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L'autorità romana

Ultimo Aggiornamento: 14/02/2007 15:53
01/02/2007 21:25
 
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Nel tuo messaggio a Luigi insisti poi nel dire che vogliamo dare più credito a testimoni del quarto secolo rispetto a quelli del primo (cosa che tu fai con Porfirio), e io mi chiedo se pensi ancora che qualcuno ti dia retta. Dici che nel secondo e nel terzo secolo si parla di Pietro in coppia con Paolo ma senza specificare il periodo e la città in cui avrebbero operato insieme. Questo è falso: appartengono infatti al secondo secolo fonti come Ireneo di Lione che specificano il luogo in cui i due avrebbero operato, per non parlare del terzo secolo dove la tradizione è indiscussa, come del resto lo era prima. Ed è falso che nel 170 si faccia strada l'ipotesi del martirio di Pietro a Roma, infatti come ripeto per l'ennesima volta una fonte scritta da un vescovo nel 170 non è una tradizione del 170, a meno che voi non vogliate seriamente dire che questo vescovo abbia scritto una tradizione appresa un mese prima, e non invece qualcosa che nella sua veneranda età sapeva essere solido. Per non parlare del fatto che per l'ennesima volta dimentichi Papia, che è morto 20 anni prima della data che tu indichi, dimentichi il fr. Rainer e l'Ascensio Isaiae. Ed è falso che solo nel terzo secolo Clemente Alessandrino affermi che Pietro avrebbe predicato a Roma, infatti in questo modo si dimenticano sia la testimonianza di Dionigi vescovo di Corinto, sia quella di Ireneo il quale dice che in virtù della tradizione che i romani hanno ricevuto da Pietro ogni Chiesa dev'essere d'accordo con loro, sia la testimonianza indiretta di Ignazio secondo cui Pietro e Paolo avrebbero dato ordini ai romani. L'unica cosa corretta che hai detto, è stato il domandare a Spirito Libero da dove abbia evinto che Pietro abbia soggiornato a Roma imprigionato, e per giunta deportato, affermazione che non riesco proprio a spiegarmi. Inoltre Eusebio non è un fervido difensore della presenza di Pietro a Roma, semplicemente ne parla, non aveva nessuno che mettesse in dubbio questa tradizione da dover smentire. Non siamo cioè di fronte a un silenzio del nuovo testamento e a delle informazioni frammentarie cent'anni dopo, come ci si ostina a dire: siamo dinnanzi a fonti che sin dal primo secolo ci raccontano del martirio dell'apostolo, sebbene in un genere letterario che non è quello della storiografia, cosa del resto piuttosto rara nella produzione della letteratura cristiana antica, che non conosce una vera storia ecclesiastica fino ad Eusebio. Io trovo veramente esasperante la faciloneria con la quale il mio interlocutore si accosta a questi argomenti, il come pretenda di parlarne e di capirli, non capendo quello che io ripeto da sempre: ossia che gli ingegneri costruiscono i ponti ed i grecisti parlano di storia antica. Assistiamo infatti a cose squallide, Barnaba che si permette di parlare di diritto romano e di asserire che per lui è strano vedere come Ignazio venga traslato a Roma per essere ucciso, e lo dice come se sapesse qualcosa di storia del diritto romano e dunque il suo stupore valesse qualcosa. O vogliamo prendere la mezza verità secondo cui la testimonianza di Porfirio per Harnack sarebbe credibile perché "pur riportata da un cristiano non segue la tendenza celebrativo/leggendari che si stava manifestando"? Vale a dire che bisogna ritenere attendibile la fonte in quanto viene citata da un cristiano, e se qualcuno cita qualcosa che va contro i suoi interessi allora è attendibile. Non è questo il senso del "pur riportata da un cristiano"? Ma ciò presume che colui che cita Porfirio sia d'accordo con lui, se lo cita infatti per confutarlo non ha senso dire che attendibile perché pur essendo cristiano ha ammesso qualcosa contro il suo interesse, infatti la fonte qualora sia contro la tesi di Porfirio diverrebbe, usando un simile metro, inattendibile, in quanto è un cristiano interessato a fare apologetica. Tuttavia chi sostiene che Macario Magnete cita il testo di Porfirio perché e d'accordo con lui, non ha mai letto il testo in questione, e dunque meglio che taccia, giacché l'Apocrithicus altro non è che una confutazione sistematica di tutte le calunnie di Porfirio contro i cristiani. Se si sostiene invece che la fonte è attendibile in quanto viene da un non cristiano, vale quanto ho detto prima, cioè come possibile che un pagano del quarto secolo conosca le tradizioni ecclesiastiche meglio dei vescovi del secondo secolo. Vorrei fare una riflessione generale…
Come ci si può accostare al mondo antico non avendo neppure le nozioni base che permettano di muoversi in questa realtà… senza conoscere la cultura e la società di quelle epoche,una cultura che sarebbe utile per capire che le tradizioni non spuntano come funghi e che ci sono dei precisi modelli di antropologia sociale del mondo antico che permettono di escludere che tradizioni così diffuse come quella di Pietro a Roma vengano inventate dal nulla, e sia in così poco tempo sia in una tale vastità geografica. Questa gente non sa cioè come muoversi, per questo è difficile rispondere alle loro argomentazioni, non perché siano puntuali e precise, ma perché sono così banali e ingenue che per rispondervi occorre fare un discorso larghissimo in modo da spiegare il contesto, e si perde una marea di tempo. Questa gente non sa e non si rende conto di non sapere.
