d i respiro internazionale e in grado di parlare più lingue, compresa la lingua mondiale» più importante del tempo.
Forse, ogni tanto, anche Gesù e i suoi discepoli hanno usato il greco come lingua per conversare fra loro. In due occasioni, dopo la risurrezione, ci sono tracce di un tale uso da parte di Gesù. Al sepolcro, Giovanni nota esplicitamente che Maria Maddalena si rivolge a Gesù in aramaico (cf. Gv 20,16), il che lascia ragionevolmente supporre che il discorso precedente fosse stato in greco. Poco più avanti (cf. Gv 21,15-17), Gesù parla con Pietro e introduce sottili sfumature di significato nelle parole «amare», «conoscere» e «pascere», che sono possibili in greco, ma assolutamente impossibili in aramaico o ebraico.
Il riconoscimento di Gesù da parte di Pietro, la famosa «confessione» (cf. Mt 16,13-20), fa un decisivo passo avanti a Cesarea di Filippo, un centro dove la conoscenza di più lingue e in particolare del greco era data per scontata. A quel tempo, Cesarea di Filippo era sede di due santuari che avevano un'importanza non solo locale. Il primo era dedicato al dio greco Pan (da cui l'antico nome greco del luogo, Panea, che riaffiora nel nome attuale, Banjas) e il secondo era il tempio di Augusto, eretto da Erode il Grande, il cui figlio Filippo aveva cambiato il nome di Panea in Cesarea di Filippo, onorando così sia l'imperatore che se stesso.
Gesù sceglie proprio il luogo dove erano confluiti e si erano amalgamati insieme il culto dell'imperatore romano e quello di un dio greco per porre ai suoi discepoli la domanda ,Voi, chi dite che io sia?, e per ricevere da Pietro quella luminosa risposta: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Quale contrasto e quale sfida!
II senso della scelta di quel luogo è ancor più evidente per chi visiti., oggi, il santuario di Pan. Le nicchie sono vuote; le piccole statuette degli dèi che vi si trovavano sono da tempo scomparse; ma ciò che col pisce il visitatore è l'enorme parete di roccia con, al centro, un'enorme e paurosa caverna. Ora fu proprio a Cesarea di Filippo, forse proprio lì,che Gesù disse: «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (Mt 18,18 ).Gesù si aspetta che i suoi discepoli afferrino la differenza che esiste fra la roccia che ospita il santuario di Pan e la roccia sulla quale vuole costruire la sua chiesa. E nella stessa frase promette a Pietro e ai
discepoli che il mondo delle religioni pagane, simboleggiato dalla caverna, il cui «antro» è là, oscuro e spalancato davanti a loro, non riuscirà a sconfiggere la chiesa che egli sta per fondare. Con qualche ragione, nell'espressione «le porte degli inferi» (Ade in greco; Sheol in ebraico, come si trova in Is 38.10), si è voluto vedere un'allusione all'immaginario dell'Antico Testamento. Non è necessario scegliere fra le due espressioni (Ade o Sheol). Entrambe fanno parte dell'immagine del mondo a più strati che Gesù presenta ai suoi discepoli. C'è certamente il concetto tradizionale giudaico delle «porte dello Sheol», le porte della morte., la quale non avrà il sopravvento sulla nuova comunità fondata da Gesù, che invece durerà per sempre. Ma c'è anche un nuovo concetto « strategico »: la sfida a portare il messaggio ai popoli pagani, con la promessa che il mondo sotterraneo, l'Ade della religione e della mitologia greca, non avrà il sopravvento. E quale miglior simbolo per illustrare tutto questo di Pan, il dio spesso inteso nella filosofia e nel misticismo greco come «il dio di tutto»? No, questi dèi e le loro mitologiche «porte di morte» non prevarranno.
Questo passo del Vangelo è certamente basato su una testimonianza oculare (dello stesso Matteo?), dato che fa un riferimento esplicito alla particolare conformazione del luogo in cui si svolse la scena.
(Carsten Thiede, Gesù, Storia o leggenda?, Bologna, 1992, EDB, pag. 27-32)

Finis


“La sua era una posizione ben diversa di quella di Paolo”

La sua missione era predicare ai giudeo-cristiani, e a Roma ce n’era una folta comunità. Avveo già citato Cullmann il quale giustamente sottolineava che: poiché tale fondazione (Roma) secondo Rm 15,20 risale a elementi giudeocristiani, si ha motivo di ritenere che l’apostolo, nella sua qualità di responsabile della missione giudeo-cristiana, sia venuto nella città. (pag. 152)