Mi si obietta da ultimo a proposito dell'ascensione di Isaia che non ci si spiega come mai l'autore rimanga sul vago se la tradizione era sicura. Ma io mi chiedo seriamente se Barnaba mi stia prendendo in giro. Come già detto non abbiamo che fare con un testo di storiografia, e soprattutto l'autore non stava pensando a noi del ventunesimo secolo. Deve togliersi dalla testa che chiunque scriva lo faccia con lo scopo della Torre di Guardia, siamo davanti a testi che non hanno alcuna intenzione di difendere la presenza di Pietro a Roma, per la semplice ragione che non c'era una controversia sulla presenza di Pietro a Roma. Non ha senso dunque formulare frasi del tipo “non è stato preciso perché aveva paura di essere sbugiardato”. Questo è un testo apocalittico, io mi chiedo seriamente con quale intelligenza si possa pretendere che uno scrittore in un testo simile si metta a precisare in primo luogo di chi sta parlando, in secondo luogo addirittura quali sarebbero i suoi spostamenti e per quanto tempo sarebbe stato nei luoghi che a noi interessano. Lo scopo di quel testo è unicamente dire che Pietro è morto nella persecuzione di Nerone, e questo è un segno escatologico della pienezza dei tempi. Sarebbe come stupirsi del fatto che Giovanni nel descriverci “Babilonia la Grande” non si metta a dirci che il suo vero nome è ONU, o, per qualunque biblista serio: Roma imperiale .
Sarebbe, per fare un altro esempio, come aspettarsi che nella descrizione dell'agnello mistico fatta da Giovanni Evangelista, l'autore si mettesse a raccontare chi era il procuratore di Giudea quando venne ucciso, e narrando di come l'agnello sia stato sgozzato, l'autore precisi in nota a piè pagina che in realtà si è trattato di una crocifissione. Non passa il vizio, per arrampicarsi specchi, di pensare che tutti stiano scrivendo nella menzogna, che tutti abbiano scopi apologetici, e che tutti non siano in grado di dargli le prove che lui si aspetta. In realtà a questi autori del nostro Barnaba non frega assolutamente nulla, come non fregava nulla di noi moderni, a loro interessava soltanto, davanti a un pubblico pienamente preparato a quello che stavano scrivendo, di comunicare che la fine era vicina, e che essa era manifestata in terribili segni.
E’ ritornato fuori l'argomento di Aniceto, e io mi chiedo con che coraggio visto che l'abbiamo già trattato, ci si aspetterebbe che prima di ripetere le stesse cose si prendano in considerazione le argomentazioni del proprio interlocutore. Avevo già scritto che la data della domenica non è una questione dogmatica ma di tradizione ecclesiale, è della stessa importanza del digiuno del venerdì e del giorno di carnevale. Innanzitutto vediamo come questa sia solo l’ennesima conferma del primato d’auctoritas romano, infatti Policarpo va a consultare la Chiesa di Roma. Aniceto e Policarpo non riuscirono a trovare un accordo sulla questione quartodecimana e così riconobbero vicendevolmente valide entrambe le prassi ecclesiali. Il che era una soluzione saggia, nulla vietava che potessero coesistere insieme: celebrarono la comunione eucaristica e si separarono in pace (Dalla lettera di Ireneo a Vittore, in Eus, Storia Ecclesiastica, 24,16). Policarpo in quell’occasione si richiamò a Filippo e a Giovanni, di cui era allievo. Perché Roma non si richiama a Pietro? Aniceto non poteva gloriarsi, come Policarpo, di rapporti diretti con gli apostoli. Inoltre un mancato richiamo agli apostoli di Roma si può facilmente spiegare con la coscienza che la comunità di Roma aveva del fatto che la cerimonia pasquale di domenica era stata introdotta di recente e non risaliva all’età apostolica. (Per tutto questo si veda O. Cullmann, Il primato di Pietro, pag. 153). Non ci si è cioè richiamati a Pietro perché si sapeva che non fu lui l’iniziatore di questa tradizione. Se Barnaba vuole cioè usare contro di me il fatto che Aniceto non si richiami a Pietro nella controversia sulla domenica, dovrebbe postulare che Pietro fosse favorevole a celebrare la Pasqua in tale data. Ma noi sappiamo bene che non può farlo, infatti testimoni di Geova nelle loro riviste portano avanti la ridicola convinzione che la messa di domenica sia stata introdotta al tempo di Costantino nel quarto secolo, dunque perché mai si stupisce del fatto che Aniceto non si sia richiamato all'autorità di Pietro? Quest'obiezione ha senso solo se Barnaba crede che Pietro fosse d'accordo con la Pasqua di domenica, perché solo in quel caso è strano che non ci si richiami a lui come autorità.
Un giorno dovrò pure dire due parole sul povero Costantino e su Nicea, due argomenti assolutamente bistrattati nelle pubblicazioni dei testimoni di Geova, grazie a tutta una pseudo-letteratura, che vive nella mitologia secondo cui Costantino sarebbe il vero creatore della Chiesa e della divinità di Cristo, nonché dell'affermazione secondo cui egli sarebbe stato un pacchiano seguace del culto solare battezzatosi solo in fin di vita e per giunta ad opera di un vescovo ariano. Sarà il caso un giorno di far luce su tutta una serie di clichés, ma non oggi.
Si passa poi ad obbiettare che Giustino martire parli nella prima apologia di Simone il mago, ma non accenni a Pietro.
La domanda anche qui è perché mai dovrebbe parlarne, visto che stava semplicemente elencando all'imperatore degli uomini che si erano fatti divinità, e a tutti questi ciarlatani i romani hanno creduto, perché dunque arrabbiarsi con i cristiani che fanno la stessa cosa con un altro uomo?
Una tradizione vuole appunto che Pietro sotto l'impero di Claudio, quindi prima di Nerone, forse venuto a Roma per contrastare il mago, e questa tradizione è riportata da Eusebio, ma non è di nessuna rilevanza difenderla o confutarla infatti io sto difendendo il soggiorno petrino sotto Nerone, e di un ipotetico soggiorno sotto il precedente imperatore non me ne faccio nulla, posso anche negarlo. Quanto a Clemente ho già ricordato perché è citato, ossia per le strane coincidenze di quel testo. Infatti Clemente fa capire che l'invidia e la gelosia che portarono alla morte della “folla” di cui parla, sono la denuncia alle autorità romane fatta fra cristiani: e nella stessa situazione versava ora la comunità di Corinto a cui il vescovo di Roma si rivolge. Siccome prima della persecuzione di Domiziano, che è quella che ha in mente Clemente e lo scopo della lettera, c'è stata solo la persecuzione di Nerone, ed è stata solo a Roma, non è possibile attribuire a nessun altra comunità di il fatto che denunce di fratelli causino la morte se non a Roma negli anni 60 del primo secolo. Vale a dire che il quadro descritto per il martirio di Pietro e Paolo in quella lettera, guarda caso di nuovo accostati, non è compatibile con nessun altra comunità fuorché Roma.
Se c'è una cosa che non sopporto nei testimoni di Geova e come essi per darsi una parvenza di scientificità, per fare cioè passare la loro eruzione come una cosa seria, citino accademici, che loro non hanno tra le loro file, e perennemente a sproposito.
L'ultima truffa è la tua frase in cui si dice " Cullmann chiarisce il senso della frase, dice:" io non vi do ordini come farei se fossi Pietro Paolo" ma gli ordini dati dagli apostoli sono quelli scritti e contenuti nelle lettere e negli Atti".