“ui non stiamo parlando di fonti che "mentono" ma stiamo parlando di autori che riportarono tradizioni che avevano appreso un centinaio di anni dopo che i fatti si svolsero”

Allora sei tu a non capire e a non avere il benché minimo sentore di cosa sia la critica delle fonti (e sì, esiste anche questa materia nelle snobbate università). Una dichiarazione scritta da un vescovo nel 180 non è una tradizione del 180, giacché come ricordato sovente non facevano vescovi la gente di vent’anni, neppure presbyteroi a dire il vero, visto che il termine di questo grado inferiore al vescovo già di per sé in greco significa “anziano” (dal termine deriva il nostro “presbite”, in quando gli anziani sono in teoria deboli di vista). Un vescovo che scrive nel 180 ha come minimo 50 anni. Se costui è nato come l’abaco impone verso il 120\130, avrebbe conosciuto in giovinezza gente che nel I secolo c’è vissuta. Ireneo è il caso più eclatante visto che ci racconta del suo discepolato presso Policarpo, ma anche Dionigi di Corinto è la stessa cosa. Inoltre continui imperterrito a dimenticare le fonti del I secolo che ti sono state citate, come l’Ascensio Isaiae, Papia e il fr. Rainer.

“fino al 170 EV (con Diodoro di Corinto)”

Qualcuno sa chi sia costui?

“Se leggiamo che Clemente cita Pietro e Paolo assiame ma non specifica che Pietro fosse a Roma o morisse come martire”

Clemente non dice che morì come martire? Ripeto quando scrissi l’ultima volta: “Viene da chiedersi cosa cavolo altro potrebbe voler dire in un brano dove si parla di persecuzione, ceppi e catene, di “lottare fino alla morte”, e che dopo “rese testimonianza” prosegue immediatamente con “andò al luogo della gloria che gli spettava”. Non occorre aver studiato patrologia per capire che qui come altrove “doxa” è la morte martire.

“quando le fonti precedenti, il NT, sono tutte contro la presenza di Pietro a Roma.”

Mi si dica dove il NT sarebbe “contro” la presenza di Pietro a Roma, perché in duemila anni i nostri biblisti non se ne sono mai accorti.

“i suoi riferimento a Pietro sono talmente aspecifici e generici da ipotizzare che sapesso ben poco su di lui.”

Ancora con questa storia? Ma stava scrivendo un trattato storiografico o un’esortazione pastorale? Mai sentito parlare di generi letterari? Ancora non ti entra in testa che la letteratura antica aveva dei destinatari precisi e che non è stata redatta pensando ai nostri storici del XXI secolo.

“Per di più Dionigi e spreciso, parla infatti di Paolo e Pietro insieme a anche a Corinto, fatto di cui non abbiamo nessuna prova storica e che farebbero pensare che lo scrittore non utilizzasse fonti attendibilissime.”

Questo è veramente il culmine. Siccome tu non lo sai allora l’informazione sarebbe falsa! Evidentemente il metro della verità storia è la tua ignoranza di cittadino del XXI secolo, fai come quegli studiosi tedeschi che siccome non trovano menzionato in alcun testo antico la piscina dei cinque portici citata in Giovanni ne avevano concluso che era un’allegoria per chissà quale diavoleria, dalle cinque dita di Jhavè alle cinque porte della città celeste (finché nel XX secolo gli scavi archeologi la misero in luce mandando in soffitta queste ipotesi). Ma sopratutto, quante opere storiografiche di quel periodo di sono rimaste? E, colmo dei colmi, quante opere che parlino della Chiesa di Corinto ci sono state tramandate, se mai furono scritte? Zero. E tu, nella tua assoluta ignoranza sulla Chiesa di Corinto, solo perché nel tuo buio totale non conosci un dato, vuoi in base alla tenebra circa la Corinto del I secolo decretare che gli altri mentano Continuo ad insistere che tu vivi nella pia illusione che della letteratura cristiana antecedente al 150 ci sia rimasta una biblioteca, e per giunta una biblica di testi cronachistici fatti apposta per soddisfare la tua curiosità. E si badi, lo si pretende da una società legata allo schema dell’oralità! Comunque c’è un indizio, e non potremmo aspettarci di più, della presenza di Pietro a Corinto. Scrive Thiede: “Pietro si dirige quindi verso Roma, ma non direttamente. Potrebbe avere visitato Antiochia, e forse molte città nell'Asia Minore (cfr. 1Pt 1,1; Eusebio, HE 3, 1,2), forse Corinto (cfr. 1Cor 1,12-14; 9,5: probabilmente una traccia della presenza di Pietro a Corinto con la moglie, che non fa altre apparizioni dirette nel Nuovo Testamento - cfr. Mc 1,29-31 - e muore da martire sotto gli occhi di Pietro, come riporta Clemente Alessandrino, Stromata 7,63,3, ed Eusebio, HE 3,30,2).” (Thiede Carsten Peter, Simon Pietro dalla Galilea a Roma, Massimo, Milano 1999, p. 22[SM=g27989]