Questo è un autentico caso di frode, giacché è l'esatto contrario, Cullmann cita davvero questa interpretazione, ma la cita solo per smentirla, e per l'ennesima volta mi chiedo se tu sei diventato masochista, perché sai benissimo che ho questo libro e dunque non ti conviene mentire come stai facendo, in poche parole la strategia teocratica non attacca. In più, ancora una volta, si tratta di un pezzo del libro di Cullmann che io ho citato, in cui autore dice giustamente che dà da pensare come proprio in questa lettera ci sia l'accostamento di Pietro Paolo, che non può essere definito affatto canonico e automatico alla data in cui fu scritta. Abbiamo una costante nelle lettere di Ignazio, egli cita gli apostoli soltanto nelle lettere rivolte a quelle comunità in cui essi hanno presieduto, motivo per cui ad esempio cita Paolo agli Efesini chiamandoli "coiniziati di Paolo", ma non lo cita ad esempio ai cristiani della Magnesia, che di fondazione apostolica non erano.
Egli dice giustamente che non esiste traccia nella letteratura cristiana antica di alcuna lettera di Pietro ai romani, e non si capisce dunque in che senso Pietro diA allora ordini, perché cioè, se si tratta di ordini risaputi in quanto generalmente apostolici, si citi lui e non uno qualunque degli altri apostoli.
Anche perché come giustamente è stato detto coloro che si oppongono alla presenza di Pietro a Roma sono avversari del primato, se dunque Pietro non era nessuno di speciale rispetto agli altri 12, perché accettarlo accoppiato a Paolo proprio in una lettera ai romani? Si dirà che è una comunque delle tre colonne, ma allora perché non citare Paolo ad esempio con Giovanni, che tra l'altro è l'autore di un Vangelo e dunque ha ammaestrato i romani sicuramente di più di un Pietro che non hanno mai visto? Per giunta c'è quel verbo, “dare ordini”, che non è esattamente una cosa neutra, non è un'esortazione per lettera, non è l'aver letto delle gesta di un santo in un racconto come gli Atti, è appunto un “dare ordini”. Ecco perché gli autori protestanti, e Cullmann in primis, vedono qui un cenno alla presenza e al martirio di Pietro e Paolo a Roma. E in questo punto del “dare ordini” Ignazio parla anche del suo martirio, ne parla proprio ai romani, e mentre parla del proprio martirio a questa comunità guarda caso cita Pietro e Paolo.
E’ proprio il caso di fare due più due. Dice di essi che ora sono liberi mentre lui è ancora schiavo, con evidente riferimento al lessico martiriologico. Ma di tutto ciò ho già parlato. Citi poi il post di Spirito dicendo di essere d'accordo con lui, ma il suo ragionamento è un cumulo di contraddizioni. Dice giustamente che a un vescovo di un'altra Chiesa era possibile comandare i cristiani di altre comunità, o più che comandare sarebbe corretto dire che poteva dar loro istruzioni, ma sempre in conformità con il vescovo locale. Vediamo infatti dalle lettere di Ignazio che egli non a fatto altro che impartire ordini ovunque, e tra questi ordini c'è quelli di obbedire al vescovo locale. Ma allora si pone il problema del perché non faccia lo stesso trattamento ai romani, perché non dà dei comandi anche loro, e anzi dice che non ha nulla da insegnare perché anzi sono stati loro che hanno sempre insegnato agli altri? Una cosa simile si spiega solo con una predicazione diretta del principe degli apostoli a Roma. Se come Spirito sostiene Ignazio stava semplicemente parlando del modus operandi degli apostoli di impartire le loro direttive a tutte le chiese indipendentemente da quale Chiesa fondarono o diressero, non si capisce perché solo con i romani lui si premure di non dare ordini mentre ad altre comunità come Efeso o Smirne né da eccome; anche queste infatti erano state dirette da apostoli, anzi erano di fondazione apostolica. Non si spiega cioè perché proprio ai romani dica che in ragione degli ordini di Pietro e Paolo non possa dare ordini a loro. Con la tua lettura riduttiva secondo cui si sta parlando dell'uso apostolico "di impartire le loro direttive a tutte le chiese" indipendentemente da quali diressero, se ne dovrebbe ricavare che non dà più ordini a nessuna comunità, infatti tutte avrebbero ricevuto ordini di questo tipo dagli apostoli, e invece non avviene nulla di tutto ciò che questo paradigma implicherebbe (cioè il non dare più ordini a nessuna comunità in quanto tutte sono state dirette da lontano dagli apostoli), avviene il contrario: cioè che in alcune, anche di fondazione apostolica diretta, dà ordini, mentre alla sola Roma dice di non poter dare ordini in virtù del fatto che a loro li diedero Pietro e Paolo .
Per di più non è affatto corretto sostenere che in età apostolica qualunque apostolo dirigesse qualunque comunità, un conto infatti è parlare di istruzioni generali e di correzione fraterna, ma quanto alla direzione diretta di altre comunità questa spettava all'apostolo che l'aveva fondata, infatti c'è un passo della lettera ai romani in cui Paolo si scusa esplicitamente di scrivere a quella comunità visto che non ha fondata.
Con la morte degli apostoli, nell’ età subapostolica, cioè al tempo di Ignazio, le cose cambiano: siamo all'interno di una koinonia cristiana in cui i vescovi sono i successori degli apostoli, una comunità unita dall'amore reciproco e dalla comunione intereccelsiale. Inoltre per l'ennesima volta nella lettura di Spirito non si spiega neppure come mai citi proprio Pietro e Paolo, se si riferiva semplicemente al fatto che gli apostoli dirigevano tutte le comunità, perché citare proprio Pietro per Roma e non ad esempio Giovanni o Filippo o chiunque altro? E ora una frase che non ho compreso. Non capisco cioè perché se Paolo e Pietro insegnarono a Roma, Ignazio allora non avrebbe dovuto specificare che non si trattava di una lettera di ordini alla comunità, è esattamente il contrario. Proprio perché sa dell'autorità dei due apostoli e della comunità, e tuttavia si tratta di un'autorità non ancora canonicamente definita, Ignazio specifica che non pretende di dare ordini a quella Chiesa, come invece fa alle altre, in ragione di Pietro Paolo. Non siamo ancora davanti ad un vescovo del XI secolo che scrive ad un papa, in questo caso infatti sarebbe strano trovare scritto: “Santità, non voglio darle ordini”.
Siamo nell’ambito non della canonistica ma del primato di fede e dottrina della comunità romana, nell’ambito mentale di Roma come pietra di paragone della retta dottrina. Quando Ignazio dice: “non vi do ordini come Pietro e Paolo” non si tratta di una sua difesa, semplicemente di un elogio, non ha cioè in mente scrupoli canonistici, unicamente sa che la comunità di Roma non ha bisogno del suo aiuto.
Pregherei poi Barnaba di astenersi dal fare commenti sulla teologia cattolica se non la conosce, è già abbastanza deprimente sentire i suoi fratelli in fede che cercano di confutare la Trinità quando invece hanno di mira il modalismo: nulla di più deprimente che sentirsi domandare dal proclamatore di turno: " se Gesù è Dio con chi stava parlando quando era sulla croce?". Allo stesso modo se non hai idea di cosa sia la tradizione per i cattolici evita di parlarne. Non sai ancora la differenza fra la Tradizione e le tradizioni, ci sono dei contenuti di fede che fanno parte della tradizione, mentre ci sono per l'appunto tradizioni che non fanno parte di questo corpus, ad esempio è Traditio che Pietro sia morto a Roma, mentre è una tradizione che sia stato crocifisso a testa in giù. Quanto parliamo di Tradizione infallibile e deposito di fede è la prima casistica. Questo fraintendimento delle modalità del magistero cattolico viene ai TdG dalla forma mentis che si sono fatti nella loro organizzazione, infatti presso lo Schiavo tutto ciò che viene scritto sulle riviste è dogma, sebbene nulla a questo nome. La strategia orwelliana di evitare le parole scomode ma di rifilare gli stessi concetti con un altro nome è assai conosciuta in sociologia. In questo caso non esiste per il TdG la possibilità di contestare neppure il più piccolo particolare degli insegnamenti dottrinali dello Schiavo, dunque credono che questo “o tutto o niente” sia anche il modus operandi della teologia cattolica.
Per finire occorre ribadire che al confronto di una del tutto ignota morte babilonese la morte in Itlia è una tradizione del tutto ecumenica. La incontriamo per la Grecia a Corinto con Dionigi, nell’Asia minore e in Gallia, a Smirne e Lione, in Turchia a Gerapoli con Papia, in Egitto e in special modo ad Alessandria con Clemente ed Origene, a Cartagine con Tertulliano, e nella stessa Roma ovviamente. Della serie: o questo è un inganno globale o la pretesa di Roma doveva avere qualche fondamento per poter fare così tanta strada.