Tra l’altro è interessante la riflessione che questo papirologo luterano fa sugli Atti degli Apostoli, in particolare sul versetto che narra la liberazione di Pietro dalla cella quando fu arrestato da re Erode Agrippa I, cioè il misterioso versetto in cui si dice che dopo la liberazione miracolosa dal carcere “se ne andò in un altro luogo”(At 12,17). Quando riporto va ad aggiungersi alle altre motivazioni da me già addotte: “E' comprensibile che Luca non voglia nominare il luogo (o i luoghi) dove Pietro si recò. Il motivo è lo stesso che causò l'omissione del nome di Pietro nel racconto di Luca e Marco (ripreso anche da Matteo) della mutilazione dell'orecchio del servo al Getsemani. Scrivendo mentre Pietro era ancora vivo, e a un alto funzionario romano, Luca vuole evitare qualsiasi cosa che possa compromettere l'attività dell'apostolo (che era legalmente un fuggitivo dalle autorità dello stato) nei confini dell'Impero romano. Luca sapeva dove era andato Pietro e dove si trovava nel momento in cui scriveva, ma rimase zitto. (...)Sebbene non si possa determinare quando Babilonia fu usata per la prima volta come crittogramma al posto di Roma, una tale identificazione è indiscutibile . La scelta di Babilonia (invece, per esempio, di Sodoma o Gomorra) era immediata poiché implicava sia il simbolo del potere e del male, dell'arroganza e della corruzione che sarebbero stati sconfitti dal Signore (cfr. Is 13,1-14,23), sia l'«esilio» della Chiesa cristiana nel centro del paganesimo. Ma qualunque fosse la somma di ragioni che indusse la scelta di Pietro, i suoi lettori sarebbero stati ben consapevoli dei riferimenti della Scrittura a Babilonia. Ce ne sono molti, ma uno è particolarmente illuminante: Ezechiele 12,1-13. Vi sono qui dei riferimenti all'«esilio», alla fuga da Gerusalemme a notte fonda (12,7) e a Babilonia (12,13). Anche se tutti questi elementi sono presenti in questo passo (che contiene, naturalmente, un significato e una profezia molto più ampi e complessi), tuttavia è un altro verso che offre la chiave all'«indovinello» di Luca: «(...) preparati a emigrare; emigrerai dal luogo dove stai verso un altro luogo», recita Ez 12,3. La Bibbia dei Settanta usa l'espressione eis heteron topon, la stessa usata da Luca per indicare la destinazione di Pietro. L'«altro luogo» è Babilonia, e Babilonia è Roma.
I tempi erano maturi, pare, per l'uso simbolico di «Babilonia» per significare Roma fra i cristiani che vivevano o si trovavano nella capitale dell'Impero alla fine degli anni 50 o all'inizio degli anni 60, e i regni di Claudio e Nerone offrivano abbastanza materiale esemplificativo” (ivi)

Quest’interpretazione, che non è di Chiede ma molto antica, ha illustri sostenitori. Un esempio è Marta Sordi, la grande storica dell’impero romano. Scrive: “Gli Atti raccontano che Pietro, liberato miracolosamente dal carcere, “se ne andò in un altro luogo” (At 17,17). In uno studio recente F. Grzybek (Les premiers chrétiens et Rome, in “Neronia” VI (Coll. Latomus) Bruxelles 2002, pag. 561ss.), riprendendo una proposta del Chiede (Babylon der andere Ort, in “Biblica” 67, 1986, pp. 532 ss.), ricorda che i commentatori antichi e moderni vedono in questo “altro luogo” Roma ed accosta questa espressione a quella identica di Ezechiele 12,3 e 12,13 in cui “un altro luogo” è Babilonia. Il nome di Babilonia per indicare Roma torna nei saluti finali della I Petri 5,13, inviati ai cristiani dell’Asia minore dalla “comunità degli eletti che è in Babilonia, insieme a Marco, mio figlio”.” (M. Sordi, I cristiani e l’impero romano, Milano, 2004, Jaka Book, pag. 31-32)

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Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
(Κ. Καβάφης)
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