E ora veniamo al post di Esprit Libre. Non so cosa sia più in irritante, se la pretesa di Spirito di aver capito qualcosa o il fatto che pretenda che il mondo accademico stia dalla sua parte. I suoi posto sono un cumulo di contraddizioni, prima mi dice che vuole sostenere che Roma ebbe un primato perché era la capitale dell'impero, poi alla fine del messaggio mi dice che non era questo il suo obiettivo e che intendeva semplicemente mostrare che la successione apostolica petrina non sta a Roma. Iniziamo dal principio.
La mia critica alla posizione del canone 28 di Calcedonia non ha ottenuto una risposta soddisfacente. Devo ricordare a tutti che non sei riuscito a produrre alcuna testimonianza antecedente a questa del quinto secolo in base alla quale si deduca che Roma deve la sua posizione in seno alla cristianità a qualcosa che abbia a che fare con l'economia, la politica, o la cultura imperiale in generale. Se ho detto che questa fonte è irrilevante è appunto perché si tratta di qualcosa scritto a secoli e secoli di distanza dai fatti di cui vuole parlare, e viene da chiedersi come è possibile che a fine post si rigetti un mio brano di Girolamo classificato come “tardo” perché del IV secolo, ed invece qui si proclami l’impossibilità di mentire di una fonte composta quando il santo dottore stava già nella tomba. Evidentemente non conosci la storia dei tentativi di emancipazione di Costantinopoli, perché altrimenti sapresti cosa si intende con cesaropapismo bizantino, cioè il fatto che Costantinopoli non tenta neppure di nascondere che deve tutta la sua legittimazione religiosa al fatto di essere la sede dell'imperatore, e che l'imperatore stesso fa di tutto per far sì che la Chiesa della sua capitale sia la più potente. In questo clima è oltremodo ovvio che l'unico modo per sentirsi alla pari di Roma era dichiarare che il potere della vecchia capitale aveva la sua origine nella stessa radice in cui risiedeva il potere della nuova capitale, cioè il potere imperiale. Tuttavia questa posizione del quinto secolo come già detto non trova alcun riscontro nei documenti precedenti, e dunque viene da chiedersi perché dovremmo accettarla, anche perché non a caso l'Occidente sapendo che non era questa l'origine del suo potere ha abrogato esplicitamente questo canone, e non si può dire ecumenico un canone che non sia stato votato da Roma, quindi non è infallibile (Per di più quel canone fu votato proprio in un giorno in cui i delegati dell’Occidente s’erano assentati, una faccia tosta colossale). Quel concilio in un certo senso ribalta la posizione del precedente concilio di Costantinopoli, fatto nel quarto secolo, in cui si diceva che la nuova Roma era la seconda e veniva subito dopo la prima Roma. Dici inoltre che se il motivo per cui Roma assunse la sua importanza fosse stato nella successione apostolica il concilio lo avrebbe dichiarato, ma così si dimentica che non a caso quella sessione era senza i delegati occidentali, e non a caso si è aspettato di votare in quella occasione. Vorrei inoltre ricordare che definire qualcosa con epiteti ironici, ad esempio acrobazie da trapezista, non è una confutazione degli argomenti stessi. Basterebbe conoscere la storia del concilio di Calcedonia per sapere che i padri orientali sapevano benissimo a cosa Roma dovesse la sua supremazia, e che solo in quella sessione se ne sono opportunamente dimenticati, infatti nella disputa sull'ortodossia circa le due nature di Cristo la controversia fu risolta dall'intervento, seppure a distanza, di Papa Leone Magno, e quando venne letta la sua famosa lettera dogmatica all'assemblea conciliare i padri esclamarono " Pietro ha parlato per bocca di Leone". Inoltre dici che confondono la polis con la comunità che vi predicava, e innanzitutto devo ricordargli che le poleis stanno in Grecia e non nel Lazio, inoltre questa non è una risposta alla mia argomentazione. Infatti onorare una comunità perché essa è sottoposta alle più dure prove, come già detto non nobilita colui che è l'autore di questo mettere alla prova, cioè il torturatore imperiale. Non ha dunque senso dire che si sceglie una comunità come guida perché è la città capitale dell'impero, a meno che questo non voglia dire che siccome sono coloro che hanno sofferto di più, allora sono coloro che meritano di più. Ma appare chiaro che in questo caso la ragione per scegliere la comunità di Roma non è il potere politico dell'impero, ma alla resistenza dei cristiani a questa oppressione. Mentre secondo il criterio del concilio di Calcedonia l'impero diventa un valore positivo e si sceglie Costantinopoli come comunità pari a Roma in quanto ha dalla sua parte l'intero, visto come fondamento dottrinale positivo. A nessun cristiano dei primi secoli poteva saltare in mente una cosa simile, cioè dire che una comunità deve il suo prestigio all'istituzione politica che vi sta dietro. Per di più mentre è sensato dire che i cristiani di Roma sono i più perseguitati nel primo secolo, ciò non assolutamente più senso dopo Domiziano, infatti l'unica persecuzione limitata a Roma è stata quella di Nerone. Si dice inoltre che Ireneo sarebbe smascherato come falsario nel momento in cui dice che la comunità di Roma è stata fondata da Pietro e Paolo, ma evidentemente si ignora il testo originale e si tenta di ragionare in italiano, cosa che a nessun antichista è permessa. Ireneo non era un idiota e sapeva benissimo che nella lettera di San Paolo ai romani l'Apostolo dei gentili dice che non è il fondatore di quella comunità, quindi o credeva di avere un pubblico demente, oppure la tua comprensione delle pretese di Ireneo è errata. Ho già scritto cosa vuol dire quella frase, bisogna infatti tener conto del testo originale, perché non sempre le sfumature semantiche sono rendibili in italiano, motivo per cui di storia antica deve parlare solo chi conosca le lingue dell'ambito geografico di pertinenza. Avevo scritto:" “Il sigillo che il martirio pone alla parola, la consumazione della testimonianza verbale nella testimonianza del sangue versato, ecco ciò che 'fonda e costituisce' la chiesa di Roma nella sua 'più eccellente origine', nella sua più salda autenticità apostolica, nella sua potentior principalitas. Quando la versione latina di Ireneo adopera il verbo fundare (in Adv. Haer. III, 3,1-2), sembra proprio che traduca il greco themelioô, che Ireneo usa subito dopo là dove possediamo l'originale greco. Ora, tra i vari sensi del termine, è "rendere incrollabile', 'fissare per sempre', 'consolidare con fermezza le fondamenta' quello che qui va ritenuto (dal Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Stuttgart, t. 3, 64). Pietro e Paolo, con la loro testimonianza di una Parola evangelica suggellata e glorificata nel martirio e nella morte 'gloriosa', hanno dato alla chiesa di Roma incrollabili fondamenta di una qualità particolare. Inoltre, la presenza dei loro “trofei” i loro corpi e le loro tombe - rende permanente, nella mentalità dei primi secoli, la loro appartenenza alla comunità di Roma. La loro testimonianza diventa il bene proprio della Chiesa che celebra l'Eucaristia sulla loro 'confessione'. Essi fondano così la sua potentior principalitas, che si edifica su di loro.”
Dunque dietro “fundare” sta themelioo, che infatti è il verbo usato dove c’è rimasto l’originale greco. Per di più anche la Vulgata traduce themelioo con fundare, e non c’è di che stupirsi visto che basta aprire un qualunque dizionario di latino per sapere che il secondo significato di “fundare” è “rendere stabile, rendere saldo, fissare” (Nuovo Campanini Carboni), “rendere stabile, rafforzare” (Castiglioni-Mariotti); ergo a prescindere dall’ipotetico testo greco, questa lettura è fondata anche col solo latino superstite.
Bisogna poi dire che è allucinante l'ingenuità con cui ti accosti agli strumenti di lavoro. Hai letto un manuale che serve a sostenere un esame di primo modulo, e pensi che sia in gotha degli studi su qualunque argomento in essa trattato, e quello che è peggio è che non capisci quello che c'è scritto. Ti avevo chiesto infatti dove starebbe scritto che Roma deve la sua preminenza alla sua posizione socio-politica, e oltre a non rispondermi hai detto che non è quello che vuoi sostenere, tuttavia all'inizio avevi difeso la posizione del canone 28 di Calcedonia, contraddicendoti. Il manuale di Filoramo, che per chi non lo sapesse è uno specialista di gnosticismo e non di ecclesiologia, si limita a dire che la frase di Ireneo ha funzione apologetica. Ma io non l'ho mai negato, anzi, uso lo stesso metodo anch'io oggi, egli afferma cioè che il criterio per l'ortodossia di una chiesa è la sua successione apostolica. Ma questo non è un criterio inventato da Ireneo, è qualcosa che esiste sin dal Nuovo Testamento, dove infatti è il concilio di Gerusalemme a riprendere alcuni cristiani che avevano turbato i convertiti di Antiochia in quanto il consiglio apostolico non aveva dato loro alcun mandato tramite l'imposizione delle mani, che è ben attestata sia per l'ordinazione dei diaconi e dei presbiteri che degli episkopoi. Sto cercando cioè di dire che difendere la propria causa non significa dire il falso, si sta cioè escludendo a priori che Ireneo abbia tutte le ragioni per difendersi, e visto il contenuto delle eresie che sta confutando nel Contra Haereses lo credo bene: queste eresie infatti sono delle autentiche cosmogonie gnostiche, e dunque a meno che non si voglia sostenere che Gesù credeva ad arconti e pleroma temo che avesse tutti i motivi di dire che costoro non derivavano dagli apostoli. Si sta cioè escludendo a priori che difendendosi si possa dire il vero, il che è una pregiudiziale incostituzionale. Finora hai solo mostrato che Ireneo avrebbe potuto avere un movente per mentire sulla fondazione della Chiesa di Roma, ma non hai dimostrato che esista una frode, bensì solo che avrebbe avuto un motivo per compierla. Siamo cioè di nuovo caduti nello schema della colpevolezza fino a prova contraria. Inoltre c'è una cosa che non è stata valutata, ossia che Ireneo dice chiaramente che per confutare gli eretici si serve di un esempio a tutti noto, cioè della Chiesa di Roma. La forza della sua argomentazione non sta nel fatto che deve creare una posizione alla Chiesa di Roma ma nel fatto che la Chiesa di Roma ha già questa posizione, altrimenti non avrebbe senso citarla contro gli eretici. Inoltre devo fare un serio appunto al tuo metodo storiografico. Se anche il Filoramo avesse sostenuto la tua posizione, e non è così, o tu mi dici che questo manuale è infallibile, e allora stai credendo ad un infallibilità papale laica, oppure ti decidi a scendere dal piedistallo e mi fai il santo piacere di rispondere quando ti vengono citate delle fonti. Si fa ricerca non parandosi dietro ad un nome e dicendomi che se fosse come dico io di sicuro questo esimio studioso lo saprebbe, perché in questo caso non c'è più nessuna discussione, e inoltre tu escludi la possibilità, e la escludi per ignoranza, che altri studiosi anche più qualificati su uno specifico argomento dicano l'esatto contrario. O un solo autore è diventato il metro di misura universale oppure cioè che non è detto da uno può essere stato affrontato e approfondito da altri (e anche con differenti posizioni, perché è questa la ricerca, altrimenti tagliamo i fondi ai ricercatori e stiamo a crogiolarsi nella conoscenza acquisita). Non si può avere una preparazione specialistica in tutti i campi, e anche conoscendo tutte le fonti su un determinato argomento non significa voler dare loro la stessa interpretazione degli altri studiosi, da qui la necessità di discutere, perché a volte si ragiona in base all'ideologia. Per di più devo confessare che a pagina 196 della mia edizione, quella a cui appartiene la frase da te citata, Filoramo non dice nulla contro questa testimonianza, si limita a fare la constatazione che difende la cosiddetta “grande Chiesa”, senza sbilanciarsi nel dire se avesse ragione o no nel farlo. Il problema come è stato giustamente detto di non conoscere o meno i fatti ma conoscere le categorie storiografiche in cui inquadrarli.
Si dice poi che la mia frase sul martirio non ha senso: intendevo semplicemente dire che quando il cristiano non è in pericolo non ha ragione di desiderare il martirio o di amarlo, mentre il martirio può diventare una cosa positiva quando stai per subirlo, in quel caso infatti la tua vita è finita e contempli il martirio come modo di passare alla gloria celeste.
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Ά όταν έκτιζαν τα τείχη πώς να μην προσέξω.
Αλλά δεν άκουσα ποτέ κρότον κτιστών ή ήχον.
Ανεπαισθήτως μ' έκλεισαν απο τον κόσμο έξω
(Κ. Καβάφης)
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